La prima cosa che dovete sapere sul topo cavalletta dei deserti americani (gen. Onychomys) è che può attaccarvi la peste. La seconda cosa è che non si tratta in realtà di un topo, bensì un lontano parente dell’ospite peloso di un milione di gabbiette, domestico a suo modo, quello che comunemente prende il nome di criceto dorato della Siria. Ma laddove quest’ultimo è tenero, placido e coccoloso, fatta eccezione per particolari situazioni di stress, la sua controparte del Nuovo Mondo è in pratica la chiara personificazione terrigena del Signore della Guerra, seduto nella sua corte sanguinaria sopra un trono fatto con i teschi dei suoi nemici. Perché dico questo? Beh, siamo qui a parlare di un roditore straordinariamente atipico, la cui attività per procacciare il cibo consiste quasi esclusivamente nella predazione. Ovvero una creatura che, incurante della sua lunghezza di 12 centimetri al massimo (a cui la coda relativamente corta ne aggiunge appena 5 o 6) non pensa ad altro nel suo piccolo cervello che uccidere, sbranare, scarnificare ogni cosa sembri in grado di muoversi o respirare. Quindi, a missione e pasto completati, per sfogare i residui istinti omicidi, ciò che ama fare è salire sopra una radice, una pietra o altri luoghi rialzati, gettare indietro il capo ed emettere un suono acuto e prolungato, convenzionalmente paragonato a una versione in scala dell’ululato dei lupi. Affinché nessuno, entro il raggio di 8 ettari, possa venire in mente di invadere il suo territorio.
Queste creature prolifiche ed in grado di occupare un ampio areale, benché per nostra massima fortuna distante dagli uomini ed eventuali “passaggi” verso i paesi d’Europa, hanno frustrato per molti anni i ricercatori, causa la difficoltà di catturare un esemplare a scopo di studio. Ciò perché, diversamente dai topi propriamente detti, non vivono in colonie bensì quasi completa solitudine, fatta eccezione per i periodi dell’accoppiamento due o tre volte l’anno. Ed anche allora, si tratta di una situazione transitoria, poiché non è in alcun modo infrequente che, in un momento d’ira o fame particolarmente intensa, uno dei coniugi uccida l’altro, iniziando quasi subito a fagocitarlo. Ecco perché un altro attributo nominale del crudele roditore è quello di “mannaro” come riferimento al morbo che trasformerebbe gli uomini, o altre specie a loro prossime, in creature notturne prive di alcun senso di raziocinio. Ma il topo cavalletta è in effetti tutt’altro che inconsapevole, dimostrando notevoli presupposti di scaltrezza furbizia operativa. Come potrebbe essere altrimenti, considerata la natura tipica della sua dieta? Stiamo parlando principalmente dei peggiori artropodi dei climi aridi, tra cui tarantole e varie specie di scarabei pinacati (gen. Eleodes) il cui metodo di autodifesa è spruzzare un fluido urticante dal posteriore, capace di arrecare ingenti danni a creature anche più grandi di loro. Una strategia condivisa dal vinegaroon (ord. Uropygi) aracnide dall’aspetto preistorico che produce naturalmente un liquido del tutto simile all’aceto. Entrambi casi, questi, in cui la superiore agilità del topo gli consente di aggirarli e mordergli rapidamente la testa, prima ancora che possano estrarre la metaforica pistola di cui l’evoluzione li ha dotati. Una strategia simile gli permette, nel frattempo, di sfidare e sconfiggere le più imponenti specie di scolopendre o centopiedi. Ma è nel combattere gli scorpioni, che il topo-criceto mannaro riesce a dare il meglio di se, esibendo una caratteristica straordinariamente peculiare. Precise dinamiche biologiche vogliono infatti che egli sia straordinariamente e del tutto immune, persino al pericoloso veleno di scorpioni come quello della corteccia dell’Arizona (Centruroides sculpturatus) che viene trasformato dal loro metabolismo in una sostanza capace di cancellare il dolore. Il che significa in altri termini che, sottoposto ai ripetuti attacchi del pungiglione saettante, il roditore avanza piuttosto che arretrare, continuando ad infliggere morsi che alla fine, distruggono letteralmente il sistema nervoso della preda selezionata.
In questo modo, non c’è nulla che possa effettivamente spaventarli, fatta potenzialmente eccezione per bestie molto più grandi di loro. Anche in questo, tuttavia, i topi cavalletta hanno un vantaggio: essendo così pochi in un area determinata, in forza del loro spirito territoriale, essi non costituiscono una preda affidabile per nessun animale, ragione per cui vengono uccisi soltanto occasionalmente. E nella maggior parte dei casi, per mano umana, in funzione della loro triste nomina di portatori sani del batterio Yersinia pestis, noto in epoca medievale come “la morte nera”. Detto questo, esistono pur sempre le eccezioni…
predatori
Un serpente solitario nella terra dei lombrichi
Nella divisione in caste operata dalla cultura sociale indiana, quella maggiormente degna di rispetto è rappresentata dai bramini, coloro che proteggono e trasmettono gli insegnamenti di ambito religioso. Come la propensione nominale, pressoché assoluta nei veri fedeli induisti, alla virtù della Ahimsa, la non-violenza verso tutti gli esseri viventi. Non è perciò insolito, in un sistema di valori che prevede la reincarnazione in altre forme di vita, che ogni animale, persino il più apparentemente insignificante, venga trattato con il massimo rispetto ed ogni qual volta se ne presenti l’occasione, protetto dai pericoli del fato. Ed è forse proprio da una simile interconnessione di fattori, che prende il nome l’Indotyphlops braminus, il secondo più piccolo rettile della Terra (dopo il camaleonte lungo 30 mm del Madagascar) e senz’ombra di dubbio quello ad essere dotato di un aspetto maggiormente predisposto al fraintendimento. Sarebbe una visione strana e per certi versi addirittura comica: quella di un devoto del culto di Brahma o quello di Ganesh che, chinandosi nel giardino del tempio, scorge la forma lunga 5 cm di ciò che poteva essere soltanto un piccolo lombrico. Quindi con un’espressione compassionevole, allunga la sua mano allo scopo di prenderlo e spostarlo in una zona sicura all’interno di una fioriera, soltanto per vederlo scattare improvvisamente in avanti. Con una velocità impossibile, configurata in sinuoso movimento che nessuno attribuirebbe normalmente ad un anellide, forse la creatura più pacata tra tutti gli abitanti della zona fossoriale. Eppure l’animale oblungo è anche: marrone, dal diametro e colorazione uniforme, con una testa larga esattamente quanto la coda e apparentemente suddiviso in segmenti. È soltanto avvicinandosi maggiormente con lo sguardo, dopo essersi affrettati innanzi per osservare meglio i dettagli, che ci si rende conto di come i segni che suddividono il suo corpo siano in realtà la risultanza di un certo numero di squame, e nella parte frontale corrispondente alla sua indistinguibile testa, siano presenti anche un paio di piccolissimi occhi neri. Non che questa creatura si affidi in modo particolare al senso della vista. Anche considerato il suo soprannome internazionale: serpente cieco comune. Un nome che si sente in molte aree del mondo perché, dalla nativa India, questa creatura ha avuto la fortuna di diffondersi praticamente in ogni continente, raggiungendo anche aree isolate come le Hawaii, dove rappresenta l’unico serpente del suo intero ecosistema. Con un metodo forse tra i più semplici e diretti: scegliere come residenza il vaso da fiori, oppure cumuli di terra trasportata via mare a scopo per lo più agricolo o industriale.
Di sicuro, ad ogni modo, ci sono creature ben peggiori che possano varcare accidentalmente la frontiera. Laddove l’I. braminus, fortunatamente innocuo per l’uomo, non ha altri effetti che ridurre lievemente la popolazione di animali come le termiti o le formiche, la cui straordinaria proliferazione basta a porle in posizione diametralmente opposta al rischio potenziale di estinzione. Così l’animaletto giunge, ben pasciuto e pronto a fare il necessario per nutrirsi, in un ambiente totalmente nuovo e inizia pressoché immediatamente a riprodursi. Questo perché la maggior parte dei serpenti ciechi presenta una suddivisione dei sessi assai particolari. O per meglio dire, la quasi totale assenza di essa, visto che la totalità degli esemplari studiati in maniera formale fino ad oggi era femmina, per di più dotata del grande vantaggio biologico della partenogenesi, ovvero la capacità di fecondare da sole le proprie uova. E che uova! Grandi esattamente quanto lo spazio disponibile nell’apparato corrispondente, affinché il singolo figlio per stagione riproduttiva, una volta venuto al mondo, sia già abbastanza lungo da trovare fonti di cibo adeguate a fornirgli un sostentamento. Come da prassi tipica dei rettili, creature che non praticano l’allattamento. È una sorta di partita cosmica a Snake, se vogliamo, il vecchio gioco per cellulari in cui i pallini commestibili hanno tutti la stessa identica dimensione. E il serpente morirebbe ben presto di fame, se non fosse sufficientemente grande da riuscire a mangiare il primo. Questione assai importante, quando si considera che il Leptotyphlops carlae, più piccolo tra i serpenti ciechi scoperto nelle Barbados nel 2008, può facilmente raccogliere il suo corpo sopra una moneta da 50 centesimi di euro. Ma le particolarità di questi inusitati esseri, pervasivi quanto poco noti in Europa, non finiscono certamente qui…
L’irrazionale paura del pesce che penetra nei genitali
L’esperienza soggettiva di chi visita le vaste foreste brasiliane può rappresentare un momento piacevole, ma anche il giorno in cui ci s’inoltra nelle più oscure profondità del terrore umano. Il superamento di un confine, più ancestrale che turistico, tra la ragionevolezza di una natura per lo più indifferente alle sue espressioni più ostili e sinistre dell’esistenza su questa pianeta. “Fate attenzione ai caimani” affermano le guide turistiche. “Fate attenzione a non attirare i giaguari.” Oppure: “Fate attenzione agli artigli dell’aquila arpia” e più in generale: “Fate. Sempre. Attenzione.” E poi c’è una nota a margine del testo, inclusa quasi come un ripensamento, che recita grosso modo: “Ricordate sempre di non fare il bagno nel fiume senza indossare un costume o la biancheria intima.” Sottinteso: oppure potreste subire terribili conseguenze. Curioso. Il modo in cui, intendo, di tanti pericoli chiari sia quello meno apparente e definito a colpire maggiormente la fantasia delle persone, lasciando un senso latente di terrore che difficilmente può essere allontanato dalla memoria. Al pesce candirù, presunto invasore dei genitali a quanto pare soprattutto maschili, sono stati dedicati interi episodi di Grey’s Anatomy, River Monsters ed Horror Stories della BBC; esso viene citato, inoltre, in almeno due romanzi come una delle cose peggiori che possano capitarti: Il pasto nudo di William S. Burroughs e Fight Club di Chuck Palahniuk. In ciascuna di queste iterazioni, l’aneddoto è per lo più concorde (benché talvolta, venga dato per scontato.) Un uomo, possibilmente appartenente ai popoli nativi sudamericani, entra nel corso d’acqua per urinare, immergendosi all’incirca fino all’altezza delle sue cosce. Mentre esegue l’operazione, quindi, avverte all’improvviso un dolore lancinante localizzato nella parte frontale pene: a quel punto, è già troppo tardi. Un minuscolo pesce semi-trasparente di circa 3-5 cm ha percepito il calore emesso dal corpo umano, dirigendosi come un missile a ricerca verso l’appendice carnosa. Quindi raggiunto il getto giallo paglierino, in qualche maniera è balzato, imitando un delfino, per centrare con precisione chirurgica il foro dell’uretra, dove si è immediatamente ancorato con apposite spine retroattive. E sarà ormai per l’appunto, soltanto un chirurgo, a poterlo rimuovere in tempo utile, pena l’avanzamento della suddetta creatura nello stretto pertugio, fino ai più profondi recessi dell’apparato riproduttivo. Dove l’ospite indesiderato, continua la tenebrosa leggenda, inizierà inesorabilmente a fagocitare quanto gli capita a tiro, causando terribili emorragie interne e quindi, la morte.
Che la cultura televisiva moderna abbia ripetuto e promosso su scala internazionale questa spaventosa quanto complessa evenienza, arrivando al punto di segnalarla come “rischio noto” ai visitatori della regione, la dice molto lunga sulla maniera in cui funzioni l’appeal di determinati programmi e la radice stessa del loro successo. Il fatto che questa storia, d’altra parte, trovi il suo primo studioso occidentale già nel 1829, nella persona del botanico-esploratore tedesco C. F. P. von Martius, parla di un letterale universo d’incomprensioni linguistiche tra gli europei e gli indios, unito al possibile desiderio da parte di questi ultimi di spaventare lo straniero, onde allontanarlo dal proprio villaggio o potenzialmente, prendersi gioco di lui. Dal punto di vista scientifico, il mostruoso candirù è un membro del genus Vandellia, appartenente alla famiglia dei piccoli pesci gatto noti come Trichomycteridae. Sono state identificate negli anni tre specie che potrebbero, ipoteticamente, corrispondere al nome comune dall’origine incerta, il V. beccarii, il sanguinea e il loro simile più comune, nonché potenziale colpevole, il V. cirrhosa. Prove di seconda mano della sua pericolosa propensione tendevano a includere, nei resoconti degli ultimi due secoli, l’osservazione di vari marchingegni o corazze indossate dai nativi per proteggersi i genitali, tra cui l’impiego di un semplice filo allo scopo di chiuderne totalmente il foro d’ingresso. Nel 1891 Paul Le Cointé, naturalista francese, raccontò di aver dovuto trattare una donna che aveva subito l’assalto del pesce nel canale della vagina. Nel suo racconto, sarebbe stato proprio lui ad estrarre la malefica creatura, voltandola con le dita e facendola uscire nel senso contrario alle spine. Questo singolo caso sarebbe rimasto l’unico di un attacco nei confronti di una signora, rincarando l’associazione inscindibile tra un simile essere e una delle più profonde e radicate paure maschili. Ulteriore testimonianza dell’esistenza di un simile pericolo, quindi, sarebbe giunta negli anni ’30 del ‘900, grazie alla testimonianza del Dr. Bach di Parà, il quale raccontava di aver dovuto trattare personalmente alcuni giovani a cui era stato amputato il pene, come rimedio d’emergenza a seguito dell’invasione da parte del famelico candirù, rivelatosi in quel caso resistente alla cura tradizionale del succo dell’albero di jagua (Genipa americana). Ma oggi si ritiene che una causa più probabile della loro condizione fosse stato, semplicemente, un attacco dei ben più familiari piranhas…
Il piccolo erede della tigre tasmaniana
È una progressione logica quanto inevitabile, che ha coinvolto purtroppo svariati mammiferi d’Oceania: con il progressivo ridursi dei territori incontaminati, la specie va incontro a una riduzione di numero, finché inevitabilmente, sparisce dalla vasta terra emersa d’Australia. Quindi, per un certo numero di generazioni, esponenti rimasti isolati sopravvivono in Tasmania: l’isola meridionale grande approssimativamente quanto la Scozia ed altrettanto ricca di prati verdi e foreste (ancora) incontaminate. Quindi a distanza di tempo, prima o poi, le coppie in età riproduttiva diventano troppo poche, la popolazione si riduce ulteriormente, e un altro animale sparisce da questa Terra che in fin dei conti, non se l’era mai meritato. L’abbiamo visto succedere, in tempi relativamente recenti, con lo scattante carnivoro Thylacinus cynocephalus, comunemente detto tilacino o tigre della Tasmania, i cui ultimi esemplari sono periti in cattività verso la metà degli anni ’30, senza che nessuno potesse far nulla per prevenire il tragico evento. Così alla sparizione di una tale creatura, esempio di evoluzione convergente nei confronti delle caratteristiche a noi familiari del cane, con un muso particolarmente lungo e una caratteristica livrea zebrata, la catena alimentare di questi territori è stata sostanzialmente spezzata, con l’eliminazione di quello che costituiva a tutti gli effetti l’unico e solo super-predatore, laddove il rinomato diavolo della Tasmania (Sarcophilus harrisii) benché feroce, preferisce nutrirsi quando possibile di carogne o aggredire i cuccioli d’altre specie, limitando il dispendio energetico necessario per procurarsi il proprio sostentamento. Fatto vuole, tuttavia, che entrambe le creature fin qui citate abbiano in comune una caratteristica fondamentale, così esclusivamente rappresentativa dell’area geografica d’appartenenza: le loro femmine custodiscono i piccoli, subito dopo il parto, all’interno di quella sacca biologica che li accomuna al canguro, un’accorgimento che l’evoluzione avrebbe potuto, ma non volle mai replicare altrove. Un tratto di distinzione che permette d’individuare un gruppo ideale d’appartenenza, quello dei predatori marsupiali, a cui appartiene un terzo esponente assai meno noto in campo internazionale. Sto parlando della creatura, suddivisa in sei specie superstiti allo stato dei fatti attuali, che viene identificata con il termine quoll, una parola aborigena dal significato incerto.
Con un peso che può variare dai 300 grammi ai 7 Kg, gli appartenenti al genus Dasyurus occupano una nicchia ecologica che si potrebbe accostare, analogamente a quanto fatto col tilacino e i cani, a quella del comune gatto europeo, astuto divoratore di tutto ciò che svolazza, topeggia o sguiscia come un geco sulle pareti e sui tronchi ai margini dello sguardo umano. Il che, per chi conosce l’innata capacità di caccia dei felini tornati allo stato ferale, dopo aver lasciato il comodo ambiente casalingo, permette di farsi un’idea piuttosto chiara del piccolo demonio di cui stiamo parlando, il cui aspetto grazioso potrebbe, altrimenti, trarci facilmente in inganno. Il punto principale di questo mammifero dalle proporzioni variabilmente ridotte è che esso può assomigliare, almeno superficialmente, ad una martora o un grosso roditore, quando nulla potrebbe allontanarci di più dalla verità genetica del suo gruppo di appartenenza. Ricoperto di pois bianchi, dalla funzione presumibilmente analoga a quella delle strisce dell’antenata “tigre”, il Dasiuride rappresenta in realtà a tutti gli effetti un marsupiale, benché la sua tasca, se così può essere definita, sia rappresentata da una serie di pieghe sul ventre, a cui un massimo di sei piccoli può rimanere attaccato nutrendosi grazie alla secrezione dei capezzoli materni. Ma l’educazione per così dire spartana di una simile genìa compare già da questi primi attimi di vita, quando tra i membri di una cucciolata individualmente non più grandi di un grano di riso, che possono facilmente raggiungere i 15 o 18 esemplari, inizia la folle corsa verso uno di questi posti privilegiati che corrispondono, essenzialmente, alla loro unica possibilità di sopravvivenza. In età adulta successivamente, il quoll diventa una bestia solitaria attiva sopratutto dopo il crepuscolo, il cui spazio vitale supera, nel caso delle specie più grandi, i 120 acri d’estensione. Invalicabili a qualsiasi simile non sia appartenente al genere femminile, pena il verificarsi di un furibonda lotta per tentare di riconquistarsi l’antecedente supremazia… Fatta eccezione per l’unico luogo d’incontro misto, una sorta di latrina comune al convergere dei confini che costituisce un’anomalia comportamentale di queste specie. Ma il grido d’avvertimento del quoll, talvolta descritto come simile a una sega elettrica che stia per esaurire il carburante (Cp! Cp! Cp!) non viene mai rivolto ad alcun altro malcapitato che capiti all’interno del suo sacro giardino, dimostrando a pieno titolo come voracità e dimensioni non siano due caratteristiche che vanno necessariamente di pari passo verso il domani…