L’entusiasmo del flautista viaggiatore

Erik the Flutmaker

Sullo sfondo di un tappeto fiorito, con cappello azzurro e piuma nera di tacchino, l’artigiano stravagante tenta di abbagliarci con la sua eloquenza. È una scena che parrebbe quasi degna di una televendita televisiva sul finire del mattino, se non fosse per il ricco contenuto musicale, la varietà e il senso delle merci messe in mostra e una piccola, benché marcata, componente Rinascimentale. Con The Spiel (la tiritera), titolo anteposto al video, l’eccezionale fabbricante di strumenti musicali noto come Erik “the Flutemaker” qui si riferisce ad un suo lungo e articolato discorso, usato per la prima volta durante una di quelle fiere, tipicamente statunitensi, in cui intere comunità s’industriano nel riprodurre gli usi e costumi dell’Europa del XV-XVI secolo. Naturalmente, i risultati possono variare, poiché il mondo del commercio, come l’industria del divertimento, mal si associa alla ricostruzione storica e a quel senso della misura che è invece alla base di ogni cosa, l’ineffabile buon gusto. Ma persino tra cagnolini agghindati con coperte araldiche da palafreni, centurioni, cavalieri, zucchero filato variopinto e banchetti ricoperti d’ogni tipo di oggetto stravagante, si possono talvolta ritrovare dei veri e splendidi tesori. Purché sia abbia l’occhio, e/o l’orecchio musicale, per cercarli.
Del resto, questo venditore viene da lontano. O per meglio dire, pur essendo assolutamente americano nei suoi metodi e nei manierismi (pare quasi Billy Mays!) Può tuttavia vantare l’esperienza effettuata, di un circuita attorno al mondo. Qualcosa di simile, nella sostanza, alle grandi avventure dei mercanti di quei tempi ormai lontani, che imbarcati su vasti velieri o altri vascelli, alla ricerca di fortune leggendarie, tornavano cambiati. E con le stive ben colmate di ben due patrimoni contrapposti: quello tangibile ed i meriti dell’esperienza, la cultura in quanto tale. Erik produce strumenti a fiato da oltre 44 anni, trascorsi in viaggio tra il Messico, il Guatemala, l’Argentina, il Brasile, le Hawaii, il Costa Rica e le Fiji, fino alla scoperta di una soluzione nuova, rapida e geniale, al problema di trovare i materiali giusti. Ovvero, coltivarli direttamente nella sua assolata Florida, usando l’adattabile varietà, importata dalla Cina meridionale, del Bambusa Multiplex, una di quelle piante (tecnicamente erbacee) che furono il fondamento cartaceo di tante culture letterarie dell’Estremo Oriente.

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Alle percussioni Mr. Knocky, robottino giapponese

Mr Knocky

Profonda saggezza e un immateriale grammo di follia. Quando il mondo era ancora giovane, secondo credenze assai diffuse, gli uomini vivevano più a lungo. Finché a un certo punto, stanchi della società civile, sceglievano l’esilio di un rifugio montano, un tempio oppure una caverna. Proprio per questo, studiando approfonditamente i rotoli dipinti dagli esteti delle antiche dinastie, filosofi e sapienti, si nota la preponderanza di tali e tanti eremi remoti, così come nella letteratura storiografica, o negli scritti dei poeti, si colgono, tutt’ora, i frutti culturali di quell’epoca perduta. Ma non c’è un alito di vento. Mancano la musica ed il suono. Perché vivere da soli, meditando, porta gradualmente a un disallineamento, la liberazione dal concetto di normalità. E gli immortali del Taoismo, così come alcuni santi bodhisattva dello Zen, partecipavano di una bizzarra sinfonia. Priva di senso, alle orecchie di noi altri.
Oggi li chiameremmo, senza un attimo di esitazione, musicisti sregolati. Figure in grado di portare innanzi lo spirito sublime dell’umanità, ma che piuttosto scelgono, dall’alto della loro scienza, di trasmutare la materia. Perfettamente coordinati, a loro modo, con l’armonia dell’universo. Inconcepibile! Così era il flauto di Han Xiang Zi, l’Uomo Felice nato all’epoca dei Tang, che grazie alle sue note richiamava gli animali e accelerava la crescita dei fiori. Finché non scese il buio del progresso, persino di lui, leggenda dei suoi tempi. Dove sono gli spettri del mondo? Dov’è finita la stregoneria? Compaiono soltanto, soprattutto per chi ha voglia di cercarli, nel mondo spiritoso e del divertimento. La musica continua senza pause o cambiamenti. Siamo noi soltanto, rovinati dal bisogno di un immagine più netta, che adesso la vediamo come un’evasione dalle cose utili o degne di un significato.
Si, altrettanto strani, benché meno magici, sono i giocattoli sonori del creativo giapponese Novmichi Tosa, fondatore, assieme al fratello Masamichi, del collettivo artistico Maywa Denki. Una venture non priva di chiare connotazioni commerciali. Perché questo rientra, ormai da tempo, nei crismi insormontabili di chi vuole portare a compimento qualche cosa. Al posto di tanuki e volpi mutaforma, oggi abbiamo la tecnologia. Che per dare luogo all’armonia delle origini, non può limitarsi a ricevere istruzioni. Altrimenti, inevitabilmente, diventerà un computer, semplice strumento cogitativo, grigio e povero di implicazioni animalesche. Antropomorfismo: nell’arcipelago più vasto dell’Estremo Oriente, qualunque cosa deve prendere una forma accattivante. Ci sono mascotte per le diverse prefetture (regioni del paese), per le emergenze civili (incendi, terremoti…) Per le aziende, i canali televisivi, le software house. E perfino i sintetizzatori, talvolta, si trasformano in simpatiche mascotte!

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La musica inquietante dei pianeti

Sounds of Space

Giove il forte, il grande, il rosso. Urano che soffia la sua furia tenebrosa. Un tintinnar d’anelli attorno al vorticante Saturno. “Nello spazio non esiste alcun tipo di rumore” è uno di quegli assoluti che provengono da una suprema forma di superbia. Che l’orecchio umano, grazie alla sua particolare conformazione, possa trasformare le oscillazioni dell’aria in percezione sensoriale è cosa molto nota. Come acclarato è del resto il fatto che in assenza di un medium gassoso significativo tale procedura sia del tutto irrealizzabile. A discapito di innumerevoli scene cinematografiche di fantascienza, con roboanti esplosioni giusto sui confini delle stelle. Immaginatevi dunque la sorpresa dei presenti ad una conferenza stampa della Nasa, nel settembre del 2013, quando l’astrofisico Don Gurnett, analista dei dati provenienti dalla sonda Voyager 1 disse: “Ho udito il suono dello spazio interstellare.” Com’era, dunque? Magnifico e terribile, stupendo, affascinante, fantastico e infernale. Come l’acuto di un’espressione matematica o il colore di una complicata musica spaziale. 37 anni erano passati, dal giorno in cui era stato posto in essere il presupposto necessario a registrarlo. E c’è un termine per definire il procedimento usato nello studio – Sinestesia: l’incapacità, talvolta desiderabile, di distinguere tra i contrapposti input sensoriali, vivendo la propria vita in uno stato di costante confusione. Si tratta di una condizione neurologica reale, che si verifica in determinati e rari casi. Ma la quale fondamentalmente si ritrova, come metodo di presentazione dei dati, a più livelli dell’ambito scientifico. Qui, assai probabilmente, era l’unica possibile analogia. Perché gli uomini non percepiscono le emissioni radio né le micro-onde ma questo non significa, a conti fatti, che non possano desiderare di conoscerle. Ad esempio, tramite l’apporto di una forma tecnologica di sperimentazione, ovvero quella sonda spaziale da 722 Kg, lanciata via lontano nel 1977, con tutta la forza della nostra collettiva civiltà. La Voyager, carica di valide testimonianze in merito alla propria razza genitrice: musica ed immagini, discorsi di politici e scienziati. Nonché registrazioni di cose ineffabili e preziose, quali il suono del mare, il canto delle balene, il pianto di un neonato, altre sentimentali inezie; ed oltre a queste, giacché l’incontro con una benevola coscienza aliena resta sempre una speranza assai remota, gli apparecchi dell’artificiale percezione. Tra cui due lunghe antenne, i direttori di questa sublime orchestra virtuale.

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Stregoneria sinfonica di cose livellate

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Pensare piano- andando -forte. Non sono queste marce di un veicolo con rigidi pneumatici, né metodi di un speciale training autogeno per l’acquagym; bensì due componenti di una procedura superiore che fa capo a uno strumento musicale, il più immobile di tutti quanti. Un mobile, praticamente. Però che ingombro! Quando ciascuna di tali diciture (piano/forte) sostiene il duplice principio della calma e dell’agitazione, custodito dentro al grande meccanismo; ciò significa, a conti fatti, che sono entrambe autosufficienti. Per produrre suoni, basterebbe il solo piano. Quest’uomo giapponese percuote con le dita della mano destra alcuni piccoli oggetti di plastica, tra cui un righello, un cucchiaino, un compact disc. Vediamo quanti sono: ichi-枚, ni-枚, san枚… Enumeriamoli usando quel carattere (mai) che serve giusto per contare cose piatte e larghe. O per meglio, dire, prive di spessore. È un ritmo sincopato che cattura il senso del minuto, grazie alla forza espressiva delle note tipiche di una certa serie di doujin, ovvero giochi digitali autoprodotti. Ebbene si, siamo di nuovo nel mondo dei videogame nipponici. Il pezzo qui eseguito, con un artificio tanto fuori dagli schemi e l’aiuto del computer che accelera la scena, è quello usato per un momento culminante di Embodiment of Scarlet Devil, il sesto episodio della leggendaria serie  di Touhou (La fanciulla del tempio – 2002) un pezzo accattivante, proprio perché difficile da eseguire. C’è una chiara evidenza di tale video: l’autore stava facendo sul serio. Quando per la registrazione di un proprio particolare cimento, si pubblica anche una ripresa delle sapienti mani all’opera sugli strumenti, allora si capisce! Che sarà meglio sgranare gli occhi. Con un joystick o altro ancora, non importa. Vale per una partita a Tohou, come per chi fa suonare le cannucce o i banchi della RAM. C’è un maggiore senso di agonismo e concentrazione, in due minuti di una pratica di questo tipo, che nell’intera produzione di mensile di una grande e moderna software house. Difficoltà non significa impostare il livello ultra-hard, per punirsi ripetendo la stessa sequenza o sparatoria per 10-15 volte, finché alla fine non ci si ritrova spinti avanti per un colpo di fortuna. Ma applicarsi nel comprendere, e applicare, meccaniche complesse, dalle multiple sfaccettature. Sassofoni, chitarre…Non vi ricorda nulla, tutto questo? Alla fine, i videogiochi sono un particolare tipo di hobby, considerato poco utile perché fine a se stesso. Un po’ come la musica. Eppure, nessuno mai si sognerebbe di porli allo stesso livello. Ancora. C’è un’espressione anglofona, ad ogni modo, che ben si applica ad entrambi i campi, nel connotare il gesto di chi vi opera ad alti livelli: è l’essere in the zone (nella zona) – Il raggiungimento di uno stato di concentrazione superiore, tale da poter assimilare il flusso stesso di un fondamentale ritmo, tanto utile per muovere un piccolo personaggio tra i miriadi di proiettili e nemici, quanto per produrre una sublime sinfonia. E chi potrebbe mai affermare che nemmeno quella, serva ad alcunché!

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