Gua Rusa, caverna malese con le proporzioni di un aeroporto internazionale

A ben pensarci, sarebbe davvero conveniente: uno spazio ombroso, sotterraneo, segregato dalla natura. Dove neppure l’imponenza di due o tre jet di linea fianco a fianco non riesca in alcun modo a disturbare la popolazione, umana ed animale, che occupa la superficie verdeggiante del Borneo, unica terra emersa dalle proporzioni isolane occupata da tre nazioni: Siam, Malesia ed Indonesia. Ma di certo prima di procedere, occorrerebbe costruire una pista al suo interno. E forse nel punto più stretto, dove si trovano le due cascate note come docce di Adamo ed Eva, occorrerebbe un’opera finalizzata all’ampliamento degli spazi latitudinali, per garantire un conveniente accesso al terminal posizionato all’interno della montagna. Mentre i 169 metri di larghezza nel punto più ampio, e i 122 di altezza, sarebbero più che sufficienti al fine di garantire l’operatività di un 747 carico di passeggeri. I quali, senza particolari indugi, potrebbero sbarcare direttamente a ridosso di uno dei territori segregati più particolari al mondo, chiamata fin da tempo immemore “la valle dell’Eden”. Ci sono molti luoghi simili, da queste parti, circondati dalle alte pareti in calcare ed arenaria scolpite dalla potente erosione delle precipitazioni atmosferiche tropicali, capaci di trasformare l’intera massa di una montagna in cavità monumentali, dove scorrono torrenti e fiumi sin dall’epoca della Preistoria. Ciò che differenzia il luogo noto ai nativi come Gua Rusa (letteralmente, “Caverna del Cervo”) dalle altre grotte simili nell’area del parco nazionale malese di Gunung Mulu, restano però le proporzioni ancor più impressionanti, tali da sfidare ogni convenzionale ipotesi a proposito della sua genesi ancestrale. Come se un colossale verme delle sabbie, agitandosi per secoli o millenni, avesse ampliato il cunicolo del suo passaggio. Come se un cantiere messo in opera da civiltà perdute, avesse ultimato lo spazio segreto da utilizzare per l’atterraggio delle proprie praticissime navi spaziali.
Ciò che si palesa, ad ogni modo, al termine dell’escursione tra i suoni e gli alti fusti della giungla a partire dai villaggi più vicini e la città costiera di Miri, che raggiunge l’apice lungo la passerella in legno più fotografata di tutta l’Asia, è un’ingresso semi-nascosto dagli alberi e sovrastato da antiche stalattiti che ben presto si rivela degno di quella che sarebbe stata definita, per lungo tempo “La caverna più vasta del mondo” (almeno fino alle nuove misurazioni, effettuate nel 2009, della grotta di Son Doong in Vietnam – vedi precedente articolo). Benché sia chiaro, tale primato risulti difficile da attribuire all’uno o l’altro candidato, data la quantità estremamente significativa di criteri applicabili a tal fine: larghezza e lunghezza dei singoli passaggi, profondità totale o metri quadri d’estensione. Così che, nonostante la sua innata predisposizione alle operazioni aeronautiche, la grotta del Cervo risulta essere inerentemente piuttosto breve, con i suoi “appena” 4 Km dall’ingresso all’uscita, sebbene esista una teoria che avrebbe fatto in tempi ormai trascorsi, di essa, la più incredibile cattedrale geologica del pianeta. Quella secondo cui la stessa Valle dell’Eden, simile a una dolina carsica circolare dal diametro di oltre 1 Km e sita all’altra estremità e con l’unica uscita diametralmente opposta della piccola cavità nota come Grotta Verde, fosse stata ricoperta originariamente da una volta rocciosa, che avrebbe impedito alla luce del Sole di penetrare nelle sue oscure, inimmaginabili profondità, buie eppure mai, davvero, silenziose. Questo in quanto, aeroporto o meno, nessuno potrebbe mai anche soltanto ipotizzare che un simile dedalo oscuro sia mai stato, anche soltanto per un attimo, del tutto privo di vita…

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L’intera spedizione fatta passare per la cruna di un ago

Breve flashback verso il cinema degli anni ’90: Arnie androide che scompare nell’acciaio fuso, con appena il tempo d’inforcare un’ultima volta il suo fido paio d’occhiali da sole. Il braccio sollevato verso il cielo, ultima testimonianza della sua presenza, mentre nella fabbrica riecheggia il suo saluto programmatico e per certi versi preoccupante, vista la genesi di tale situazione: “I’ll be back – Tornerò.” Eoni incalcolabili, intere epoche, secoli o persino una generazione o due, sono passati da quel giorno impresso eternamente nella cellulosa. Intere civiltà cadute nella polvere, mentre dalla forgia della storia ne sono comparse di nuove. Della vecchia acciaieria non v’è più traccia, rimpiazzata da un solido zoccolo di roccia calcarea che si estende fino all’orizzonte texano. Totalmente Compatto tranne l’eccezione di un singolo buco, da cui adesso, faticosamente, sbuca un braccio, almeno all’apparenza umano! Subito seguito da una spalla, sopra cui campeggia una maglietta giallo paglierino. E stretto in quella mano, non v’è dubbio alcuno: il paio di Ray-Ban o simili, perfettamente lucidi, perfettamente riflettenti, che al termine di Terminator 2 facevano la fine incandescente del loro stesso proprietario! Si sente allora fuori dall’inquadratura “Grazie, Tom. Sapevo di poter contare su di te.”
Pipistrelli, cavallette, ragni delle tenebre senza riposo. Il campo della telecamera si allarga, ed è allora che s’inizia d’improvviso a intendere e la verità: poiché quell’uomo non è solo, bensì circondato da un gruppo d’amici che almeno stando alla didascalia, sembrerebbero aver deciso di coniare il termine cave cred. Ovvero quella cognizione, estremamente specifica e davvero personale, per cui la speleologia è un fine che spesso s’identifica col viaggio. E che ben prima dell’arrivo, trova la motivazione della sua stessa esistenza. Come potremmo mai spiegare, altrimenti, una scena come questa? L’intero gruppo di sette amici tra cui Bennett Lee autore del canale, sanzionati ufficialmente col permesso della TCMA (Texas Cave Management Association) per visitare autonomamente il territorio della riserva Deep & Punkin, verso le tenebre dei più profondi abissi sottostanti. E che hanno scelto di passare oltre quel valico, non dal punto d’ingresso principale, una voragine larga tre metri che si trova a qualche metro di distanza dal teatro del qui presente video. Bensì nel più piccolo, angusto, scomodo buco tenebroso spalancato verso il solleone nordamericano, dal diametro di circa 80-90 centimetri. Appena sufficiente a far passare un cranio, due spalle e qualche volta un paio di sporgenti natiche umane. Ed è palese che dinnanzi ad una simile sfida (cosa non si farebbe per il cred – un’ottima reputazione) ognuno tenda ad adottare il suo stile: chi s’insinua lentamente, un singolo arto alla volta. E chi invece scende a pié veloce, o addirittura a capofitto, nell’assoluta e potenzialmente immotivata certezza che dall’altro lato, ci sia qualcuno pronto a prenderlo al volo. Ma è il senso dell’ignoto e l’incertezza di cosa possa trovarsi oltre, in ultima analisi, a mettere in moto il nostro sentimento innato di claustrofobia…

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La metropoli di pietra scavata dall’escursione termica siberiana

“Montagne? Assomigliano di più a torri, castelli, cattedrali, minareti case…. E voi vorreste chiamarla una scogliera? In verità, si tratta di un branco di cavalli volanti, rinoceronti, ippopotami…” Così scriveva il poeta Anatoly Olkhon attorno alla metà dello scorso secolo, dopo un’avventurosa visita del parco più famoso della Repubblica Autonoma di Sacha in Yakutia, nella parte estremo-orientale del paese più vasto al mondo. Un luogo all’epoca incontaminato, privo persino dell’odierno piccolo centro visitatori, la stretta strada asfaltata ed il percorso da trekking culminante in qualche centinaio di scalini, per salire fin sopra a quello che, rispetto ad un paesaggio pianeggiante per migliaia di chilometri in qualsiasi direzione, potrebbe anche venire definito il tetto del Mondo. Col che non voglio certo affermare che i dintorni dei cosiddetti Pilastri di Lena siano del tutto privi d’interesse, quando si considera l’ampiezza e la chiarezza dell’omonimo fiume, che al termine di un percorso di 4.400 chilometri finisce per sfociare, con tutto il carico delle esperienze fatte, nelle gelide acque del Mar Artico settentrionale (ed in effetti pare qualche volta strano, quando si osserva una mappa, che i fiumi possano anche scorrere in direzione nord).
Bello e ancor più bello, terribili zanzare permettendo, quel che si riflette per un lungo tratto del suo sinuoso tragitto, situato circa 180 Km a nord della capitale regionale Yakutsk: la più incredibile testimonianza di un mondo ormai trascorso, non per niente eletta a patrimonio naturale dell’UNESCO, frutto dell’evaporazione di quello che qualche centinaio di milioni d’anni fa era stato un vasto mare. Quei Lenskiye Stolby, o in lingua Yakut Ölüöne Turūk Khayalara, che costituiscono nei fatti un esempio da manuale dei depositi creati al ritirarsi delle acque, di un copioso deposito di minerali a base di calcare, dolomite, marna e ardesia, in grado di creare quel tipo di muraglia stolida che emerge in solitudine nel paesaggio. Stolida e immanente, s’intende, tranne che per quello che comporta l’erosione degli elementi, da sempre il più importante fattore contributivo ai processi di evoluzione carsica del territorio. “La natura è il più grande tra gli architetti” si usa dire nelle più opportune circostanze, il che non tiene conto d’altra parte, del modo in cui possa facilmente costituire anche un più che dignitoso artista. Benché agisca, come sua massima prerogativa, senza un’assoluta manifestazione d’intenti. E che dire della scala? 150, 300 metri di altezza per le torri più alte, ripetute lungo la riva del fiume lungo un percorso di 180 Km, abbastanza da giustificare, secondo molti, il viaggio in aereo di un giorno intero partendo da Mosca, praticamente equivalente in termini di distanza al tragitto necessario per raggiungere la città di New York. Ma non c’è fondamentalmente niente in grado di sorpassare lo straordinario splendore e l’inusitata grazia di una città di roccia siberiana, nella sua pallida copia umana, rumorosa ed affollata, in grado di vantare soltanto un secolo o due d’esistenza…

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Il primo ed unico ascensore scavato nel grattacielo di pietra

C’è un suono collettivamente prodotto di un intero gruppo di persone che all’improvviso trattiene il fiato, rilasciandolo in contemporanea in un trasalimento udibile perfettamente tra i confini della cabina eccessivamente affollata. La quale, al volgere di un cruciale attimo, fuoriesce dalla letterale rampa di lancio all’interno del suo zoccolo di grigio cemento, per emergere nel puro regno della nebbia e del cielo. Perché se anche manca una vaga traccia dei 100 draghi promessi nel nome Bailong (百龙) le molte paia di occhi non possono fare a meno di spaziare tra un comparabile numero di svettanti pilastri, eredità in quarzite e arenaria lasciata da un’oceano prosciugato in distanti eoni. Siamo nel territorio di Wulingyuan, non troppo lontano dalla capitale provinciale dello Hunan, Changsha, punto d’accesso elettivo ad alcuni dei luoghi topografici più memorabili di tutta la Cina; ma nel preciso momento in cui la gente si trova a metabolizzare quel panorama, non si direbbe. A tale punto estrema e straordinaria ci sembra l’immagine mediata dallo spesso vetro protettivo di questa capsula, lanciata verticalmente attraverso la più fedele equivalenza di un paesaggio alieno. Quello, nello specifico, del pianeta Pandora mostrato nel film Avatar, per le cui isole fluttuanti James Cameron scelse dichiaratamente d’ispirarsi all’effetto restituito da questo luogo, nei frequenti momenti di accumulo della nebbia a bassa quota. Tanto eccezionale la vista, quindi, quanto può esserlo definito l’apporto tecnologico a sostegno di tutto questo, il singolo ascensore posizionato in ambienti esterni più alto, più veloce e dalla capienza mai costruito da mano umana.
Di certo non è per tutti, questo Bailong con le sue tre cabine quasi del tutto trasparenti, ciascuna sviluppata su uno spazio di due piani sovrapposti al fine di massimizzare il trasporto turistico verso le vette vertiginose e per un tragitto di 326 metri, esattamente 14 in più della torre Eiffel a Parigi. E in molti si lamentano su Internet del prezzo del suo biglietto, di “ben” 78 yuan (circa 10 euro) all’andata e altrettanto al ritorno per appena un minuto e mezzo di osservazione possibile del panorama, a patto di essere riusciti a posizionarsi abbastanza vicino al vetro. Ma la realtà apprezzabile anche a distanza è che qui siamo di fronte all’alternativa di oltre due ore di camminata sugli oltre 1.000 scalini necessari a raggiungere la vetta, contro il predominio assoluto della tecnologia sul paesaggio, capace di concedere una via d’accesso rapida verso uno dei luoghi più memorabili dell’intero continente d’Asia. Per poter dire, come amano fare da queste parti, “Anche io ci sono stato” senza alcun tipo di sacrificio o sforzo personale degno di nota.
Per chi apprezza d’altra parte i meriti tecnologici di un paese incline a percorrere le vie più eclettiche dell’architettura ormai da svariate generazioni, d’altra parte, la stessa semplice esistenza di una struttura simile, in quello che dovrebbe idealmente essere un territorio incontaminato e tutelato dall’UNESCO, non può che sorgere qualche interrogativo sull’effettivo contesto di una così ponderosa infrastruttura.

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