L’oggetto strisciante non identificato avanzava accanto alla rocciosa spiaggia dell’Adriatico, un metro alla volta, con un suono stridente di superfici che strofinano l’un l’altra. Un piccolo capannello di persone, provenienti in parte dalla vicina città di Tirana, osservavano con interesse, mentre il simbolo di un defunto regime stava per abbandonare il luogo che gli era appartenuto da almeno un paio di generazioni. Quindi, come per un segnale percepito all’unisono, gli sguardi si spostarono verso l’agente di un simile complesso spostamento: un carro armato Type 59 preso in prestito dalla Cina, la cupola emisferica contrassegnata dalla familiare stella rossa, un lungo cavo di traino legato al suo carico da un alto numero di tonnellate. Lasciata la strada asfaltata, il mostro meccanico s’inoltra sulla sabbia, facendo affidamento sulla notevole capacità di trazione dei suoi cingoli corazzati. Con un’abile manovra del pilota, quindi, si ferma, gira su se stesso e torna indietro. Piuttosto che continuare a tirare l’oggetto prefabbricato, ora lo sta spingendo. Avanti, e innanzi, e fino alla scogliera, dove procedendo nell’operazione in modo lento e inesorabile, scarica l’oggetto oltre il bordo della Nazione. Il piccolo edificio resta in bilico per meno di un secondo, quindi in un attimo si capovolge. Cappello ormai inutile al suo proprietario, precipita verso le onde e con un tonfo sordo, si aggiunge alla collezione derelitta sottratta allo sguardo appassionato degli ultimi nazionalisti albanesi. Era il 2009. Missione finalmente compiuta: questa la zona litorale di Golem, fatta eccezione per alcuni casi storicamente rilevanti , sembrava essere del tutto de-bunkerizzata.
Chiunque abbia visitato, per interesse personale o impegni lavorativi, il paese che si trova al di là del tratto di mare condiviso con la Puglia, li conosce in qualche maniera. Forse già a partire dal negozio di souvenir dell’aeroporto, dove modellini adibiti all’uso di portapenne, posacenere o soprammobili vengono scherzosamente venduti ai turisti, accompagnati da scritte sulla falsariga di “Benvenuti nella terra dei bunker. Pensavamo che non poteste comprarne uno vero”. Ma lo strano problema edilizio di questo paese dal potenziale economico limitato, oggi, costituisce una tangibile nonché costante presenza nelle sue campagne, in mezzo ai campi coltivati, nelle città. Praticamente tutti qui, da bambini o adolescenti, ricordano di aver giocato attorno e all’interno di questi piccoli edifici a forma di cupola, capaci di contenere al massimo tre o quattro soldati armati di fucile o mitragliatrice. Gli agricoltori hanno dovuto manovrare i loro trattori attorno agli ostacoli del tutto inamovibili, mentre i tecnici urbanistici avevano costruito i nuovi edifici e strade seguendo la disposizione a raggiera dei baluardi ormai abbandonati. Con una quantità stimata di almeno 170.000 esemplari (il progetto iniziale ne prevedeva 700.000) l’improbabile sistema di fortificazione avrebbe dovuto, nell’idea del loro committente, costituire la prima ed ultima linea di difesa contro l’imminente invasione dei molti nemici del suo paese, che sarebbe stato protetto secondo la dottrina ipotizzata per la prima volta da Mao Zedong, dalla sua risorsa più preziosa e insostituibile: il popolo stesso.
Non che i suoi discendenti, o quelli degli altri paesi del cosiddetto Blocco Orientale, avrebbero mosso un dito per proteggere il regime quarantennale dell’incontrastato Enver Hoxha, l’ex-partigiano, ex-venditore di libri, perpetuo capo del partito comunista albanese, che dopo aver assunto il potere a seguito della seconda guerra mondiale, si era pubblicamente dichiarato l’ultimo praticante della vera dottrina socialista, rifiutando di allinearsi con qualsiasi coalizione esistente, nella paranoica convinzione che più o meno tutti, nel vasto mondo, avrebbero fatto di tutto pur di controllare la fertile terra dei suoi genitori. Inviso alla Jugoslavia di Tito, successivamente alla loro rottura con Stalin del 1948 e diventato nemico dell’Unione Sovietica stessa a partire dal 1960, a seguito del famoso discorso di Nikita Chruščëv al ventesimo congresso del suo partito, l’amato “zio” Hoxha era convinto che ogni tipo di convivenza pacifica sarebbe stata impossibile, per il semplice fatto che “Fino ad oggi nessun movimento del proletariato è mai riuscito a prendere il potere senza copiosi spargimenti di sangue.” E fu più o meno allora, circondato dall’elite dei suoi sicofanti nell’opulenta fortezza del quartiere Blloku a Tirana, protetto dall’elite della polizia segreta Sigurimi, qualcosa d’inusitato scattò nella mente del potente dittatore, convincendolo istantaneamente che soltanto coloro che aveva protetto, nutrito e guidato fino ad allora, potessero ricevere il sacro mandato di proteggere la sua persona e con essa, l’insostituibile status quo. Dunque in assenza di un vero e proprio esercito coordinato, tutti coloro che sarebbero stati in grado di tenere in mano un fucile al momento dell’inevitabile invasione l’avrebbe fatto, potendo contare per la prima volta su una risorsa priva di precedenti: fortificazioni sufficienti per uno ogni quattro abitanti, capaci di contrastare col ferro e il cemento l’imminente avanzata dell’odiato nemico, indipendentemente dalla sua nazionalità.
storia
In Islanda, il ghiaccio trema quando giunge il jökulhlaup
Nomi altisonanti e difficili da pronunciare, come voci sull’elenco telefonico dell’inquietudine geografica e situazionale: chi ha paura dell’Eyjafjallajökull? Dell’Heinabergsjökull? Oppure del Lambatungnajökull? Di sicuro gli islandesi avevano ottime ragioni, per dare tali lunghi nomi alle montagne sputafuoco che costellano la loro terra, in bilico tra due placche continentali eternamente prossime alla separazione… Ovvio, e quel motivo è lo jökull: acqua solida e talvolta trasparente, come il vetro. O per essere specifici, la manifestazione di una simile sostanza che prevede un’ampio agglomerato, ad alta quota, eternamente chiuso nella morsa del profondo gelo, il ghiacciaio. E si potrebbe anche pensare un ambiente come questo, così estremo per le condizioni climatiche e ambientali, possa prevenire casi come quelli di quell’altro gruppo d’isole, sopra il confine dell’Anello del Pacifico, generalmente detto in forma semplice “il vulcano delle Hawaii”. Già, il fiume di lava è una visione che può incutere terrore. Che la terra dei vichinghi più remoti e coraggiosi, dal suo canto, non conosce particolarmente bene. Per il frutto dell’interazione, complessa e ancora non del tutto compresa, tra l’effluvio magmatico e la neve, che contiene, blocca, immobilizza il flusso della pietra fusa. Ma l’energia che trova in questo modo l’accumulazione, non può chiaramente scomparire. Così viene accumulata, ancora e ancora, sotto quella superficie solida e biancastra, mentre il ghiaccio circostante torna gradualmente liquido, formando grandi laghi subglaciali. Qualche volta, il pericolo viene in qualche modo rilevato, dando il tempo di evacuare il territorio. D’altra parte, non c’è molto che possa essere fatto dalla mano umana. Quando il riscaldamento termico raggiunge il punto di non ritorno, l’acqua inizia all’improvviso a defluire. Ed è questo il nome del fenomeno: jökull (ghiaccio) + hlaup (corsa) intesa come un balzo verso i bassopiani, dove convenzionalmente, trova posto la struttura urbana della nostra società. È una visione…Apocalittica, a dir poco.
Il 5 novembre del del 1996, alle ore 9:00 viene notato un progressivo ingrossamento del fiume Skeiðar sotto il vulcano Grímsvötn, nella riserva naturale di Vatnajökull, parte sud-occidentale del paese. Non si tratta di un fenomeno insolito in una simile stagione e per questo, da principio, nessuno sembra preoccuparsi eccessivamente. Entro un’ora tuttavia, la situazione continua ad aggravarsi e un imponente ponte lungo 900 metri deve essere chiuso, mentre i suoi piloni vengono circondati da un flusso di detriti e letterali piccoli iceberg, ammassi solidi staccatosi dalla montagna soprastante. Strani tremori vengono avvertiti dalla gente in zona. Alle ore 13:00 la corrente manca in tutta la regione, mentre testimoni oculari giurano di aver visto il ponte scomparire tra i flutti, benché ciò si riveli successivamente essere un’esagerazione. Anche se un altro ponte sul fiume Gýgja, molto meno lungo, non sarebbe stato altrettanto fortunato, venendo trascinato via dall’onda dei detriti. Entro sera, il flusso d’acqua raggiunge un flusso di 25.000 metri cubici al secondo, mentre l’acqua accumulatisi nella caldera continua a scendere, scagliando con furia una quantità impressionante di materiale verso la costa. Alle 23:00, la situazione raggiunge l’apice: 45,000 metri cubici al secondo; l’equivalente delle cascate del Niagara e il fiume Mississipi che si sommano l’un l’altro, devastando totalmente un’area per fortuna totalmente disabitata, ma arrecando danni alle strade che si stimano sufficienti a riportare la viabilità alle condizioni di 20-30 anni prima. E danni per l’equivalente di 1,2 miliardi di euro. Certo, non tutti i jökulhlaup sono tanto ampi e devastanti. Eppure, secondo i più recenti studi nel campo della vulcanologia, sono forse quelli più piccoli e meno apparenti, ad arrecare i mutamenti maggiormente significativi alla terra nota come isola del ghiaccio e del fuoco: semplicemente per la perseveranza con cui sembrano verificarsi ogni anno, tanto che ormai si è soliti parlare in inverno avanzato di “stagione dei jökulhlaup”. Ci sono due modi, essenzialmente, in cui qualcosa di simile può arrivare a verificarsi: il primo è dovuto al ciclo di rafforzamento positivo del sole. A causa dell’insistente battere di tali raggi, progressivamente si forma una pozza in un punto definito del ghiacciaio, la quale risulta inerentemente più efficace nell’assorbire il calore. Così tende via via ad espandersi, generando ancora più calore ed accrescendo il sussistere di uno stato di criticità. Assai più spesso, tuttavia, eventi come quello del Grímsvötn sono frutto di una qualche forma di riscaldamento geotermico, che non deve necessariamente essere un’eruzione, benché risultando più che sufficiente a dare il via all’effluvio devastante di acqua e pietra, così giustamente temuto dagli abitanti della terra più ad occidente d’Europa. In uno stato di (quasi) costante preoccupazione…
Gli anziani e i giovani guerrieri del più armato tempio del Gansu
Verso l’inizio del 24° secolo a. C, in una grotta buia in prossimità del picco più alto della montagne del Kongtong, nella provincia del Gansu, viveva probabilmente l’uomo più formidabile del mondo. Guangchengzi, manifestazione terrena di uno dei Tre Supremi Esseri, che aveva scelto una vita di solitudine per meditare sull’origine e il significato del Tao, possedeva tre armi capaci di vincere qualsiasi battaglia: il grande sigillo di bronzo Fantian Yin, che poteva uccidere chiunque se lo trovasse appoggiato con forza sulla propria fronte; la campana di Luohun, il cui suono poteva annientare le anime dei suoi nemici e le due spade Yin e Yang, infuse dei principi contrapposti, maschile e femminile, che sostengono ed accrescono il significato della Via. Quando costui aveva circa 1600 anni (non per niente, lo chiamavano immortale) l’Imperatore Giallo Huangdi in persona ascese le centinaia di scalini, e i molti metri di strade scoscese, necessari per giungere al suo cospetto. E fu lì che il grande governante, riconosciuto come il creatore stesso del concetto di Cina unificata, ricevette in dono i testi sacri del Taoismo, potendo trasmettere ai suoi eredi il senso di questa fondamentale filosofia. Ma sarebbe assurdo non pensare che in un simile colloquio, iscritto a pagine di fuoco nella storia, egli non avesse ricevuto altri consigli di natura più marziale, validi a garantirgli il successo nelle sue future imprese militari. Oggi, presso il sito in cui si svolse tale intramontabile conversazione, sorge un tempio. Dentro il quale, fin da tempo immemore, vengono praticate le arti marziali del kung fu.
La percezione occidentale degli stili di combattimento cinesi, contrariamente a quelli di epoca moderna provenienti dal Giappone (Karate, Judo, Aikido…) è stranamente uniforme e sembra fare capo unicamente a una singola interpretazione: quella coltivata tra i nebbiosi picchi dove trova posto il tempio di Shaolin. Ma la Cina è un paese vasto, e ancor più vaste sono i contributi che esso seppe dare alla cultura, alla tecnologia e all’intento combattivo dell’umanità. Tra i quali figura il cosiddetto stile del Kongtong, famoso per le sei “Porte” che lo caratterizzano e l’ampio ventaglio di armi inusuali, letteralmente sconosciute altrove, che vengono impiegate con maestria invidiabile dai possessori dei suoi segreti. Tutto viene fatto risalire, convenzionalmente, alla figura di Feihongzi, famoso spadaccino della dinastia Tang (618-907) che viaggiò per il paese assumendo su di se la sacra missione dello youxia (游侠) il difensore itinerante della giustizia e del bene. Così dopo aver corretto una quantità notevole di torti, e sconfitto i malvagi fino ai più remoti confini del regno, egli decise di aver raggiunto un’età sufficientemente avanzata da iniziare a trasmettere le proprie conoscenze. E per fare questo, fondò una scuola: la Kongtong Pai. Ora è difficile, sulla base del video offerto sul canale della New China Tv, comprendere l’effettiva funzione del complesso di edifici verso cui si apre questo scorcio digitale di un tale mondo misterioso: lui lo chiama semplicemente “il luogo di studio dello stile Kongtong” benché basti una semplice ricerca su Google, per scoprire che un simile edificio esiste, ma si trova ai piedi della montagna, non troppo distante dalla città di Pingliang. È facile desumere di conseguenza, che lo scenario scelto per il video sia uno dei numerosi templi (oltre 20) situati su questo massiccio altrettanto sacro per i cultori di taoismo, buddhismo e confucianesimo, facile da attribuire ai primi, in funzione della grande piazzola sospesa sopra il baratro con sopra raffigurata la figura del Tao.
Ma prima che l’azione si sposti in tale luogo suggestivo (il video è in realtà il montaggio di una serie di puntate trasmesse originariamente in diretta) il reporter ci offre l’opportunità d’incontrare due figure venerabili di questo luogo, combattenti ottuagenari le cui doti atletiche, per molti versi, non hanno nulla da invidiare a quelle di chi potrebbe essergli il nipote. I due vengono presentati come Yue Chi Zhou e Hua Wu Ying, ovvero quelli che dovrebbero essere rispettivamente lo studente e la moglie rimasta vedova del decimo Maestro, nonché lei stessa undicesima Maestra, dell’antico stile praticato nella scuola di Kongtong. La nostra prospettiva viene subito allargata verso alcune delle “strane armi” strettamente interconnesse con la cognizione nazionale di questo approccio al combattimento, con lui che impugna una pipa di bronzo, non dissimile da quella che tanti film di arti marziali hanno messo spesse volte in mano ai ninja, maestri giapponesi nell’impiego d’implementi d’offesa apparentemente innocui, nondimeno validi a sopraffare i più blasonati guerrieri. Lei appare dotata, invece, di una spada flessibile e una frusta in crine di cavallo, che secondo la traduzione del reporter in un reale combattimento sarebbe stata cosparsa di veleno, dagli effetti che possiamo soltanto presumere letali. In una serie di taolu (套路 – dimostrazioni delle forme) i due mettono quindi in atto le movenze apprese ormai da tanti anni, con una grazia e una prontezza davvero invidiabili. La signora Hua, in particolare, dimostra una fluidità delle movenze disegnate col suo abito altamente formale, capace di trasportarci con la mente ad epoche ormai trascorse e dimenticate. La colonna sonora di sottofondo riprodotta da un altoparlante non eccelso, straziante canzone proveniente da un qualche film del wuxia, accresce ulteriormente il senso stranamente surreale della scena…
Quanti arcieri samurai servono per cambiare l’esito di una battaglia?
Immaginate di essere un comandante mongolo al servizio di Kublai Khan, impegnato nella campagna d’invasione del Giappone nel 1274, destinata a fallire a causa dell’improvviso insorgere del Vento Divino (Kamikaze) che avrebbe spazzato via l’intera flotta dell’impero più vasto che il mondo abbia mai conosciuto. Ma ancor prima di un simile evento, voi, la vostra armata e i soldati arruolati dalla Cina eravate impegnati nella conquista dell’isola di Tsushima, nel bel mezzo dello stretto di Corea, primo passo verso la conquista del Kyushu e il resto dell’arcipelago ai confini orientali del mondo. Dopo uno sbarco privo d’incidenti e la facile conquista della capitale, la vostra stima dei combattenti locali non potrebbe essere minore: soltanto uno stolto, come il capo clan locale, avrebbe potuto scegliere di affrontare le truppe nemiche a viso aperto, in una carica senza speranza contro un esercito molto più grande del suo. Riorganizzate le truppe e preparata una quantità sufficiente di frecce, principale implemento bellico dell’armata, i vostri soldati avanzano quindi verso le montagne dell’entroterra, alla ricerca degli ultimi focolai di resistenza. L’arco giapponese, in particolare, si era rivelato ai vostri occhi particolarmente deludente, con un corpo eccessivamente lungo e privo di resistenza. Senza particolari organizzazioni tattiche da parte dei nativi, il suo utilizzo tipico in battaglia sembrava consistere nel lancio di una o due raffiche, prima di metterlo da parte e caricare il nemico con spada e lancia. Mentre state meditando sulla questione, quindi, succede qualcosa d’inaspettato: un singolo soldato locale in armatura leggera, della sedicente e indisciplinata classe dei guerrieri samurai, si frappone nel bel mezzo del passo, tra le rocce scoscese e lo strapiombo, sollevando l’arma in segno di sfida. Avanzando con cautela, inviate alcuni esploratori a prenderlo, affinché il suo coraggio fuori luogo non possa nuocere la morale delle truppe. Poco dopo che avete dato l’ordine, tuttavia, un sibilo risuona nel vostro orecchio sinistro: è una freccia, proveniente dai boschi a valle della vostra posizione. In breve tempo seguita da una seconda, una terza e così via. “Il nemico ci ha teso un agguato!” Grida qualcuno nel disordine, mentre scudi di legno vengono frettolosamente eretti verso la direzione da cui proviene il fuoco dei tiratori. Proprio quando i soldati iniziano reagire, notate qualcosa di stranamente preoccupante: il samurai distrattore non sta fuggendo affatto dai vostri incursori, ma con l’espressione calma incocca la freccia nel suo poco maneggevole arco ricoperto in legno di bambù. Se non fosse impossibile considerata la distanza, direste che è puntata dritta verso il centro esatto del vostro cuore…
Le innovazioni tattiche nascono generalmente nel fuoco della battaglia, in cui le menti vengono forgiate dalla più cruda espressione dell’istinto di sopravvivenza umano. Lungi dall’essere traguardi collettivi, tuttavia, trovano generalmente l’espressione tramite il pensiero dei singoli, futuri capostipiti di una linea concettuale destinata a durare delle decadi, o persino secoli interi. Così il primo impiego letterario dell’arco giapponese in battaglia figura nel racconto degli Heike, cronistoria della guerra Genpei tra i due clan più potenti della storia (1180-1185) quando l’eroe Nasu no Yoichi, facente parte del seguito del grande condottiero Minamoto no Yoshitsune (fratellastro del futuro primo shogun, Yoritomo) si erse sul ponte della propria nave sulla costa di Yashima, per colpire con l’arco un’insegna del falso imperatore protetto dai Taira, calcolando correttamente l’oscillazione causata dal vento e il moto selvaggio delle onde. Ed è ragionevole pensare, come in molti hanno ipotizzato, che l’esperienza nata da un simile conflitto fosse sopravvissuta fin quasi a un secolo dopo, nel confronto tra culture che il Kamikaze avrebbe risolto in modo tanto irrimediabile e finale. Il concetto di un impiego bellico codificato dello yumi (弓 – arco) non sarebbe stato messo per iscritto tuttavia fino alla figura semi-mitica di Heki Danjo Masatsugu, un samurai vissuto attorno all’epoca della guerra Onin (1467-1477) destinata a sconvolgere ir rapporti di potenza della seconda dinastia shogunale, quella degli Ashikaga. Di provenienza familiare incerta, benché si ritenga avesse origine nella provincia di Yamato, il più grande arciere che fosse mai vissuto venne anche chiamato una manifestazione terrena del dio della guerra Hachiman, giunto per insegnare agli uomini la maniera corretta per combattere a distanza. Verso la fine del quinto secolo, all’apice dell’era Muromachi, questo approccio alla battaglia si rivelò particolarmente funzionale, ragione per cui trovò diffusione ad ampio spettro nel giro di un singola generazione, dando i natali a quello che sarebbe stato definito in seguito lo stile della Heki ryu (日置流 – scuola di Heki) o Koshiya Komiyumi (腰矢組弓 – metodo dell’arco [all’altezza] della vita). Una serie di meccanismi che prevedevano approcci di fanteria tutt’ora in uso, come l’avanzamento a scaglioni e il tentativo di rendersi bersagli più difficili da colpire, scoccando le proprie frecce a una distanza minima dal suolo. Mediante una serie di movimenti che possiamo tutt’ora apprezzare, nella dimostrazione pratica di un gruppo d’arcieri durante la terza Taikai (convention) dell’Arco Giapponese, tenutasi lo scorso aprile a Tokyo, con il patrocinio della Federazione Nazionale di Kyudo (弓道 – la via dell’arco). Un’arte marziale ben lontana dall’essere “semplicemente” uno sport…

