In un’immagine che ha circolato lungamente sui settimanali, per poi diventare un classico sul tema dell’ambientalismo negli ambienti di Internet, un agente dei servizi territoriali statunitensi è stato fotografato di fronte a un palo della luce nella Central Valley Californiana. Un cartello appeso ad esso, coadiuvato da una serie di indicatori cronologici che ne marcano le altezze successive, spiega come l’altitudine di tale oggetto indichi il livello del terreno attraverso il trascorrere degli anni: a 9 metri, l’equivalente di un palazzo di tre piani, è indicato chiaramente il numero “1925”. A 4,5 la dicitura riporta invece “1955”. E soltanto in corrispondenza dei piedi del soggetto umano campeggia finalmente l’anno in cui è stata scattata la fotografia, “1977”. Tutto molto chiaro in senso metaforico, benché risulti difficile a questo punto accantonare la domanda: cosa è successo esattamente in questo luogo, perché l’equivalente di millenni di subsidenza possa essersi verificato in poco più di mezzo secolo, scoprendo strati territoriali sufficienti a rivelare in altri luoghi intere città di civiltà risalenti all’epoca in cui le antilocapre ancora percorrevano il tragitto interstatale della contea di Kern? In un vortice d’ipotesi possibili, basate sull’inferenza o il ripercorrere degli eventi geologici passati, emerge dunque l’unica possibile interpretazione dello svolgersi dei fatti: l’uomo. È capitato l’uomo. Ed il suo modo inalienabile, impossibile da contenere di cercare l’utile sentiero in ogni singolo momento della propria partecipazione ai processi di modifica del territorio, verso copiosi approvvigionamenti di uva, verdure, pascoli per bovini e soprattutto mandorle, un’industria redditizia quanto notoriamente “assetata”. Così è innegabile come tra tutte le fonti di rifornimento agricolo a disposizione delle genti statunitensi, questa lunga striscia verde che si estende tra Redding e Bakersfield, correndo parallela alla costa dello Stato Dorato all’ombra dei massicci che formano la Sierra Neveda, il Klamath ed il Cascade Range costituisca di gran lunga la più importante, pur considerando l’aridità inerente di questo intero territorio nordamericano, soggetto ad una quantità di pioggia annuale esponenzialmente inferiore al “clima caldo mediterraneo” in cui rientra sulla base della classificazione Köppen utilizzata dal finire del XIX secolo. Il che non ebbe modo di costituire un problema necessariamente degno di nota, nei primi anni successivi alla colonizzazione del lontano Ovest, quando s’iniziò a scavare pozzi sufficientemente profondi da poter accedere alle copiose quantità di acqua nelle falde sotterranee, continuamente approvvigionate dalla discesa delle acque scongelate periodicamente sopra le montagne antistanti. Almeno finché come i nani a Moria nella celebre narrazione tolkeniana, gli agricoltori intenti a trarre il massimo profitto non scavarono troppo a lungo ed in profondità. Abbandonando ogni proposito, del resto mai realmente entrato a far parte della conversazione, in merito alla sostenibilità futura delle proprie attività generazionali…
acqua
La soluzione anfibia del quartiere semicircolare in un comune d’Olanda
In principio, era l’acqua. E non c’è nulla che l’uomo avrebbe potuto concepire, per poter costruire un territorio abitabile integrato con tale elemento. A meno che fosse, in qualche modo, galleggiante. Quindi attorno all’undicesimo secolo d.C, gli abitanti dei Paesi Bassi ebbero una sorta di rivelazione: che costruendo attorno ai confini di un bacino idrico, potevano drenarne agevolmente il contenuto. E trasformare vasti territori in quello che viene localmente definito un polder: terra reclamata, non creando cumuli emergenti. Bensì rimuovendo l’elemento liquido che avrebbe ricevuto la mansione naturale di circondarli. Vi sono poi, casi particolari come i laghi di Vinkeveen, nella provincia di Utrecht. Una riserva naturale naturale, e zona d’accoglienza dei turisti al tempo stesso (pare una contraddizione in termini) conseguente dai secoli trascorsi ad estrarre torba per il beneficio dei mercanti olandesi. Fino a lasciar emergere dal pelo della palude lunghe strisce di terra, trasformate in seguito in punti di approdo per gli sport acquatici preferiti dai visitatori europei. Laddove in base a presupposti simili, gli abitanti dell’adiacente Frisia al confine geografico e culturale con la Germania, sembrerebbero aver voluto rispondere alla domanda: e se in un luogo simile, piuttosto, si scegliesse di vivere per l’intero arco dell’anno? Conseguenza: Het Brekkense Wiel di Lemmer, all’imboccatura dei fiumi Rien and Zijlroede, dove le acque semi-limpide del più vasto lago artificiale d’Europa, lo IJsselmeer, lasciano il posto a una ridente cittadina di circa 10.000 abitanti. Ed a partire dal 1992, uno dei quartieri più bizzarri e riconoscibili, al punto da ricomparire periodicamente nel discorso internettiano sull’architettura sostenibile e le soluzioni urbanistiche perfettamente calibrate sul territorio. Il che è in realtà piuttosto ironico, quando si realizza come la “Ruota Spezzata”, questo il significato dell’appellativo nella lingua locale, altro non costituisce che una trasformazione del concetto di villette multifamiliari a schiera, in cui a una parte raggiungibile in maniera tipica attraverso autoveicoli, ne corrisponde un’altra che si affaccia direttamente su una serie di canali navigabili dal pescaggio di circa un metro e cinquanta. Abbastanza, in effetti, per piccoli motoscafi e barche personali, evidenziando l’importanza della zona come un punto d’approdo affine a Vinkeveen per uso in termini situazionali e nel corso dei mesi estivi. Il che costituisce soltanto una metà dell’ingegno conferito al piano regolatore: questo per la conformazione a mezza luna di ciascuna palazzina, affinché ogni gruppo di residenti possa beneficiare del proprio cortile fronte-lago in armonia e pacifica convivenza. Un luogo che persegue determinati obiettivi con esplicita chiarezza e riesce a farlo, senza dubbio, fino alla totale realizzazione dei propri intenti…
Esperimenti giapponesi nella grande casa semovente dei nubifragi
Lo scroscio ininterrotto rendeva difficile muoversi o camminare liberamente, mentre una piccola folla con gli elmetti da cantiere esplora i dintorni, rendendosi gradualmente conto dell’inutilità di continuare a tenere in alto l’ombrello. Letterali centinaia di millimetri l’ora, corrispondenti ettolitri per metro quadro, cadono e rimbalzano tutto attorno ai loro piedi, inzuppandoli dal basso, di lato e fin oltre l’altezza delle spalle. All’improvviso, qualcuno grida all’indirizzo della foschia soprastante che gli sembra di averne avuto abbastanza. Allora il falso “cielo” si schiarisce, mentre la pioggia si assottiglia e repentinamente sparisce. Mentre l’aria perde la sua pesantezza inerente, gli sguardi si girano all’unisono verso la piattaforma antistante. Da dietro il pannello di controllo, tecnici e scienziati iniziano a sorridere, e iniziano all’unisono un collettivo battito di mani.
Nel 1959 a seguito delle oltre 5.000 vittime del grande tifone della baia di Ise, anche noto come Vera o Isewan, il governo giapponese decise che non stava ancora facendo abbastanza. C’è naturalmente poco che un paese, per quanto organizzato, possa fare oltre l’ovvio al fine di prevedere o scongiurare i grandi disastri naturali. L’implementazione di corrette procedure ed accorgimenti, tuttavia, può contribuire a contenere in larga parte alcuni dei loro effetti più devastanti. Un particolare modo di costruire edifici; determinate procedure di evacuazione; l’appropriata metodologia nella programmazione dei dispositivi tecnologici frutto dell’epoca contemporanea, quali droni, sensori e veicoli a guida automatica. Tutto questo e molto altro scaturisce dal National Research Institute for Earth Science and Disaster Resilience o più in breve NIED, l’ente istituito al fine di scovare e approfondire ogni attuale margine di miglioramento in tal senso. Tramite l’unico strumento davvero efficace della sperimentazione, un sentiero la cui esplorazione tende a comportare, in determinate circostanze, l’utilizzo di sistemi non del tutto privi di un certo significativo grado di spettacolarità. Questo il caso del famoso impianto di simulazione dei terremoti, la piastra con motorizzazione idraulica a scuotimento più grande al mondo (vedi) risalente al 1970 e poi migliorata nel 2003 presso il complesso di Tsukuba, laddove qualche in questa stessa sede era stato nel frattempo messo in pratica un approccio riproducente una tipologia di problemi proveniente dall’opposta direzione: la stagionale, occasionale ricaduta dell’acqua atmosferica, normalmente capace di costituire poco più che un transitorio fastidio. Finché non tende a divenire, con suono battente o in certi casi un rombo ininterrotto, eccessivamente intensa…
La vecchia casa che giunse per nave all’indirizzo di un più lieto destino
Si usa dire talvolta: “Ah, se queste mura potessero parlare”. Cui andrebbe aggiunto, “Vorrei che gli abbaini avessero la propensione al racconto.” Oppur: “Magari i timpani, i cornicioni fossero inclini alla disquisizione.” E chi non vorrebbe ascoltare l’opinione dei colonnati? C’è ancora vita in queste vecchie ossa, ed ancor più la scintilla della personalità continua a risplendere, ostinatamente, in mezzo ai recessi della tipica Casa Vittoriana. Intesa non come appartenente al particolare periodo storico britannico, dominato dalla longeva sovrana simbolo del colonialismo imperiale, bensì un edificio basato su particolari crismi, appartenenti a quel contesto e non solo. Un tipo di dimora che in effetti, scrutandola a posteriori, parrebbe inquadrata primariamente nel mondo Nuovo ed il contesto tipico dell’unico luogo, popolo e nazione, che furono in grado di ribellarsi all’egemonia di Albione. Gli Stati Uniti e le tipiche mura fantasma, o quanto meno abitate da uno spettro o due: difficile immaginare, fin dall’epoca della celebre residenza Addams, un duo maggiormente iconico segnato tra le lettere polverose della Storia. O perché no, storie; intese come vicende, spettacolari aneddoti dell’architettura o frangenti, il cui dipanarsi rispose a specifiche contingenze non necessariamente, o in verità probabili, a ripetersi adesso o mai più a seguire. Vedi la scena piuttosto celebre dell’allora già secolare Lyford House, elegante mucchio di mattoni e assi di legno californiano che nel 1957 fu fotografata migliaia di volte nel giro di appena una mezza giornata. Giacché si trovava incredibilmente impegnata a navigare, sopra una chiatta poco più grande del suo salone principale, lungo le acque della baia di Richardson, labirintica insenatura a settentrione della città di San Francisco. Come fortemente voluto dal suo recente e meramente transitorio acquirente, il Dr. David Steinhardt, che l’aveva vista circondata dai bulldozer durante una passeggiata mattutina nei dintorni della sua casa. Non potendo restare in silenzio, come molti avrebbero fatto, e decidendo di non esimersi dall’agire, in maniera decisamente più rara, offrendo su due piedi un prezzo d’acquisto allo sviluppatore edilizio che aveva acquisito per vie traverse i diritti sul terreno della vecchia collina di Strawberry Point, con quel distintivo, irripetibile bene storico della Nazione. Allorché una squadra speciale di oltre 50 volontari, tra cui il proprietario di una chiatta traportatrice Tom Crowley e l’architetto John Lord King si apprestarono ad aiutarlo, in modo tale da poter completare l’insolita, quanto impossibile mansione. Poiché tutto è possibile quando la volontà e sufficientemente forte, abbastanza condivisa. Persino trascinare, con solide corde, un’imponente edificio fino alla spiaggia e da lì caricarlo (in maniera difficile da immaginare) sopra lo scafo solido in grado di trasportarlo per svariati chilometri attraverso le acque salmastre fino al terreno dell’Audubon Center, moderno ed attrezzato santuario per gli uccelli. Dando inizio ad un nuovo capitolo, per quanto marginale, nella lunga e complessa storia degli insediamenti costieri della California…