L’ardua sfida del cestino anti-orsi

Bear Bin Lubiana

Siamo a Lubiana, nella Repubblica di Slovenia, per assistere a una scena alquanto rara. Tre esponenti della specie Ursus arctos arctos (l’orso bruno eurasiatico) si trovano all’interno del recinto dello zoo cittadino. Insieme a quello che potremmo definire, senza dubbi residui o inutili romanticismi, un plasticoso corpo estraneo di colore rosso. Pieno zeppo di…Frutta, mele, pere ed ogni altra possibile fragranza ad esse collegate, in un melange tale da portare alle vertigini la testa di chiunque aspiri ad un gustoso snack. Ovviamente, in un mondo perfetto il recipiente si spalancherebbe come una copiosa cornucopia, per la massima soddisfazione dei tre irsuti beneficiari. Mentre qui, purtroppo, c’è in agguato la fregatura e una tremenda faticaccia: l’intero set-up, in effetti, è stato costruito con lo scopo preciso di mettere alla prova un’avveniristica tecnologia, sfornata dai laboratori degli esperti del settore. La LIFE DINALP BEAR, associazione locale mirata alla salvaguardia del patrimonio faunistico, ha infatti messo a punto un tipo di cestino per la spazzatura che dovrebbe essere, almeno nell’idea dei suoi progettisti, del tutto impervio all’apertura da parte dei suddetti onnivori dei loro boschi. Cosa che puntualmente, per il primo topico minuto, pare verificarsi: il materiale dell’oggetto in questione appare sufficientemente resistente, e la sua chiusura abbastanza complessa, perché i soggetti dell’esperimento debbano limitarsi a palleggiarselo a vicenda, nel tentativo inutile di accedere ai suoi contenuti. Ma tutte le volte in cui sviluppa il desiderio di qualcosa, si sa, un orso sa essere davvero molto persistente…Figuriamoci tre.
Che la foresta sia un luogo inospitale e scomodo è un dato sostanzialmente opinabile. Un territorio vergine, incontaminato. Ricco di alimenti ed opportunità! Non ne è forse la prova lampante, dinnanzi agli occhi di noi tutti, la stazza stessa del più grande abitante di quei luoghi? Una creatura del tutto simile a noi, se soltanto avessimo un muso allungato, il grasso di riserva ed una folta pelliccia per l’inverno, gli artigli in grado di sradicare un albero, la predisposizione ad andare in letargo… Animale, per di più, perfettamente in grado di deambulare sulle zampe posteriori, in una ragionevole approssimazione di quello che si potrebbe scambiare per una sorta di lupo mannaro. Anche per i suoi processi comportamentali, insistenti e scaltri, così distanti da quelli che saremmo soliti attribuire ad simile esponente dell’antica evoluzione. Si, è una belva che conosce l’uomo, sia pure di seconda mano. E farebbe di tutto, per acquisire alcuni dei nostri vantaggi e le più utili prerogative. Perché quando un grizzly si sveglia la mattina, già sa che dovrà consumare circa 30.000 calorie entro il tramonto del sole: l’equivalente di 30 piatti di pasta e 30 hamburger! Da acquisire, tuttavia, grazie al tramite di semplice materia vegetale, quali cavoli e sedano, radici commestibili di vario tipo. L’immagine popolare dell’orso che fagocita i salmoni intenti a risalire il fiume, in realtà, non si riferisce che a uno specifico periodo dell’anno, qualificabile come un banchetto davvero speciale. Così come la questione dell’alveare ricolmo di miele, scovato, diciamo, al massimo una volta o due per ciascun mese. Per la rimanenza del suo tempo, un tipico plantigrade non potrà MAI contare su tali fortune. È un po’ come la questione del panda gigante, che per sopravvivere deve passare ogni singolo minuto della sua vita a sgranocchiare l’incommestibile germoglio di bambù. Del resto, nei terreni elevati del suo antico ambiente naturale, non c’era altro che potesse soddisfare il suo appetito. Ma anche i nostri prosaici orsi dalla tinta unita, siano questi delle specie americane oppur d’Europa, devono fare i conti con un simile problema. Pensare sempre al mangiare, mangiare, mangiare….

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Uomo assaggia una razione militare risalente al 1959

MRE Info

Nelle botti piccole, questo è noto, c’è il vino migliore. E in quelle vecchie il più prezioso. Ma esistono bottiglie, a questo mondo, che tu non berresti mai, neppure in presenza di un’etichetta fra le più prestigiose, o con la garanzia che viene dal profondo di una celebre cantina. Semplicemente perché è il loro stesso aspetto, a renderle poco invitanti: quando persino lei, la più amata delle bevande alcoliche, è stata tenuta in condizioni di stoccaggio inadeguate, a una temperatura superiore a quella ideale, ed ha assunto quell’aspetto torbido di una coltura di batteri, che si accompagna al gusto metamorfizzato del volgare aceto…Ma ora immaginate, per mero esercizio comparativo, di essere degli enogastronomi consumati, con alle spalle una carriera vasta come il mare, e di ricevere all’improvviso la notizia che da oggi, sarà totalmente impossibile bere vino precedente all’anno 2000. Perché? Hanno scoperto, diciamo, che fa male. A quel punto, potreste davvero abbandonare la vostra passione, così di punto in bianco? (il rosso e il nero!) E dimenticare quella letterale montagna di aromi e sapori, potenzialmente sviluppati attraverso la ruota dei mesi, che derivavano dagli anni ed anni di sapiente attesa…
Ebbene, questa è sostanzialmente la situazione vissuta, quotidianamente, dagli appassionati di un particolare tipo di esperienza alimentare, che incorpora in se stessa un differente studio della storia, il gusto estremo di una prova di coraggio, addirittura, in un certo senso, il collezionismo propriamente detto, delle scatole o lattine di contorno. Persone come il qui presente Steve1989 MREinfo, che pratica occasionalmente la degustazione dei pasti pronti degli ambienti militari, le cosiddette razioni C, pensate per sostituire il cibo fresco (razione A) o quello confezionato e da cuocere (razione B) in tutti quei casi in cui ci sia una guerra da combattere, o ci si trovi in missione solitaria presso luoghi selvaggi e/o remoti – il Polo, l’Equatore, così via. Un vero e proprio hobby, che tuttavia richiede l’insolita capacità di mandare giù qualsiasi cosa, indifferentemente dall’aspetto e dalla provenienza. Questione chiaramente esemplificata dal suo recente video qui mostrato, relativo ad una rara MRE (Meal, Ready-to-Eat, in realtà un’antonomasia ripresa dal nome del prodotto americano) preparata originariamente nel 1959 per le forze aeree canadesi, e che almeno stando a quanto ci viene fatto notare, sembrerebbe aver subito condizioni di stoccaggio meno che ideali. Il sospetto viene già dal primo sguardo, dato all’affascinante lattina di un retrò verde oliva, chiusa con lo scotch per una spedizione più sicura, che appare ammaccata e scolorita, a causa degli anni trascorsi dentro a qualche derelitto magazzino. Una volta aperta, sotto un breve pamphlet con informazioni generiche di sopravvivenza, si realizza il primo shock estetico: tra due masse nerastre, di provenienza indefinibile, campeggia una doppia fila di quelle che sembrerebbero delle grosse e variopinte caramelle gelatinose, generalmente incluse nel menù per il semplice fatto che i carboidrati sono assimilabili dal nostro organismo con quantità d’acqua relativamente ridotte, e in più tali cibi si conservano anche molto, molto a lungo. Entrambi grossi vantaggi, nello specifico contesto qui descritto. Negli ambienti statunitensi esisterebbe tuttavia una diffusa diceria, secondo cui mangiare l’equivalente locale prodotto dalla compagnia Charms sarebbe un gesto latòre di sventura. Probabilmente una leggenda derivante dal sapore di detti dolciumi, che benché apprezzabili dai bambini, in condizioni di consumazione occasionale, così inseriti all’interno di un vero e proprio pasto con finalità di fare da contorno alla portata principale, tutto fanno, tranne che aiutare l’appetito. Di noi comuni mortali. Ma vogliamo parlare, dunque, di quest’ultima essenziale componente? Il cupo ammasso in corso di disfacimento (ma non maleodorante, un ottimo segno!) che Steve si trova a definire, a nostro beneficio, come l’approssimazione di un fruit cake! D’accordo, hai mordicchiato un dolcetto ormai diventato duro come il diamante, oppure due, ma di certo non oserai…

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Il pane cotto in un cilindro sotterraneo

Tajik Bread

Un altro click, l’ennesima finestra che si apre su di uno scenario di vita comune, ancora una volta proveniente da contesti quotidiani infinitamente diversi dal nostro. Eppure, c’è una strana familiarità in questa serie di gesti antichi e calibrati. Quasi come se, pur non avendo mai provato l’esperienza di fare il naan, principale cibo dell’Asia meridionale, in un certo senso ne conoscessimo il sapore. Frutto dell’incontro conviviale e la proficua collaborazione, valori di primo piano nell’etica di qualsiasi società, non importa quanto distante dal punto di vista geografico e/o culturale. In un silenzio quasi religioso, probabilmente motivato anche dalla presenza delle telecamere, Shamsullo Dustov, abitante del Tajikistan, si coordina con una sua parente o vicina di casa (il nome non ci è pervenuto) nel dimostrare il corretto impiego del tandooruno strumento di cottura che costituì, fondamentalmente, il passaggio intermedio tra un semplice buco nel terreno con il fuoco dentro e il forno orizzontale in muratura, ma che tuttavia può dirsi, in molti contesti delle sue regioni d’origine, una versione più essenziale ed efficiente di quest’ultimo elemento. Sufficiente alla creazione di un vasto ventaglio di delicatezze, tra cui la più famosa in Occidente resta ad oggi il pollo speziato di colore rosso fuoco, proveniente dall’India del Punjab, che da un tale arnese prende il nome di tandoori. Ma basta spostarsi di qualche chilometro da quel particolare luogo, per scoprire come il particolare cilindro di materiale ceramico refrattario o metallo sia sinonimo di un gusto del tutto differente, che potrebbe dirsi il fondamento stesso della cucina del Tajikistan e dell’Uzbekistan, delle genti Azere e dei Curdi, e che da questi luoghi fu esportato alla maggiore parte dei paesi confinanti. Il pane lievitato fatto con la maida, una farina molto fine che da noi si usa soprattutto in pasticceria, ha un nome che viene impiegato senza limitazioni in molte lingue, ma un’origine etimologica che ne collocherebbe l’origine tra le genti dell’odierna Iran: la parola persiana nan, infatti significava cibo, e ne conosciamo diverse varianti attraverso i secoli di storia successiva dell’aria semitica, con derivazioni Partiche, Balochi, Sogdian e Pashto. Eppure non c’è luogo tra quelli citati, e forse nell’intero mondo conosciuto, in cui il semplice pane riceva un posto di maggiore pregio sulla tavola, e una più alta considerazione, che in questo paese confinante con la Cina, stretto fra due catene montuose e privo di sbocco sul mare (fosse stato questo, pure Caspio oppure Nero). Una terra relativamente poco fertile, che negli anni recenti, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, ha visto un significativo calo della sua produzione agricola e industriale. E dove quindi, l’abbondanza alimentare in una casa è spesso riservata ad occasioni speciali, come feste, riunioni di famiglia e matrimoni.
La versione del naan che ci viene mostrata nel presente video, in effetti, così grande ed attraente, è quella definita patyr, la cui parte superiore viene attentamente decorata, prima della cottura, tramite l’impiego di posate o un’attrezzo specifico, detto nonpar. L’effetto finale, nel caso di preparatori esperti che si applicano per dei tempi particolarmente lunghi, è simile a quello di un merletto lavorato, che stimola l’occhio ancora prima dell’appetito, e la dice lunga sull’alta considerazione in cui queste genti tengono i loro ospiti e parenti. Al termine di un simile passaggio, privo di una funzione pratica eppure assolutamente necessario, il pane viene finalmente infornato. Ed è forse proprio questo gesto, quello che potrebbe rimanerci maggiormente impresso. In più di una maniera!
Ci sono molte versioni del forno tandoor, ed altrettanti metodi d’impiego. In quello tradizionale per la preparazione del naan, tuttavia, non è previsto l’impiego di alcuna superficie di sostegno o barriera tra il cibo e le fiamme vive del carbone, che possono raggiungere anche la temperatura di 480 gradi. Il cibo viene infatti, letteralmente sospeso. Si, ma come? È presto detto. Nel momento saliente del video, lavorando rigorosamente a terra, S.Dustov prende la sua ampia frittella e la depone su un cuscino piatto dalla forma circolare. Quindi, praticati alcuni tagli perpendicolari sull’impasto, prende tutto quanto e lo solleva, si avvicina al buco nel terreno. Tra il probabile stupore degli spettatori internettiani, si china verso l’apertura e sembra stare per gettarvi dentro il quibus laboriosamente preparato, quando all’improvviso…SPLAT. Un colpo di mano, frutto di anni di esperienza, basta a scaraventare l’insieme sulla liscia parete del forno. Dove, volente o nolente, resterà saldamente appiccicato, fino al risuonare metaforico di un timer di cottura, tramandato dalla prima mente agile che concepì un simile metodo di preparazione, così apparentemente contro-intuitivo. La che verrebbe anche da chiedersi, ma il naan, non cade dentro proprio MAI?

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Gli assaggiatori del frutto dall’aroma infernale

Taste the durian

Il grande durian spinoso non ha un odore tanto orribile. È soltanto incompreso, perché eccezionalmente efficiente in ciò che fa. Ovvero, fin dall’origine della sua specie: attrarre gli animali da notevole distanza, affinché mangino la polpa di quel frutto, assumendo assieme i semi che poi troveranno nuovi lidi ove attecchire, ad eterno rinnovamento di questi alberi dalla corteccia scura e fessurata. Uno di questi giganti verdi può vivere per centinaia d’anni, crescendo fino a ben 50 metri.  E con simili cifre, è davvero difficile passare inosservati. Così, chi lo ama, chi lo odia, persino nei suoi paesi d’origine, la Malesia, il Brunei e l’Indonesia. Mentre nelle Filippine, da tempo permane la disputa sul fatto che gli alti arbusti della regione di Davao, in grado di crescere senza l’aiuto degli umani, fossero lì da sempre, oppure il frutto di un’importazione antica.  In effetti il durio è una pianta piuttosto resistente, a patto di piantarla nel suo ambiente strettamente tropicale, sarebbe a dire, in cui la temperatura media non scenda mai sotto i 22 gradi. E chi ha imparato ad apprezzare il gusto di ciò che produce, fin da tempo immemore, quei fusti e rami li ha ibridati in cento modi, con loro stessi a far da controparte, come gli appartenenti ad altre famiglie vegetali, che potessero in qualche maniera dargli benefici, come l’immunità da infezioni parassitarie, oppure un frutto che matura in tempi più lunghi, quindi maggiormente adatto all’esportazione. Non che siano molti i paesi, in questo vasto mondo, in cui la gente abbia il coraggio d’assaggiare una simile delicatezza, come esemplificato dagli innumerevoli episodi fallimentari di “prova di coraggio da durian” o “sfida del durian”. Le cui conseguenze ultime, piuttosto spesso, sono versi e conati apocalittici, seguiti da copiose esclamazioni di disgusto.
Come questo breve show, uno degli ultimi sull’argomento, proposta dal grande hub multimediale di Buzzfeed. In cui un certo numero di coppie, poste a tavola con quello che i malesi chiamano il Re dei Frutti, tutto fanno tranne che rendergli onore, tra smorfie disgustate, gesti di stizza e scrosci di risate nervose, seguite timidi bocconi della pietanza, in questo caso, punitiva. Questo perché la prima e più terribile caratteristica del durian, almeno stando allo stereotipo perennemente ripetuto, è l’odore indescrivibile, simile alla trementina ma occasionalmente descritto come funghi, formaggio, cipolle mature (quando va bene) oppure uova marce, eau de WC, calzini, stallatico fumante (nei casi , ahimé, più frequenti). Ad ulteriore riconferma della situazione, pensate che la stessa varietà maggiormente apprezzata dell’albero, che poi è anche l’unica soggetta ad esportazione dei frutti, risulta denominata scientificamente come D. Zibethinus e non soltanto, come si potrebbe pensare, perché ne va matto lo zibetto, piccolo mammifero di simili foreste. Bensì perché qualcuno, con un senso dell’orrido piuttosto sviluppato, pensò all’epoca di associargli il discutibile olezzo della bestiolina; il che, quando ci si ricorda che lo zibetto è imparentato con la puzzola, aiuta a comprendere l’entità dell’esperienza sensoriale di simili coraggiosi gastronomi, espiatori sperduti nelle lande desolate del gusto. Un gusto che…Beh, potrete immaginarvelo. É altrettanto polarizzante. Tanto per citare due personaggi famosi della TV americana, ne va pazzo ad esempio Anthony Bourdain che, avendolo fagocitato durante il suo viaggio in India, l’ha descritto come “Un qualcosa di indimenticabile, difficile da decrivere […]” Mentre Andrew Zimmern, il conduttore di Bizarre Foods (Orrori da Gustare), si è sempre rifiutato di mangiarlo. Il che, visto che stiamo qui parlando di un uomo che ha divorato con appetito inesauribile ogni sorta di insetto, verme, testicoli di bestie di ogni dimensione e addirittura un cuore di cobra pulsante… Chiarisce…Qualcosa. Ma forse non ciò a cui state pensando: questo frutto in fondo, amato dalle moltitudini di un’intera metà del mondo, non può certo essere COSÌ tremendo. La realtà dei fatti, come spesso capita, deve risiedere da qualche altra parte.

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