Le case fantastiche tra i rami di un bonsai

Takanori Aiba

Alberi minuti ed incredibili, colonizzati dagli gnomi del paese che sussiste nella mente degli artisti. L’occhio non è un semplice strumento sensoriale, perché apre il passaggio verso il regno dell’immaginazione. Come un cuneo che s’insinua, spinge innanzi, tra le crepe che dividono lo spazio del possibile immanente. Basta così poco, tanto spesso! Uno sguardo momentaneo, gettato verso un qualcosa di costruito che fuoriesca in qualche modo dal probabile, esuli dal quotidiano, pur essendo il frutto degli stessi presupposi che guidavano lo spazio circostante; ecco il risultato. Niente più limiti, tranne quello insuperabile del tempo. Le dettagliate realizzazioni visuali firmate da Takanori Aiba, creativo, architetto e illustratore, sono veri e propri mondi in miniatura, piccole città immaginifiche dallo sviluppo prettamente verticale. La ragione di una tale scelta estetica appare ben presto evidente, dalla provenienza originaria della loro essenza: dovevano costituire da principio, con le finestrelle e i tetti aguzzi, con i molti ponti ed i sentieri serpeggianti, le balconate e gli ombrellini (tutti quei mulini) il coronamento ulteriore di un’arte così prettamente orientale. La prassi attentamente codificata della costrizione vegetale, la riduzione del macroscopico a misura di sacra nicchia domestica, il gesto di chi fabbrica i bonsai, quindi li mette in un paesaggio in miniatura.
Esisteva in Cina, fin dal primo secolo d.C, la prassi di ricostruire all’interno di un piccolo vaso i luoghi più rinomati del paesaggio montano, affinché tale scenetta plastica, posta nel punto centrale della propria casa, si occupasse di far da eco alle energie benevole del luogo fonte dell’ispirazione. Era un concetto prettamente taoista, mirato quindi alla ricerca di uno spirito vitale e l’Immortalità. Nelle prime opere appartenenti a questa pratica, oggi definita con il termine penjing 盆景 (paesaggi nel vassoio) erano inclusi una grande varietà di elementi, tra cui rocce particolarmente interessanti, modellini di abitazione ed anche piccole figure umane, in qualche modo allusive del supremo desiderio di trovarsi lì, sulla montagna eterna, a venerare i venti ed il significato naturale della verità. Tali creazioni erano tenute in alta considerazione e molto spesso, quando se ne palesava l’occasione, inviate in dono assieme a ricche ambascerie.
Il che ci porta fino in Giappone, attorno al sesto secolo. Quando, col fiorire dei primi commerci, la corte continentale dei Tang stava finalmente riscoprendo le genti dell’arcipelago ad Oriente, migrate fin lì nelle epoche perdute alla memoria dei viventi. Era un regno di bushi quello e se non proprio (ancora!) Veri e propri samurai, guerrieri votati ad un regime di severa autoregolamentazione, scevra d’influenze provenienti da oltremare. Ma alcune delle diramazioni del grande arbusto erano forti e il frutto meritevole di essere apprezzato. Non fu tanto il sistema di valori mistici e magici del taoismo, troppo complesso e legato alle terre ancestrali della sua origine ad attecchire, quanto il senso di rispetto confuciano, assieme a un punto cardine della particolare scuola del buddhismo Chan. Secondo cui l’intero universo (Zen) poteva ridursi a un singolo elemento. Soltanto un albero, in un piccolo vasetto! Perché no? Poi le fronde sono sparite, a vantaggio dell’omino della Michelin.

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La fonderia dei mostri e robot scalcagnati

Ban Hun Lek

Lasciali per terra, sprechi lo spazio e il tempo. Non puoi pensare di collezionare pezzettini di automobili dismesse, borchie deformate. Viti, bulloni, chiodi arrugginiti nello spazio-tempo. Sgorbi sghembi e pezzi spuri. E tutti mi dicevano: un pistone oppure due, senza una camera di scoppio a cosa potrai mai servire! Buttalo via con tutto il resto dei rottami, il suo posto è nella spazzatura. Perché costoro non sapevano la verità. Che anche gli scarti parlano e la loro voce è carica di seduzione: “Brr, siamo tiepidi di un sangue ricco di sistemi, abbiamo una RAGIONE, tanto ancora da DARE…” Se i rimasugli di qualcuno sono il tesoro dell’operoso resto dell’umanità, quando rovistare tra i cumuli dello sfasciacarrozze non è soltanto una semplice scelta ma il futuro possibile delle ragioni di un artista, allora Phairote ha dato la ragion d’essere a un vero e proprio Rinascimento delle cose di recupero. Che va oltre il semplice riciclo, che non ricostruisce meramente, ma proietta innanzi ciò che gli spettatori si aspettano dal bric-a-brac di quei programmi televisivi sul fai-da-te coscienzioso e solidale. Più ti avvicini, meno resti indifferente.
Perché nel suo grande capannone fuori Pattaya, città di 100.000 abitanti nel nord-est della Thailandia sita a circa 130 Km dalla capitale Bangkok, albergano rivisitazioni dei sogni e delle visioni di un’intera generazione, anzi facciamo pure tre. Diversi dal consueto eppure in qualche modo pienamente realizzati: dinosauri vagamente ornati, pecore e cavalli fatti di bulloni, un alieno xenomorfo come quello che seppe regalarci H.R. Giger ma con l’aggiunta delle sospensioni, almeno tre versioni dell’incredibile Hulk: rosso, giallo e grigio scuro. Transformers variopinti in scala oppure rigorosamente monocromatici e almeno da lontano, virtualmente indistinguibili dalla versione cinematografica (in fondo cos’erano quei tecno-guerrieri, se non creazioni antropomorfe fatte in pezzi misti d’automobili…) Ma più ti avvicini a quel recinto, maggiormente scopri piccoli dettagli appassionanti, sopra quelle e tutte le altre cose. Le scaglie sulla schiena dei mostri sono candele d’accensione, mentre sugli arti delle bestie, tendini e tono muscolare vengono resi con innumerevoli catene della bicicletta. I capelli sono frutto d’ingranaggi sovrapposti. Le superfici curvilinee delle schiene arcuate si palesano come un vero e proprio susseguirsi di dadini filettati, forme ottagonali allineate su matrici cristalline, intervallate dall’inserto di qualche gustosa chiave inglese, tanto per spezzare il ritmo delle aspettative. Ogni personaggio è in effetti frutto di dozzine di elementi, raccolti, selezionati e combinati tra di loro, poi saldati, puliti e infine ricoperti da una mano di vernice, per amalgamar quel tutto sconvolgente. Ed è questo un risultato assolutamente degno di nota, nonché adatto al commercio, anche su larga scala….

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Il graffitaro che ha domato le vernici primitive

Hua Tunan

Anima del lupo, del cielo e della tigre. Spirito del pappagallo, cuore di leone. Hua Tunan, al secolo Chen Yingjie, è il giovane artista noto per il suo metodo particolare di ritrarre uccelli, felini e i draghi tipici del suo paese. Considerato tra i più influenti illustratori delle nuove generazioni, nativo della città meridionale di Foshan, ha iniziato a farsi conoscere con una vasta serie di opere improvvise, create su pareti derelitte o prive di un qualsiasi fascino ulteriore, come da prassi operativa dei più rinomati creativi d’assalto, armati di bomboletta e mascherina, i cui regali al mondo raramente vengono notati prima che trascorra un tempo almeno medio. La situazione nel suo caso, tuttavia, è da sempre stata differente: innanzi tutto perché l’opera della sua mano, oltre a rifulgere dei lucidi colori del contemporaneo, si richiama per un filo diretto alla pittura cinese delle origini, la spontanea esecuzione di figure o tratti prettamente calligrafici finalizzata a un canone visuale ancora religiosamente ricordato. Poi perché sempre più spesso, soprattutto negli ultimi tempi, produce stampe limitate che guadagnano cifre considerevoli a seguito di mostre in galleria. Come un Banksy d’Asia, senza il carico di rilevanti considerazioni sulla società. Ma che differenza nell’approccio e dunque, anche nel risultato! Ciascun dipinto è una battaglia con i presupposti, piuttosto che il contesto. Non importa che si tratti di un semplice foglio, un alto muro oppure l’oggettistica dell’altro consumismo, quel momento in cui le grandi compagnie decidono di farsi belle stipendiando chi trae il merito dall’arte; quando lui lavora, tutti gli altri fanno un passo indietro e in senso prettamente letterale. Dev’essere la risultanza di un complesso e lungo studio, il suo incredibile modus operandi: colori, tinture, colori volanti, lanciati da ogni lato della figura di turno in modo apparentemente casuale, eppure valido a produrre esattamente quanto già pianificato. La tecnica è sostanzialmente quella tipica di chi lavora con l’aerografo, ovvero l’applicazione di una serie di strati successivi, di cui il primo definisce le aree a grandi linee, mentre l’ultimo traccia i contorni. Però ecco, nel caso di Hua Tunan, nulla è chiaramente definito fino all’ultimo momento, perché ciascuna macchia è frutto di uno schizzo pure parzialmente accidentale. Ed anche allora…
Guardate ad esempio quella tigre fiammeggiante che dipinge nel video di apertura, allineata con le sue creazioni del primo periodo, più dirette e forse anche spontanee: da princìpio, si presenta come una tempesta di volute sovrapposte, rosse, nere, bianche e gialle. L’aspetto complessivo è straordinariamente moderno, sul bilico della Pop Art eppure la composizione, nella sua approssimativa simmetria, pare richiamarsi alle figure di animali mitologici sui bronzi delle antiche dinastie. Tutti ricordano Taotie il volto della bestia, l’orco affamato del clan Jinyun vissuto al tempo leggendario dell’Imperatore Giallo (26 secoli prima di Cristo) che trasformato attraverso i passaggi successivi della storia dell’arte ha assunto una pletora di significati e diverse mostruose forme. La tigre e il dragone, la tartaruga e la fenice. Quattro bestie per altrettante direzioni cardinali e al centro lui, l’artista, momentaneo tramite tra l’oggi e il remotissimo domani.

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L’ingegnere delle palle astrali rotolanti

Kugelbahn

Un bambino che traccia piste nella sabbia per giocare col tallone, verso il mezzogiorno di una domenica di primavera. La risacca giunge con quel suono ripetuto, SWOOSH che pare richiamarsi al segno dell’aspettativa. Cosa sta per capitare a tante biglie decorate? Quale mistica evenienza può manifestarsi nel riflesso luminoso di una sfera, trasportata verso la sua meta semi-sotterranea? Il segreto non alberga al termine dell’arco di un baleno, bensì all’apice di questo, dove ponti arcuati, costruiti con sassetti e bastoncini, si protendono verso la punta e i limiti della questione. Qualsiasi forma di divertimento personale, se portata alle sue estreme conseguenze, si trasforma inevitabilmente in arte. Ma quando palesandosi ci appare tanto mistica e complessa, bizantina nel suo progredire, non si può fare a meno di chiamarla “scienza” e togliersi il cappello verso il suo creatore/costruttore/controllore. Niente sabbia, qui. Pura applicazione della mente di un elettricista; Ernst Heye, tecnico e tedesco, mette assieme incredibili labirinti gravitazionali con il fil di rame, in cui dozzine di sferette albergano immanenti, nell’attesa che qualcuno ponga il segno d’iniziare. Una leggera spintarella: tanto basta per partire. Verso l’oltre, addirittura, l’aldilà!
La piramide di Nefertiti, usata a ispirazione del costrutto, è una contraddizione in termini, la fantasia non-storica di un menestrello. Ella, che visse nell’Egitto della XVIII dinastia del periodo Armaniano (XIV secolo a.C.) fu regina col marito Akhenaton, dalla loro capitale di Tell al-Amarna. Ebbe, secondo le scene rappresentate sulle tombe coéve, ben sei figlie, al punto che il titolo nobiliare di figlio-della-figlia-di-Nefertiti fu usato a partire da quei giorni come il segno massimo di nobiltà. Alla sua nascita oltre mille anni, tuttavia, erano ormai trascorsi dall’epoca dell’edificazione delle grandi piramidi di Giza, e invero la sua mummia, assieme a quella dei familiari maggiormente rilevanti, non furono mai ritrovate dagli archeologi. Silenziosamente, giacciono immote in qualche misterioso sotterraneo. L’energia potenziale di una simile scoperta non deve essere sfuggita agli occhi chiarificatori dell’artista. Un meccanismo, in fondo, è soprattutto quello e questo. Lo strumento bello per creare un gesto! Quando un giorno finalmente, sotto rocce millenarie, si scorgerà quel sepolcro misterioso, l’effetto domino dei suoi segreti contenuti innesterebbe una reazione quasi senza fine, rimescolando presunzioni e congetture secolari. Come la cascata di palline dentro a un flipper del pachinko. Oppure le automobili in partenza dal casello, all’inaugurazione di una nuova via – paragone, questo, niente affatto accidentale. La caratteristica tipologica della scultura cinetica mostrata in apertura, intitolata Die Pyramide der Nofretete – 2teVers. è generalmente identificata con il termine tedesco di kugelbahn ovvero, la strada per palline. Come nell’alternativa maggiormente celebrata delle autobahn, non esiste un tetto ultimo per la velocità. Né il numero degli pneumatici partecipanti… 

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