Il significato di un cane a pelo lungo in Corea del Sud

Verso la fine del turbolento periodo storico noto come “I tre regni di Corea”, corrispondente al settimo secolo d.C. secondo la nostra datazione, l’egemonia sulla nazione venne garantita dalle manovre politiche degli aristocratici di Silla e le vittorie sul campo di battaglia di un singolo personaggio, probabilmente uno dei più grandi generali ricordati nella storia della penisola d’Oriente. Gim Yu-sin (595-673) era un grande stratega, in grado di applicare il profondo razionalismo del pensiero taoista importato dalla Cina, ma secondo l’opera letteraria scritta quattro secoli dopo del Samguk sagi la misura della sua rilevanza fu anche data dalla capacità d’interpretare e sfruttare a suo vantaggio le credenze folkloristiche di un’Era in cui ogni evento, persino il più insignificante poteva rappresentare un presagio, in grado di decretare la riuscita o il fallimento di un’intera campagna militare. Si narra di un particolare frangente in cui i suoi uomini, che avevano visto una stella cadente in cielo, si fossero rifiutati di combattere contro le truppe dei ribelli. Allora egli fece preparare una palla di combustibile fiammeggiante, assicurata saldamente a un aquilone, che ingannandoli e sovrascrivendo il precedente prodigio permise all’esercito di riguadagnare il morale necessario a vincere sul campo di battaglia. Ma forse la sua misura più famosa resta l’abitudine di farsi accompagnare nella marcia, secondo un precetto irrinunciabile della sua dottrina di comando, da un’intera schiera di particolari cani, descritti dalle fonti storiografiche come “grandi e forti, dal folto manto e i piedi larghi come quelli di un leone” nonché validi guardiani contro ogni tipo di spirito, fantasma o entità maligna. Tali animali, secondo quanto desumibile dei bassorilievi nelle tombe coéve, potevano essere soltanto degli antichi rappresentanti della razza Sapsali/Sapsaree (삽살이).
È significativo che nell’elenco delle svariate centinaia di Tesori Nazionali designati dal governo coreano figuri, al numero 368, non l’ennesimo ritrovamento archeologico o reperto di un’epoca trascorsa, bensì un’intera genealogia d’animali selezionati artificialmente, assolutamente vividi e in trasformazione nel procedere della propria esistenza. Ciò permette di comprendere come simili elenchi, diffusi nell’intera area geografica dell’Estremo Oriente, siano qualcosa di profondamente diverso da una mera “lista della spesa” culturale, rappresentando piuttosto un’espressione sincera d’interesse dei popoli nei confronti della propria storia, e del modo in cui quest’ultima può migliorare ed aggiungere connotazioni alla propria vita di tutti i giorni. Ragione per cui oggi questa razza, in effetti appartenente al genere della taglia media secondo i canoni internazionali (il Sapsaree misura 50-60 cm al garrese) trova un posto d’onore all’interno delle case sufficientemente fortunate da potersene permettere un esemplare, considerato immancabilmente piuttosto raro a causa dei difficili trascorsi dell’intera specie canina lungo l’estendersi della vasta penisola ad est dell’Asia.
Secondo le cronache ufficiali tutto ebbe inizio attorno all’anno mille, quando un’afflusso significativo ed improvviso delle genti nomadi Khitan, in fuga dai potenti eserciti dell’impero Mongolo, fece il proprio ingresso in Corea nel corso della dinastia Goryeo (918-1392) facendo conoscere a un popolo storicamente buddhista il piacere del consumo di carne bovina e quasi incidentalmente, anche quella di altri animali. Sembra quindi che successivamente allo spostamento della capitale a Seul, con la fondazione della successiva dinastia Joseon, l’alta concentrazione di abitanti nel contesto urbano dovesse si trovò a fare i conti con un’eccessiva presenza di cani randagi. Al che, nonostante la protesta di alcuni letterati, venne decretato che la loro carne fosse data in pasto alla parte più povera della popolazione. In breve tempo, attorno alla consumazione di carne di cane nacque un’intera sottocultura, completa di ricette tramandate orgogliosamente attraverso le generazioni di ciascuna famiglia. E molte delle antiche storie vennero dimenticate, nonostante continuassero ad esistere delle specifiche razze, come il Sapsaree, considerate semplicemente troppo preziose per essere sacrificate a scopo alimentare. Il vero colpo di grazia sarebbe dunque giunto molto successivamente, nel periodo tra la guerra russo-giapponese e il primo conflitto mondiale, quando le truppe d’occupazione nipponiche videro nel lungo pelo di questa razza il materiale ideale per fabbricare le giacche d’ordinanza da utilizzare durante le proprie campagne in Manciuria. Il che portò, entro un ventennio, a una drastica riduzione della popolazione di questi cani, fatta eccezione per alcune enclavi isolate o paesi remoti dell’entroterra, dove simili compagni d’esistenza venivano gelosamente custoditi dalla popolazione. Il Sapsaree ricompare quindi nella cronache ufficiali soltanto verso l’inizio degli anni ’70, quando un gruppo di professori dell’università di Kyungpook, appartenente al distretto della città di Taegu, si occupò di raccogliere ogni esemplare superstite che gli riuscisse di trovare, portandone circa 50 in un singolo istituto in mezzo alle montagne meridionali del paese. Ma le tribolazioni di questi cani erano lungi dall’essere  terminate…

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L’ultimo mostro dei torrenti giapponesi

Nel 426° giorno di regno del 96° imperatore del Giappone, depositario capostipite del clan di Yamato, la cascata viola dei fiori di glicine incorniciava la figura del vecchio samurai. Con espressione indecifrabile, sedeva a gambe incrociate nel cortile della vasta tenuta, frutto dei lunghi anni di fedele servitù nei confronti del suo signore. L’abate del tempio di Sogenji fece il suo ingresso in abiti da pellegrino, appoggiando il bastone da passeggio contro la staccionata, prima di raggiungerlo e fare un profondo inchino. Al che il guerriero dal costoso kimono, con un gesto magniloquente, gli fece cenno di prendere posto di fronte a lui. “La ringrazio di essere venuto personalmente, vostra Eminenza. Ciò che sto per dirvi non poteva essere affidato ad alcun messaggero, né dovrà lasciare questo luogo prima del sesto giorno del settimo mese, quando getterò il maledetto coltello nel lago Biwa e dichiarerò ufficialmente la mia intenzione di lasciare gli affanni del mondo, per dedicarmi a una vita di meditazione e preghiera.” Al che il monaco piegò il capo, facendo un segno di assenso. Non era la prima volta che riceveva una chiamata simile da un membro dell’alta aristocrazia, e sapeva di conseguenza esattamente quello che avrebbe trovato ad aspettarlo. “Però…” continuò a quel punto Mitsui Hikoshiro, trionfatore di un numero incalcolabile di battaglie: “In quel preciso momento dovrà essere presente il vostro migliore esorcista. Per liberarmi dallo spirito vendicativo che mi tormenta da tanti anni”. Ecco qualcosa d’inaspettato; ma non del tutto. Naturalmente, tutti conoscevano la storia di questo lontano parente del clan dei Minamoto, che molti anni prima della Restaurazione shogunale aveva affrontato un mostro ed era emerso vittorioso, finendo per pagare il prezzo più alto concepibile dagli umani. Hanzaki era il nome della creatura, che viveva da tempo immemore nel fiume di Ryuto-ga-fuchi (Abisso della Testa di Drago) finché in epoca recente, per ragioni impossibili da capire, aveva iniziato a percorrere i dintorni della città di Asahi, divorando il bestiame, abbattendo gli alberi e inseguendo l’occasionale contadino. “Eminenza, lei sa di che sto parlando. La creatura che morendo, dimostrò di non poter morire. E quando la tagliai a metà dall’interno, con il tesoro stesso della mia famiglia…” A quel punto, Mitsui indicò il pugno chiuso la parete frontale dell’abitazione lasciata aperta nell’aria d’estate, oltre la quale risultava perfettamente visibile il lungo pugnale Yama-no-Kaze-no-Tsurugi (la Lama del Vento di Montagna) “Giurò vendetta!” Esclamò, battendo una mano sul ginocchio destro, con un’intensità dello sguardo che sembrò scemare d’un tratto, mentre ritornava con la memoria alla moglie e il figlio, periti per malattia tanti anni prima. Secondo le dicerie popolari, proprio a causa dei due spiriti, maschili e femminile, scaturiti dal corpo del mostro Hanzaki nel momento della sua morte. Gli stessi responsabili della successiva carestia sopravvenuta nel vasto territorio di Okayama, e i lunghi anni di sventura che accompagnarono quelle genti nel corso della sanguinosa guerra per la successione dinastica imperiale. A quel punto ci fu un lungo momento di silenzio, al termine del quale, finalmente, l’abate parlò: “Non credo che un esorcismo possa bastare per la tua situazione. Affinché tu possa fare ammenda, samurai, c’è un modo e soltanto quello. Adesso ascolta con attenzione…”
La creatura delle due metà (hanzaki – ハンザキ) ma anche il pesce gigante del pepe (ōsanshōuo -大山椒) oppure semplicemente, salamandra gigante. Molti sono i nomi attribuiti dal folklore popolare alla Andrias japonicus, tra i pochi rappresentanti rimasti della famiglia preistorica dei Cryptobranchidae, alcuni degli anfibi più imponenti che siano mai vissuti su questo pianeta. Tra un metro e mezzo e due di lunghezza, benché nelle storie e leggende medievali potesse agilmente raggiungere la stazza di un autobus londinese, questo placido essere ha più volte suscitato l’inquietudine di coloro che si trovavano ad incontrarlo, in funzione del suo aspetto evidentemente alieno. La definizione locale è specifica: un’apparizione, un mostro, una creatura “dell’altra parte” momentaneamente giunta nel mondo degli umani, per lasciare in qualche modo un segno e con intenzioni, il più delle volte, di arrecar danno. Ci sono molti tipi di Yōkai, dal fantasmagorico agli incubi redivivi, alle orribili mutazioni della forma umana, senza dimenticare il più raro, benché presente, concetto di criptide, ovvero l’esistenza di un animale che non può essere provata dalla scienza poiché troppo raro, schivo o abile nel nascondersi all’interno del suo habitat d’appartenenza. Ma il caso della salamandra giapponese è particolari persino tra questi, poiché con l’arrivo improvviso dell’epoca moderna, apparve ben presto chiaro ai naturalisti internazionali che essa esisteva veramente, come essere a quattro zampe in attesa di una preda da ghermire tra le acque turbinanti dei fiumi e torrenti di Nippon…

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L’inverno previsto dal bruco peloso della Carolina del Nord

Il paragone con il ben più celebre Giorno della Marmotta celebrato negli Stati Uniti e il Canada è inevitabile, benché ci troviamo innanzi ad un metodo di previsione maggiormente sofisticato e per certi versi, molto più “preciso”. Come ogni anno, ma dopo un’edizione della festa particolarmente travagliata per le temperature già bassissime di questo inizio ottobre, il consorzio di circa 15.000-20.000 persone accorse in un luogo circondato da montagne e foreste ha potuto assistere alla fondamentale “lettura” giungendo alla conclusione che sebbene abbia avuto un inizio gelido, questo inverno subirà una rapida ripresa, con poche nevicate nella parte mediana e un finire in cui sarà nuovamente opportuno indossare i propri abiti più pesanti.
Determinare la vera essenza di una creatura naturale non è sempre semplice, come viene da pensare osservando la larva nera e marrone della Pyrrharctia isabella, comunemente detta falena tigre gialla o direttamente orsetto peloso, per la fitta coltre di peli che la ricopre sia prima che dopo la metamorfosi compiuta all’interno del fatidico bozzolo che corona la sua esistenza. Poiché da un punto di vista europeo, piuttosto che di un abitante degli Stati Uniti, appare immediatamente probabile che debba trattarsi di una qualche versione locale di quelle che in Italia siamo soliti chiamare processionaria, il bruco le cui setole risultano ricoperte di un potente veleno urticante, capace di causare un dolore persino superiore a quello di una puntura di vespa. Difficilmente, dunque, potrebbe venirci in mente di prenderne in mano uno, per porlo dinnanzi all’obiettivo di una telecamera, accarezzarlo e sopratutto renderlo protagonista di una vera e propria festa con tanto di difficili gare, al termine delle quali riceverà il compito di enunciare un’importantissima profezia. Importantissima, sopratutto, per la cittadina americana di Banner Elk, NC, circondata da resort sciistici destinati ad accogliere un vasto pubblico proveniente dall’intero territorio della Costa Est. A patto, s’intende, che cada una quantità sufficiente di neve. Fortuna che un tale essere, almeno secondo il folklore popolare, risulta in grado di fornire agli abitanti il valido accenno di un’idea.
Per l’origine di una tradizione che si perde nella nebbia dei tempi, risultando probabilmente associata alla curiosa variabilità di questi bruchi, la cui presenza o estensione della caratteristica banda marrone può a seconda dei casi estendersi per una variabile quantità dei 13 segmenti che compongono l’animale, tanto che a qualcuno dev’essere apparso chiaro, durante un subitaneo momento d’illuminazione, che questi dovessero costituire un messaggio elaborato dalla Natura stessa, appositamente per chi fosse riuscito a farne tesoro. Ecco dunque svelato il metodo: ad ogni segmento corrispondono due settimane, per un totale di 26. Maggiormente ciascuno di essi risulterà distante dal nero assoluto, tanto più nel periodo corrispondente la luce del sole tornerà a splendere, sciogliendo i ghiaccioli e prevenendo il principio d’assideramento per chiunque dovesse essere tanto coraggioso da uscire di casa. Ciò rende assolutamente necessaria la selezione dell’esemplare “migliore” o “più giusto” data l’effettiva natura di tale livrea, che sembra estremamente variabile anche tra i singoli esemplari ritrovati sulla stessa pianta, per non parlare di uno specifico anno corrente. Ragione per cui le molte versioni di questa festa, di cui quella di Banner Elk è la più famosa ma certamente non l’unica, sono solite includere nel proprio programma un vero e proprio torneo ad eliminazione, basato sulla velocità con cui i diversi bruchi riescono a percorrere l’intera estensione di un filo perpendicolare al suolo. È inutile a questo punto affermare che, per scienziati e meteorologi, l’opinione possibile in merito all’attendibilità di tutto questo sia soltanto una…

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Il mistero tecnologico delle navi nella bottiglia

La prima menzione giunta fino a noi di quest’arte figura nei diari di bordo della County of Pembroke, veliero da trasporto costruito nei cantieri del Sunderland nel 1881, destinata a naufragare nel 1899 con un carico di guano durante un attraversamento di Capo Horn. Scrisse il suo capitano, prima di quell’anno sventurato: “Uno dei nostri marinai sta lavorando nelle ore di riposo a mettere una nave nella bottiglia, un processo che ha richiesto dodici mesi di lavoro, fino a questo momento. L’ha intagliata con un coltellino e ha ritagliato ed incollato ciascuna singola vela. Non manca nulla. […] “Che cosa vuoi farci” Gli ho chiesto. “Venderla, ovviamente. Per due sterline di tabacco da masticare.” A quanto possiamo desumere da un certo tipo di narrazioni di seconda mano, ad ogni modo, si trattava di una pratica diffusa. Gli uomini legati ad un lavoro particolarmente faticoso verso l’inizio del secolo scorso, nelle ore libere a disposizione, erano soliti intrattenere un passatempo capace di concedergli dei piccoli guadagni extra. E se la loro manualità risultava sufficientemente utile allo scopo, la strada scelta per esprimersi risultava un particolare tipo di modellismo, finalizzato a stupire e in qualche modo coinvolgere i potenziali futuri compratori. Ciascuno produceva ciò che conosceva meglio: esistono infatti miniere, locande, opifici, saloon in bottiglia… La nave, come concetto, non è particolarmente antica e viene fatta risalire al massimo attorno al 1880, quando l’invenzione degli stampi in ferro raffreddato rese per la prima volta economico e sopratutto, trasparente, uno dei materiali più versatili mai usati nella storia dell’umanità. Creando un tipo di curioso soprammobile che in molti abbiamo visto, e qualche volta persino acquistato, senza tuttavia giungere ad interrogarci sulla maniera stessa in cui, effettivamente, fosse stato possibile realizzarlo. Il più semplice, nonché apparente dei misteri: come fa un oggetto dal chiaro sviluppo verticale, quale un veliero dell’epoca delle grandi esplorazioni, a passare attraverso un pertugio stretto come il collo di un tipico flacone per la birra o altra bevanda similare? Possibile che l’autore, in qualche modo, sia riuscita a costruirla con dei lunghi strumenti lavorando direttamente all’interno? Tutto è possibile. E se l’esperienza della storia dell’arte ci ha insegnato qualcosa, è che l’ingegno umano non conosce letteralmente limiti, quando si tratta di dare uno sfogo alla creatività. Quello che tuttavia non molti sanno, perché non è abitudine dei maghi svelare i loro arcani trucchi, è che esiste un metodo assai più semplice, eppure non meno funzionale, per giungere ad un risultato altrettanto ineccepibile nel suo complesso. Si potrebbe addirittura dire che ricordi vagamente il funzionamento del teatro delle marionette, con la sua pletora di fili per il controllo remoto di un movimento.
E che movimento! Come ci mostra in pochi attimi, con un’onestà disarmante, Rob della vecchia trasmissione televisiva australiana Curiosity Show, quasi come se volesse insegnarci il metodo per fare lo stesso. E non è impossibile pensare che qualcuno, all’epoca, abbia intrapreso la costruzione della sua versione, oppure un’intera serie di tali oggetti, basandosi su quanto stiamo per esprimere in parole semplici e dirette: la nave viene costruita fuori dal recipiente, avendo cura che lo scafo stesso, ricavato inevitabilmente da un singolo pezzo di legno, sia capace di passare attraverso il collo trasparente. Mentre per quanto concerne la sovrastruttura, ciascuno degli alberi è stato dotato di un minuscolo cardine e conseguentemente abbattuto in parallelo alla linea di galleggiamento. Le vele, incollate solo nella parte superiore, ricadono orizzontalmente sul ponte del modellino. Tutto il cordame ricade, invece, libero dinnanzi alla prua. A questo punto con estrema cura, Rob inizia il processo d’inserimento, lasciando quest’ultimo completamente al di fuori della bottiglia. E con un’ottima ragione: una volta incollata la nave stessa all’interno del vetro, mediante la mistura tradizionale di colla e plastilina color-del-mare, basterà infatti tirare questi fili verso l’esterno, perché l’alberatura torni eretta come il braccio di una minuscola catapulta. Et voilà, come direbbe un prestigiatore: l’impossibile è diventato realtà. Non è chiaro chi abbia inventato questo particolare approccio, né se fosse già noto, in effetti, all’epoca del marinaio senza nome della County of Pembroke. Si ritiene tuttavia che questo tipo di artifici, assieme al concetto stesso di creare una bottiglia “impossibile” e proprio per questo dannatamente affascinante, sia una tradizione importata in Europa Occidentale e negli Stati Uniti dal suo contesto geografico originariamente slavo, tra popoli che erano soliti impiegarlo come approccio alla venerazione religiosa o una sorta di ex-voto rivolto alla mente suprema dei cieli. All’epoca, ovviamente, l’oggetto al di là del vetro non era affatto un fiero metodo di spostamento al di là del mare, bensì una forma ancor più riconoscibile e a suo modo, stimata dal popolo per la sua fondamentale funzione. La croce sopra il Golgota, sopra cui era stato messo a morte il figlio di Dio.

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