L’antico Sputnik di terracotta del vino georgiano

“L’origine di tutto” è un concetto per lo più soggettivo, che può configurarsi sulla base di quali siano, in effetti, i requisiti necessari per prendere in considerazione un concetto o un’idea. Per quanto concerne l’esplorazione spaziale, generalmente, si sceglie generalmente il lancio in orbita dello Sputnik 1 dal cosmodromo di Baikonur, satellite sferoidale il cui nome significa in russo “Compagno di viaggio” rimasto nei nostri cieli per 92 giorni a partire dal 4 ottobre del 1957. Nel settore vinicolo invece, altro fondamentale recesso approfondito dall’esplorazione umana, la questione è decisamente più complessa, con diverse nazioni che vorrebbero, ciascuna a suo modo, reclamarne il primato storico. Alcune decadi fa presso l’insediamento di Dangreuli Gora nella valle di Marneuli, tuttavia, una scoperta archeologica sembrerebbe aver fatto molto per schiarirci le idee: attraverso gli strati di terra smossa, riemerse un recipiente del VI secolo a. C. dalle dimensioni simili a una damigiana, al cui interno erano presenti alcuni vinaccioli, ovvero i semi dell’acino d’uva. E per quanto diverse spiegazioni alternative fossero state prese in considerazione, tutti dovettero concordare, dinnanzi all’evidenza, che qualcuno doveva pur averceli messi. Qualcuno che, decine di secoli prima di quanto fosse stato ritenuto possibile in precedenza, stava mettendo in pratica la fermentazione del vitis vinifera, subs. sativa: ovvero in altri termini, si stava apprestando a bere una delle più influenti, importanti e pervasive bevande dell’intera vicenda umana. Ora in epoca più recente, a partire dall’anno 2000, ulteriori scoperte hanno rafforzato il concetto, ciascuna associata a un contenitore di terracotta progressivamente più grande. Il che, del resto, aveva certamente un senso: siamo, dopo tutto, in Georgia, dove il tannino sprigionato dalle doghe delle botti viene considerato deleterio per il gusto di ogni bevanda alcolica, così come l’alternativa moderna del metallo, troppo impersonale e priva di un carattere duraturo. Ragione per cui, attraverso il percorso della civiltà, un’alternativa è stata trovata nella creazione del Qvevri (ქვევრი) un possente vaso dalla capienza media di 800-1.000 litri, con una forma ovoidale e una dimensione vagamente reminiscenti dell’argentea freccetta orbitale russa. Il che significa che volendo, una persona potrebbe facilmente entrarci dentro. Ma anche nel qui presente caso, non è affatto consigliabile, né salutare.
Il Qvevri o Kvevri (c’è una storia divertente in merito alla traslitterazione, secondo cui sarebbe stata preferita la Q soltanto perché “tondeggiante” come l’oggetto associato alla parola) è uno di quei metodi alla base stessa di una particolare cultura, tuttavia rimasto letteralmente ignoti al di fuori del loro territorio di appartenenza. Almeno fino al 2013, quando venne iscritto dall’UNESCO alla lista dei patrimoni intangibili dell’Umanità. Privilegio apparentemente superfluo, per un popolo che li venera come letterale Uovo della Creazione alla base stessa della propria visione gastronomica del mondo, eppure funzionale a un Rinascimento tutt’ora in corso, per una prassi artigianale ormai portata avanti soltanto da poche aziende rimaste operative, con passaggi tramandati attraverso una lunga ed articolata storia familiare. Poiché di certo, produrre una risorsa simile non è semplice, particolarmente quando si sceglie di farlo senza ricorrere a macchine automatiche, sfruttando l’alternativa delle proprie stesse mani, l’unica, per inciso, che possa garantire un’alta considerazione da parte di alcuni dei più rigidi guardiani delle usanze pregresse, i vinai. Con la premessa che ci sono diversi approcci alla costruzione, molti dei quali gelosamente custoditi come fossero dei veri e propri segreti, esiste un consenso sui passi principali necessari per poter accedere alla versione Georgiana del vino: si inizia plasmando l’argilla in una serie di stretti cilindri, fatti asciugare al sole e poi disposti in circolo su strati successivi. Un rispetto preciso delle proporzioni da parte dell’artigiano, a quel punto, dovrebbe donare al costrutto una solidità paragonabile a quella del sistema dell’arco, in cui ciascuna molecola sostiene tutte le altre, nell’agglomerato proficuo di un fluido che era stato, soltanto pochi giorni prima, del tutto Newtoniano. Una volta ottenuta la forma desiderata, grosso modo corrispondente a quella di un limone, i nuovi vasi vengono inseriti all’interno di un forno di cottura grande approssimativamente come un garage, dove verranno mantenuti ad alte temperature per un periodo di almeno tre giorni. Una volta che essi avranno assunto una colorazione tendente all’arancione, indicativa dello stato solido raggiunto, verranno tirati fuori uno alla volta, per passare alla fase successiva della loro preparazione…

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Elicotteri senza coda: un capitolo poco noto della storia dell’aviazione

Verso la fine della seconda guerra mondiale negli Stati Uniti, una particolare questione iniziò a diventare evidente per tutti coloro fossero coinvolti, anche soltanto in maniera passeggera, con lo sviluppo dei nuovi prototipi per l’aviazione: che i dispositivi ad ala rotante, dopo tutto, erano lì per restare che Igor Sikorsky, l’immigrato russo a capo dell’omonima compagnia, avrebbe condotto la marcia verso questo nuovo modo di vedere il volo. Decollare ed atterrare su un’imbarcazione? Trasportare rifornimenti verso il fronte di guerra? Volare a bassa quota alla ricerca di sommergibili? Tutto questo, e molto altro, diventava adesso possibile, al punto che ogni altro tentativo di applicare il concetto di STOL (decollo e atterraggio in uno spazio limitato) d’improvviso, appariva drammaticamente obsoleta. E con essi, le aziende che si erano dedicate primariamente a un tale obiettivo ingegneristico: tra tutte, la Kellett Autogiro Corporation, che a partire dagli anni ’30 aveva lavorato a diverse iterazioni del concetto di un piccolo aeromobile (800, 1.000 Kg al massimo) che come meccanismo per generare portanza faceva affidamento su un rotore, mentre un secondo lo spingeva innanzi verso la destinazione selezionata. Stiamo parlando, in gergo tecnico, del cosiddetto girocottero. Perché in quale modo, altrimenti, si potrebbe prevenire la rotazione fuori controllo del mezzo non appena finisce di staccarsi da terra? Devono sempre esserci DUE rotori perfettamente sincronizzati, grazie a un complesso sistema di alberi di trasmissione, il secondo dei quali ha la mansione di contrastare la coppia di quello principale.
Perciò il colpo di genio dell’uomo venuto dal freddo, tanto per usare uno stereotipo cinematografico, fu di concepire il secondo come una sorta di ventilatore sottodimensionato, posizionato a una distanza sufficiente perché il principio della leva gli permettesse di mantenere in assetto l’intero apparato. Stiamo parlando, tanto per essere chiari, del rotore di coda. Ma se vi fermate un attimo a pensarci, tra tutte le configurazioni possibili per un giro/elicottero, quella che oggi consideriamo “normale” è senz’altro la meno efficiente. Quanta energia potenziale, nei fatti, viene letteralmente impiegata per il solo compito di contrastare la coppia del volo, quanta potenza impiegata per spingere di lato un qualcosa, piuttosto che in alto oppure in avanti! Questo avrebbe potuto dire un altra figura di spicco della storia quel brillante ingegnere di nome Anton Flettner, che purtroppo per il Comando Centrale, era nato dall’altra parte dell’Atlantico, nel paese nemico per eccellenza: la Germania nazista. E fu li che costui, sotto la supervisione e protezione speciale di Himmler (dopo tutto, apparteneva a una famiglia di discendenza ebraica) ricevette i fondi necessari a mettere in pratica la sua innovativa idea, che nessun altro avrebbe mai potuto concepire: mettere i due rotori l’uno a fianco dell’altro, entrambi puntati, più o meno, in direzione perpendicolare al suolo. Già, un approccio piuttosto sconveniente. Perché gli elicotteri non sono larghi, normalmente, svariate decine di metri e le pale rotanti, prima o poi, tendono a urtarsi l’una con l’altra, causando conseguenze non troppo difficili da immaginare. Se non che il suo Fl 282 “Kolibri”, destinato a diventare il primo elicottero prodotto in serie della storia, presentava una serie di espedienti concepiti espressamente al fine di evitare una simile problematica: in primo luogo, l’asse di rotazione delle pale era lievemente inclinato verso l’esterno. E poi, i rispettivi sistemi di trasmissione erano stati sincronizzati, affinché l’espressione della rispettiva potenza potesse trovare sfogo senza mettere a rischio l’integrità dell’apparecchio volante.
A questo punto, oggi penseremmo che un’idea tanto valida e innovativa sarebbe stata copiata puntualmente dai tecnici cinesi, pronti ad immetterla sul mercato ad un prezzo sensibilmente inferiore. Ma quelli erano gli anni del conflitto senza esclusione di colpi, quando ogni paese mirava ad accaparrarsi il benché minimo vantaggio in ambiente conflittuale e logistico, ivi compreso il potente e orgoglioso paese dello zio Sam. Nel 1944 quindi, la Kellett Autogiro Corporation produsse il suo primo sincrottero (vedi immagine e video d’apertura) un’interpretazione di nome XR-8 che pur assomigliando superficialmente all’originale, non era esattamente la stessa cosa…

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Alle ultime sorgenti del vero seltzer newyorchese

Se c’è un centro dell’alta pressione nel mondo, un luogo in cui la danza continua dei fluidi raggiunge il suo punto d’arresto, giacendo in attesa del selvaggio attimo della trasformazione, questo è certamente New York, nello stato federato di New York, contea municipale di New York. La città di gran lunga più popolosa del paese più influente, del continente più longilineo dell’interno Mondo Occidentale, per un margine di ben 5 milioni di persone, sotto cui scorrono i tubi dell’antico impianto di riscaldamento centralizzato dei grattacieli, colmi di un vapore talmente intenso che quando le usurate strutture subiscono un cedimento, pennacchi eruttano in maniera vulcanica fin sopra al tetto degli edifici, causando ingenti danni a cose, o persone che stavano momentaneamente passando di lì. Un luogo in cui i vagoni della metropolitana, anche in assenza degli addetti al compattamento umano del paese più estremo d’Asia, talvolta sono così pieni che non è nemmeno possibile chiedervi l’elemosina, suonarci la fisarmonica o pretendere di continuare la propria conversazione telefonica a tutto volume senza disturbare e irritare il prossimo, ancor più del nostra innata propensione a farlo. Dove il traffico del ponte di Brooklyn, secondo il teorema termodinamico di Bernoulli, nelle ore di punta diventa inviscido e perennemente giace, come un carico di pietre insensibili presso un affollato molo portuale. Cosa pensate che possa bere, dunque, un popolo soggetto a tali difficili prove, giorno dopo giorno della propria sovrappopolata esistenza? C’è una ragione se proprio l’America, intesa come federazione per antonomasia di un sistema di stati distinti, fu il principale paese ad implementare il teorema del proibizionismo, tentando di limitare gli scatti d’ira improvvisi e conseguentemente, ridurre gli episodi di violenza pubblici e privati. Fu certamente un bel giorno quando, stanche di veder prosperare la mala più di quanto fosse riuscita a fare fin dall’epoca delle tredici colonie, le autorità scelsero di passare a metodi più endemici ed un minor grado d’imposizioni da parte di chi dovrebbe tutelare le pubbliche “libertà”. Ma fu soltanto attorno agli anni ’50 dello scorso secolo, più o meno, che la gente imparò fortunatamente a bere l’alcol diluito con l’acqua, autoregolando l’assunzione di una simile sostanza inebriante, attraverso un particolare quanto funzionale espediente: l’apprezzamento innato verso le bollicine, un prodotto naturale della fermentazione di alcuni tipi di vino o birra, ma in quantità assai minore di quanto potesse venire indotto tramite l’applicazione di tecniche o metodologie particolari. Come quella praticata tutt’ora dall’ultima fabbrica di un fluido che avrebbe cambiato i gusti di un’intera generazione: il cosiddetto seltzer, ovvero nient’altro che l’acqua frizzante in bottiglia.
Ma non immaginatevi qualcosa di simile alla cosiddetta acqua minerale che possiamo acquistare oggi in qualsiasi supermercato. Chiamato in quei luoghi “lo champagne degli ebrei” per il rinomato apprezzamento dagli appartenenti a quel popolo venuti a vivere all’ombra dei grattacieli nei confronti di una simile bevanda, diventata negli anni un simbolo di Manhattan e Long Island esattamente come la pizza italiana, il cibo cinese o il curry delle culture d’India, un bicchiere ricolmo di vera frizzantezza newyorchese va bevuto a piccoli sorsi, pena l’arrivo una serie di singulti possenti, capaci di mandare in visibilio ogni papilla nascosta nella profondità della proprio vulnerabile gola. Per citare i ragazzi della fabbrica Gomber, l’ultima presente nel territorio della megalopoli, “Il buon seltzer dovrebbe far male” (Strano slogan, nevvero?) Ed è proprio questa famiglia yiddish immigrata da quattro generazioni a questa parte, attraverso una passione pluri-generazionale unita a un comodo sistema di approvvigionamento sul territorio della prototipica ed ormai quasi dimenticata porta accanto, che sta diventando negli ultimi anni il simbolo di un modo artigianale di fare le cose, più che mai desiderabile in questo mondo che sembra aver perso anche l’ultimo scampolo di autenticità. Sia chiaro, comunque: non è soltanto una questione di nostalgia. Perché come ama vantare nelle interviste il portavoce e membro più giovane dell’organizzazione, il vice-presidente poco più che trentenne con laurea in gestione aziendale Alex Gomberg, c’è frizzantezza, e poi c’è la vera frizzantezza. Quella che miracolosamente permane, anche dopo aver versato una parte dei contenuti, grazie a una particolare valvola a vite inventata nell’800. Componente fondamentale di molte delle bottiglie impiegate dalla sua compagnia, alcune delle quali hanno oltre un secolo d’età. Fatta eccezione per quelle moderne che un poco alla volta, in funzione dell’utilizzo assiduo, vanno a sostituire le vittime di cadute o rotture varie. “Ogni volta che se ne rompe una, piangiamo” afferma il giovane manager-cum-addetto alle consegne a domicilio. Ma loro resistono, imperterriti, convinti di fare ciò che da sempre amano più di ogni altra cosa…

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Costruita sfera Pokemon per i biologi marini

Le più svariate motivazioni possono spingere qualcuno ad intraprendere il sentiero della scienza, tra le carriere più complesse, talvolta difficili e non sempre ricche d’immediate soddisfazioni. Può comunque causare un certo grado di stupore, la cognizione che al giorno d’oggi una di esse possa essere “Gotta catch’em all!” Ovvero lo slogan pubblicitario di un gioco elettronico che cambiò la storia di quel particolare media, dimostrando quanto fosse divertente catturare, far crescere e poi sfruttare in combattimento un grande numero di bestie immaginarie, tra il buffo, il fantastico e il mostruoso. Già, così tanto tempo è passato da quando Satoshi Tajiri, figlio di un venditore d’auto e una casalinga, dopo gli anni della sua rivista auto-prodotta sul media digitale interattivo ebbe modo di proporre a Nintendo un utilizzo mai pensato per prima per il cavo di collegamento del suo Gameboy: farci passare dentro insetti ed altre creature, affinché i bambini potessero “scambiarli” tra di loro. Era il 1996 ovvero abbastanza perché alcuni di coloro che crebbero facendo esattamente questo, oggi, siano dei ricercatori affermati nei rispettivi campi di competenza. Dove la realtà, talvolta, tende a superare di molto la fantasia. Che Zhi Ern Teoh, allora studente per il dottorato presso la prestigiosa divisione ingegneristica di Harvard, sia stato in precedenza un fan dei Pokémon dovrà per forza restare una mera speculazione. Nulla di simile è stato effettivamente dichiarato in alcuna intervista, conferenza stampa o biografia accademica. Tuttavia, è soprattutto osservando il frutto del suo lavoro, e in modo particolare l’utilizzo che quest’ultimo potrà riuscire ad avere sul campo, che la maggior parte dei siti Internet sembrano essere giunti alla stessa identica conclusione. Questo perché il RAD Sampler, l’apparato diventato oggetto dell’interesse collettivo proprio in questi giorni, a seguito della sua trattazione sulla rivista Science Robotics, sembra ricordare tanto da vicino l’orpello cardine dell’intera serie di videogiochi, giochi di carte e cartoni animati creata oltre due decadi fa. Molti dimenticano a tal proposito, seguendo in pieno il patto finzionale dell’autore, che il mondo dei mostri collezionabili non sia soltanto una fantasia di tipo biologico, ma anche e sopratutto purissima fantascienza. Nelle meccaniche di funzionamento della Pokéball (in italiano, sfera Poké) un attrezzo capace di “catturare” i mostriciattoli trasferendoli letteralmente in un universo quantistico parallelo. Come spiegare, altrimenti, il modo in cui un oggetto dal diametro approssimativo di una palla da tennis possa contenere draghi, pterodattili o giganteschi leviatani volanti? Ebbene io posso dirvi, con una certezza che proviene solamente dalla logica, che chiunque abbia cognizione di tutto questo, lavorando nel contempo in un qualsiasi campo di studio degli animali di questa Terra, un tale miracolo l’ha sognato più volte, come approccio super-semplice alla cattura di esemplari per la sua ricerca, soprattutto se appartenenti a specie difficili da maneggiare senza rischiare involontarie quanto problematiche conseguenze.
Sto parlando, per venire finalmente al nesso della questione, dell’opera di chi deve approcciarsi alle creature marine, per loro implicita natura alcune delle forme di vita più varie ed eclettiche del nostro pianeta. Il che sottintende che, per ogni pesce reso compatto dallo scheletro, molle cefalopode o mollusco corazzato, c’è una minuscola medusa predisposta a disgregarsi non appena viene toccata da mano umana, lasciandosi dietro il regno della materia osservabile e con esso, ogni proposito di essere attentamente studiata. Successe così che il giovane frequentatore della più famosa università statunitense, un giorno del 2014 scegliesse di partecipare a un corso del professore associato Chuck Hoberman dell’Istituto Wyss, divisione di Harvard deputata all’ingegneria ispirata ai processi naturali organici, nella quale si parlava di creare meccanismi capaci di piegarsi grazie a precisi calcoli matematici. Dal che lui scelse di elaborare, seguendo l’ispirazione del momento, un nuovo tipo di poliedri automatici, in cui l’applicazione di un singolo punto di pressione avrebbe indotto l’apertura, o chiusura del poligono di contenimento. L’idea di applicare una simile creazione nel campo della biologia marina, quindi, non sarebbe arrivata che qualche tempo topo, grazie al contributo di Brennan Phillips, un altro studente oggi assistente del dipartimento d’Ingegneria, il quale fece notare al suo collega quanto sarebbe stato utile poter disporre di un simile apparato per raccogliere campioni a notevoli profondità, in forza della sua semplicità di funzionamento, la quantità ridotta di parti mobili e la natura modulare del meccanismo. A quel punto il demone era metaforicamente fuori dalla bottiglia, il che poteva anche significare che c’era una bottiglia vuota, pronta ad accogliere le sopracitate, delicatissime meduse dei mari…

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