Il respiro dei mutanti di alluminio

U-Ram Choe

Primo movimento: un insetto sfavillante giace sul mio comodino, attento a ogni dettaglio dell’ambiente circostante. Dal silenzioso flettersi delle sue elitre proviene un’inquietante luce ultramondana. Secondo movimento: nel vasto foyer dell’Art Station Foundation, a Poznan, pende un’astro preoccupante ed agitato. si presenta come “l’ombra nascosta della Luna” ma piuttosto rassomiglia all’interpretazione gigeriana di un ferroso bozzolo d’insetto, le cui costole s’ischeletriscono in un continuo susseguirsi di sussulti. Terzo movimento: il corpo morto di una foca, o di un cetaceo con il teschio stranamente tondeggiante, ansima in un lungo autunno della sua esistenza. Mentre tutto attorno si allarga una biancastra pozza dei suoi fluidi, dalle scaglie della bestia derelitta sorgono dei fusti vegetali, simili a capelli, le cui foglie si agitano spinte da una forza misteriosa. Ma l’aspetto complessivo, e questo è strano, non ha un che d’organico. Per lo meno, nel senso tradizionale di un simile concetto. Per così dire rappresenta, più che altro, la possibile futura evoluzione delle cose, come i meccanismi semoventi delle compagnie robotiche, che progressivamente tendono alla movimentazione di creature. Cani, cavalli, gatti e altri quadrupedi, soprattutto: perché non è facile, nel concepire ciò che ha una funzione, differenziarsi troppo da ciò che si conosce sufficientemente o troppo bene. Di quel campo ulteriore, immancabilmente, se ne occupano gli artisti.
U-Ram Choe è lo scultore coreano che costruisce, assieme alla sua equipe personale e in un laboratorio del quartiere Yuhnee-Dong di Seul, ogni sorta di mutante artificiale, la realizzazione puramente meccanica di ciò che sogna al volgere del giorno, oppure nel profondo delle notti senza stelle o interruzioni. Le sue sculture cinetiche, magistrale unione di motori, forme e processori, nascono dall’incontro tra una completa preparazione tradizionale e la più sfrenata applicazione delle tecniche di prototipazione moderna, ivi inclusa la progettazione informatizzata e successivo taglio dei materiali, o purissima estrusione, tramite macchine industriali. Eppure, nonostante questo, l’aspetto finale delle sue opere è volutamente sorpassato nell’aspetto, tanto arcaico da richiamarsi a quell’estetica, fatta d’ingranaggi ambrati e grossi dadi di raccordo, che recentemente ha preso ad essere inserita nel ramo filologico dello steampunk. Frutto della concezione di una storia alternativa: cosa sarebbe successo, subito dopo la rivoluzione industriale, senza qualche geniale mente avesse messo assieme il primo accenno di computer, macchina sapiente in grado di risolvere i problemi…O soprattutto, passo inevitabile e ulteriore, se una scienza arcana fosse nata a margine di quell’àmbito per noi perduto, degli automi fatti solamente per stupire, dare un senso a filosofiche disquisizioni su cos’è la vita, dove inizia e a cosa porta, prima o poi!?

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Soffiava nello zucchero per fare un drago

Xian Sugar Blowing

Dragones, yeti, mostri a profusione. Cosa alberga nelle zone in cui i geografi non giunsero a documentare? C’era sempre quella mappa riccamente decorata, frutto della stampa o dell’opera diretta di un artista, in cui lo spazio estremo rimaneva vuoto ma soltanto di reali informazioni. Perché ricco delle ipotesi più trascendenti: creature grandi come isole, serpenti lunghi quanto i continenti. Zigzaganti e semi-visibili, eternamente riprodotti sulla carta, nella pittura e in ogni altro possibile veicolo della creatività. Persino, oibò, lo zucchero! Che puoi scolpire, attrezzare, usare per tracciare una figura uscita dalla mente. Almeno oggi, che ce l’hai. E conosci quel segreto…
Chi siamo? Scintille momentanee di presenza, come 糖人 – Táng rén, le “persone” di zucchero, che quest’uomo crea a partire da una pregevole sostanza, per le strade ed i turisti di Xian. E da dove proveniamo? Per certi e rilevanti versi da un lontano luogo. Quell’epigrafe scritta a grandi lettere sul marmo da uno scalpellino avventuroso, pronto ad arruolarsi nell’odierno Epiro per poter testimoniare “Alessandro Magno giunse fino a qui” e basterebbe poter ritornare indietro, e spostare quel macigno, quell’imponente lapide o obelisco, di qualche centinaio oppur migliaio di chilometri, per modificare in modo estremamente significativo quella che fu la vicenda dell’intero periodo dell’era Classica e conseguentemente, della Cina coéva. La spedizione del Macedone verso il grande Oriente, che fu un viaggio di conquista e di scoperta le cui proporzioni effettive possono davvero essere giudicate solamente a posteriori, fu talmente epocale e rivoluzionaria, condusse all’incontro ed alla mescolanza di tali culture contrapposte, che è facile dimenticare alcune delle conseguenze meno altisonanti, eppure duttili e durature, di una simile catena d’improbabili eventi. Fra queste, l’iniziativa di un gruppo di soldati ormai prossimi alla ribellione, stanchi per le dure campagne contro l’esercito del re Porus del Punjab, che giunti presso il fiume Indo ebbero a conoscere una strana pratica del popolo locale. Un’intera casta di laboriosi agricoltori, che per vivere dovevano curare la coltivazione della Sharkara, la cosiddetta canna-del-miele, un vegetale il quale, una volta raccolto, veniva subito schiacciato, fino a ridurlo in una fine polvere biancastra. Quindi filtrato, affinché la rimanenza liquida della sua linfa, deliziosamente dolce, potesse essere usata come mistica bevanda. Era il 320 a.C, ma è stato accertato, attraverso lo studio dei testi e delle testimonianze locali, che la pratica fosse nota fin d’impero indiano dei Gupta, risalente a 50 anni prima. Fatto sta che pochi anni dopo, lasciato il fondamentale segno della sua venuta, Alessandro dovette arrendersi all’evidenza del bisogno, girare il suo cavallo bianco di 180 gradi e intraprendere il pesante viaggio fino a casa. Ma alcuni dei suoi, a quanto pare, si impossessarono in gran segreto di un ingente carico dei semi e delle piante dello Sharkara, che loro chiamavano ζακχαρον-sakcharon, da cui il termine moderno “saccarosio” ed invero, perché no: lo Zucchero in se stesso, tale imprescindibile, essenziale fondamento dei sapori. Il demone della carie si era liberato.
Né la cultura grecizzata dell’Ellenismo, né quella successiva del vasto Impero Romano, percorsero mai con i vessilli e le armi l’intera Via della Seta, per giungere fino alla fonte di tanti vantaggiosi ed ottimi commerci, la remota e misteriosa Terra di Mezzo – 中國 (Zhōngguó). Ma lo zucchero, partendo direttamente dall’India, ovviamente si. Seguendo dunque un percorso cronologico, piuttosto che geografico, possiamo con certezza affermare che la coltivazione della canna a zucchero in Cina fosse nota fin dall’ottavo secolo avanti Cristo, come ampiamente narrato dai testi manoscritti di quell’epoca, gelosamente custoditi secondo l’etica e il rispetto di coloro che furono i Primi (grazie, Confucio!) E consumato, con estremo gusto. E celebrato dai poeti. Ed impiegato in una serie di pratiche artistiche assai particolari, come quella della soffiatura attenta d’animali mitologici, non per la consumazione, bensì a scopo puramente estetico e decorativo.

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Scolpisce un gambero da una cannuccia

Straw Shrimp

Perché se un gamberetto vero e incommestibile, preso singolarmente, costerebbe neanche un euro con un buco in mezzo, tutt’altra storia è quella della sua versione artificiale.  Non per “quello che è” (un po’ di plastica passata in uno stampo) ma per ciò che riesce a fare. Ovvero, procurarti la cena? Se almeno il giusto, ci sai fare. Se invece sei estremamente bravo, può bastarti quell’oggetto che è davvero poco nobile, perché serve per succhiare, ma si presta a strane manipolazioni…O sculture.
La vita dei tempi d’oggi qualche volta è strana. Una cannuccia: quasi spazzatura. E si fa presto a svalutare il candido regalo messo nella gabbia dei pappagallini, oggetto lungo e piatto, frutto organico per affilare i becchi piccoli e pungenti. A cosa serve, dopo tutto, l’osso della seppia, quotidianamente? Uno scarto inutile e insensato. Tranne che per lei, la seppia. Che è disposta a preservarlo con la vita – non che abbia una grande scelta, questo è chiaro. Ma la seppia non è stupida. Ma la seppia non è semplice o sbadata. Non puoi prenderla come un semplice pescetto d’acqua dolce, usando qualche nocciolina e una mollica, due piombini, tre ami ed una canna rigida o flessuosa. Pensa che la seppia, nella sua stagione degli amori, come i cervi ed i canguri, deve combattere con gli altri maschi per riuscire a conquistare ciò che serve a procreare: la di lei-seppia-ella. Talvolta così capita, sotto gli occhi spalancati della bella, che due di questi cefalopodi prendano a spingersi l’un l’altro freneticamente, finché fine non sopraggiunga una paralisi dovute per l’ingestione eccessiva di veleno (c’è una tossina, nella bocca della bestia, che funziona pure coi suoi simili, d’altronde). Dura lex della natura. Gli appartenenti all’ordine Sepiida crescono a dismisura, ininterrottamente, per l’intero corso della vita ed ecologia vuole, crudelmente, che ci sia soltanto una femmina per quattro, cinque, qualche volta addirittura 10 nuotatori della metà marziana dello stesso cielo. Quindi, ecco adesso che succede. Se c’è un maschio piccolino, ma con molto da dare, lui non sfrutta mai la forza, ma l’ingegno. Muta il suo colore grazie ai cromatofori di cui dispone, simili a quelli di un camaleonte, quindi nasconde due dei suoi tentacoli e cambia il modo di nuotare. Così sotto l’occhio di un possibile concorrente, meraviglia! Passerà per una femmina a sua volta (che per l’appunto avrebbe due “braccia” in meno). E giunto nel sommerso gineceo, potrà colpire. Una tattica pericolosa dalle strane conseguenze, indubbiamente.
Tutto ciò per dire che: A – la seppia è alquanto intelligente, come Ulisse il viaggiatore. I cefalopodi, in genere, lo sono. Altrimenti come farebbero a raccapezzarsi con tutte quelle splendide appendici? B – Queste creature ci vedono davvero molto bene. I loro occhi sono infatti grandi e rosso sangue, con vistose pupille dalla forma a W. Organi estremamente complessi e parzialmente affini a quelli degli umani, anche se non vedono i colori, possono distinguere la polarizzazione della luce e dunque riescono a cogliere perfettamente i minimi contorni delle cose. Non è facile convincere una seppia di qualcosa che non è. A meno di chiamarsi Jong Chool Do, dalla Corea.

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Sculture animate grazie alla progressione matematica di Fibonacci

Zoetrope Sculpture

C’è un solo modo di contare, il che significa che esistono due modi: convenzionale, interessante. Se si parte dal primo numero della sequenza, il solo ed unico, se si procede via da quello e avanti verso l’infinito in assoluta regolarità, si ottiene un cubo, quindi un poliedro, poi cristalli sempre più complessi e sfaccettati. Sarebbe questo il sentiero inanimato, delle cose minerali o dei computer, che dal calcolo poligonale sanno trarre ambienti, mondi fantastici e ogni tipo di realizzazione visuale, anche vivida, se serve. Basta dare luogo a occulte mescolanze, combinare, ricoprire con le texture e il bump mapping rilevante. Mentre il soffio della vita è differente: essa non conosce l’illusione. Il che non significa che sia incapace di nascondersi: guarda il ragno, la farfalla, guarda il paguro nella sua conchiglia. Tutto fanno, per sparire, eppur quel tutto è strutturato e armonico, come il disegno dell’artista nella sua bottega. Come queste, le ultime sculture di John Edmark, professore di Design all’università di Stanford, che prendono l’ispirazione da quel nuovo metodo produttivo, il sistema che, fra tutti, permette la migliore materializzazione dei poligoni virtuali. La stampante tridimensionale. Si tratta sostanzialmente di forme plastiche, animate grazie ad una luce stroboscopica e il semplice meccanismo dello zootropio, dal greco ζωή – vita, e τρόπος – girare, anche se in tale categoria spiccano tra gli altri, perché seguono una strada differente. Le lucubrazioni, guarda caso, di un filosofo del mondo.
Leonardo Pisano, detto il Fibonacci (1170-1240) era un cultore dei numeri quali pochi ne nascevano, a quei tempi e forse ancora adesso, che risulta ancora stranamente trascurato nella riscoperta letteraria di quell’epoca, assai popolare nei nostri romanzi storici fondati sul mistero. Fu lui per primo, nel suo Liber abbaci a proporre all’intera Europa rinascimentale un differente modo di contare, basato sulle nove cifre che lui definiva indiane, ovvero i nostri attuali numeri arabi, unite a quel concetto che contiene tutti gli altri, il vuoto assoluto dello zephirus, lo zero. Da cui tutto viene ed a cui torna, prima o poi? Ecco, non è facile da definire. Tutto dipende dalla concezione di partenza, l’unica possibile disquisizione: ovvero, se ci fosse quella mano immisurabile, una mente e l’intenzione. Che l’universo sia creato, oppure solamente derivato da un qualcosa di automatico ed ineluttabile, come la caduta giù da un’albero, di un pomo rosso e saporito (diceva bene Newton, yum). Osservazione empirica: ciò che avviene è chiaro all’apparenza. Ma i limitati sensi dell’uomo, fin dall’Epoca Classica, ne rendevano impossibile la vera comprensione. Tale metodo di ricerca basato sul sostegno tecnologico, formalizzatosi in Inghilterra nel 1600, grazie all’opera di alcune grandi menti, era già alla base di un metodo pre-esistente, se non proprio scientifico, quanto meno valido a capire. Ciò è chiaro dalla sequenza in questione, detta dal nome del suo creatore per l’appunto, di Fibonacci. La costituzione di un’ipotesi perfetta: si disponga di una coppia di conigli appena nati. Questa coppia, fertile dopo il primo mese, generi una nuova coppia entro 30 giorni dalla sopraggiunta possibilità. La nuova coppia di candidi batuffoli, a sua volta, si comporti nello stesso modo. Passino gli anni ed ora via, tempo di contare (le coppie): una e poi di nuovo una, perché l’altra non è ancora fertile, quindi 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, 377 […] tendente all’infinito ed oltre. Dal che si trae la conclusione, oltre che del come i roditori siano destinati a controllare il mondo, di una tendenza all’aumento progressivo delle nascite, a partire dalla relativa ragionevolezza delle prime moltiplicazioni. L’aspetto interessante di questa serie è il rapporto ben preciso che la caratterizza, ovvero un ripetuto phi=1,618. Che si può ritrovare nella crescita di molte cose. È particolarmente facile notare tale numero nelle misure di un carciofo e del broccolo romanesco, come pure in ogni sorta di spirale naturale, come quelle delle conchiglie, in piccolo, o dei cicloni tropicali, nel macroscopico più distruttivo. Ma che sussiste talvolta addirittura nei rapporti tra le sostanze chimiche, negli spettrogrammi degli spazi interstellari e perché no, nelle sculture rotative di John Edmark.

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