Come finirebbe Disneyland in 10 anni di abbandono

Nara Dreamland

Le crepe nell’asfalto, gli alberi che mandano le loro fronde tra le curve sopraelevate di un trenino ormai dismesso. Polvere, ruggine e guano, serrature scardinate, lampioni abbattuti. Pannelli di controllo rotti a colpi di estintore. Sito nella parte settentrionale dell’antica città di Nara, tra l’università locale e il tragitto della Ferrovia Principale del Kansai, il parco di Dreamland potrebbe creare uno stridente contrasto con gli antichi templi e santuari per cui resta famoso un tale centro abitato, che fu capitale del Giappone dal 710 al 794, dando addirittura il nome ad un’intera epoca storica di quel paese. Non che il rudere sia posto all’ombra del Grande Buddha del Tōdai-ji, intendiamoci, né tanto meno presso la parziale ricostruzione moderna del palazzo imperiale di Heijō, che era stato abbandonato all’epoca, quando la corte si spostò a Kyoto. Eppure, la vicinanza geografica è straniante. Ancora di più a partire dal 2006, quando questo luogo dei divertimenti moderni, con montagne russe, case dell’orrore, zucchero filato e negozi di souvenir, è stato infine chiuso, per mancanza di interesse da parte del pubblico pagante. Ora, tra le facciate variopinte degli edifici e le vecchie giostre ormai dismesse, nulla rimane dell’antica gioia, tranne un guscio vuoto. E strane dicerie. Secondo una leggenda metropolitana locale, ripetuta presso diversi portali in lingua inglese, questo parco risalente al 1961 sarebbe stato originariamente costruito dalla Disney stessa, sotto falso nome e in assenza dei suoi personaggi più famosi, con la finalità di mettere alla prova la fattibilità economica di un suo Luna Park ufficiale in Giappone. Ma soprattutto, testare l’efficacia un particolare modo per ridurre i costi: l’impiego come figuranti, al posto del classico personale in costume da Pippo, Paperino & Co, di futuristici robot animatronici, tanto avanzati da poter operare in condizioni di assoluta autonomia. Questi pupazzi costruiti con l’aspetto della mascotte ufficiale del parco, la versione caricaturale di un soldato inglese della Regina dotato di colbacco d’ordinanza, avrebbero quindi svolto il proprio compito d’instancabili intrattenitori con straordinaria efficienza, fino a un pericoloso evolversi della loro programmazione. Finché un giorno, così dice la leggenda, uno di loro si sarebbe ribellato, apportando delle modifiche al suo braccio per poter dare una forte scossa a chiunque avesse tentato di raggiungere il suo interruttore. Ancora acceso e funzionante, quindi, detto androide vagherebbe ancora per il parco, difendendo gelosamente l’ultima stazione di ricarica a energia solare ancora funzionante. Il ristretto club di persone che ancora visitano questo luogo, gli esploratori urbani, i trasgressori, gli aspiranti vandali di malaffare, chiamano questa creatura Killer Mascot 6-22. La cui improbabile vicenda, citata tra gli altri dall’esploratore urbano Florian di Abandoned Kansai (con comprensibile scetticismo d’accompagnamento) sarebbe quindi alla base della chiusura del parco, che temeva future ripercussioni nel caso in cui l’opinione pubblica ne fosse giunta a conoscenza.
Naturalmente, la realtà storica è diversa. Sappiamo per certo, ad esempio, che il parco non fu costruito affatto dalla Disney stessa, bensì dall’imprenditore locale Matsuo Kunizo, che a seguito del 1955 aveva avuto l’occasione di visitare la neonata Disneyland americana di Anaheim, presso la periferia di Los Angeles. Rimanendo così colpito dalle sue molteplici attrazioni, da decidere immediatamente che avrebbe trasferito il luogo dei sogni presso il suo paese natìo, attraverso la costituzione di una società denominata JDSC – Japanese Dream Sightseeing Company. Iniziò dunque una lunga serie di trattative con gli Stati Uniti, nel corso delle quali l’uomo dialogò con lo stesso Walt Disney, per l’ottenimento delle licenze di utilizzo dei maggiori personaggi di proprietà del colosso con le orecchie nere. Tuttavia, alla fine, le cifre richieste furono talmente elevate, che dal Giappone si decise di procedere impiegando la figura inedita del soldatino inglese, accompagnato da una sua graziosa versione femminile, bionda e anch’essa fornita dell’irrinunciabile cappello in pelo d’orso canadese. E i due pupazzi, ancora adesso, sono ancora lì, nello spirito se non nel minaccioso corpo imbullonato, disegnati sul terreno presso il portale d’ingresso del parco. Di certo, il rosso vivo della loro uniforme appare un po’ sbiadito, come del resto tutto quello che circonda l’emblema. Ma il fascino di queste giostre, mutando nell’ultima decade di solitudine, è tutt’altro che diminuito. Anzi!

Leggi tutto

Le tre reliquie roteanti della fisica applicata

Tre reliquie della fisica

Prendi questo strano oggetto, fallo roteare nella direzione che prevede il suo progetto (qualche volta, vanno bene tutte e due) lo vedrai assecondare docilmente il tuo volere. Ma soltanto per un attimo fugace, oppure due. Poi si fermerà, invertendo totalmente il verso del suo movimento… Creando l’energia apparente dal vortice dell’assoluto Nulla. È una chiara violazione del principio di conservazione del moto angolare! Ristampate i sussidiari! Abbattete l’edificio d’avorio della fisica, ricostruitelo immediatamente nella valle della semplice superstizione! Perché cos’altro potrebbe mai spiegare, un tale susseguirsi di correlazioni, tranne un ritorno all’antico sistema delle opinioni? Il metodo di chi non può comprendere, però discute. Creando la scintilla che riaccende il sommo fuoco delle origini del mondo.
Noi, oggi: una sola razza umana, con variazioni minime, che ben poco si estendono oltre i lineamenti o il tono della carnagione. Molti sistemi di valori, spesso contrastanti, eppure un singolo princìpio oggettivo, il merito e il valore della scienza. Tutto questo unicamente grazie a un singolo artificio: la creazione di strumenti. Perché l’occhio umano, per quanto sofisticato e preciso, sostiene immagini che vengono rielaborate, connotate dalle sezioni dedicate del cervello. Mentre un concetto, puro e scevro di contesto, non può che dare vita ad un sitema matematico immanente. I Celti preistorici, nelle loro solide dimore in legno e fango. Gli antenati degli Egizi, sulle rive del munifico corso fluviale. Gli Olmechi delle Ande mesoamericane, all’altro capo dell’oceano sconfinato. Ciascuno di questi raggruppamenti di popoli distinti, e molti altri per vie parallele indipendenti, giunsero alla costruzione dell’attrezzo primordiale, da cui derivarono tutti quelli successivi: l’ascia in pietra scheggiata, modificazione tagliente di ciò che la natura aveva provveduto a creare, grazie ai fenomeni della concrezione ed erosione. Poi migliorato e riprodotto, attraverso la scoperta del metodo segreto per fondere i metalli. Un sistema letteralmente a portata di mano, per costruire abitazioni, templi, carri, splendide ambizioni. Nonché il primo punto di un mistero che ci affascina da sempre, tutt’ora largamente non incasellato nello studio dei fenomeni naturali.
Il nome tradizionale viene, come fin troppo spesso capita, da un errore di provenienza medievale. Citava dalla Bibbia (Giobbe 19:24) il Codex Amiatinus, ritrovato nell’abbazia toscana di San Salvatore: Stylo ferreo, et plumbi lamina, vel certe sculpantur in silice “Che [la volontà divina] sia scritta con penna di ferro, su una lamina di piombo oppure pietra”. Ma il monaco amanuense deputato a tale trascrizione, per qualche ragione scrisse “celte” invece che “certe” dando un nome a questo ipotetico scalpello, tutt’ora largamente in uso nella lingua inglese, nella sua versione lievemente modificata di celt. Nell’idea di taluni archeologi dell’alba di questa complessa scienza, forse latinisti non proprio fenomenali, tale termine iniziò ad essere attribuito a tutto ciò di preistorico che fosse tagliente, appuntito o in qualche modo utile ai primordi dell’ingegneria. Una testa affilata, insomma, di pietra, bronzo o altri metalli. E quando costoro ne traevano un singolo esemplare da un tumulo, il sito di un antichissimo villaggio, presso i depositi delle popolazioni indigene, osservavano prima o poi con meraviglia quello stesso fenomeno incredibile, dell’invertimento subitaneo della rotazione indotta. Tutte le asce preistoriche, dalla prima all’ultima: giravano preferibilmente in senso orario, oppure antiorario. Non entrambi oppure, addirittura, nessuno dei due. Come fossero animati dagli spiriti dei loro costruttori ormai defunti…

Leggi tutto

La grande sfera trasparente sotto il mare della Turchia

Transparent Sphere

L’esplosiva esaltazione del senso umano d’avventura, un tuffo tra le acque a largo di Fethiye, importante località turistica non così distante dall’isola di Rodi. Con la maschera e la muta, le pinne, le bombole da usarsi per conoscere più a fondo le tiepide e attraenti circostanze, spinti dall’entusiasmo di essere in vacanza. Finché all’improvviso, le prime avvisaglie del più strano degli incontri: una leggera variazione della luce, appena percettibile allo sguardo, come una curvatura rifrangente sospesa fra la luce e l’ombra, in stato di galleggiamento stabile a circa 6 metri di profondità. La mente fatica a comprendere la situazione, mentre il tempo rallenta in modo percettibile, è prossimo a fermarsi. Nuoti più vicino, naturalmente, come altrettanto naturalmente, ciò non chiarisce affatto questa situazione, tutt’altro. Mentre giri attorno alla presenza, ne inizi a comprendere le proporzioni: 4 metri di diametro, all’incirca, con un aspetto floscio e globulare. Trasportata e mossa dalla corrente, la massa gelatinosa si agita, sviluppa dei bitorzoli sulla sua superficie. Tu, subacqueo, altro non puoi fare che puntare la tua torcia, riprendere, imprimere i dettagli della scena nella tua memoria soggettiva dell’evento. Un domani, forse, capirai la verità…
Qualcosa di simile succedeva lo scorso 9 Luglio all’intera equipe di Lutfu Tanriover, produttore di video sottomarini, quattro volte vincitore del  Golden Fin Underwater Imaging Championship e premiato in diversi prestigiosi festival internazionali. Che nonostante l’esperienza decennale, di fronte a un simile oggetto fuori dal contesto si era ritrovato nello stesso stato di assoluta perplessità di chiunque altro di noi. Una sfera, una palla, la bolla di sapone dei titani. Un chiaro segno di esistenze ultramondane? Questa ed altre assurde idee devono aver attraversato per qualche attimo fulmineo la sua mente, prima che decidesse per la via operativa di pubblicare il video non soltanto presso il suo canale ufficiale del portale Vimeo, ma anche in giro per i principali Social Network, incoraggiando quindi i molti lettori quasi accidentali a ricondividere il documento della sua escursione misteriosa nel Mediterraneo. Il risultato non tarda ad arrivare: nel giro di qualche settimana uno degli spettatori, probabilmente con già un’idea nella mente, mostra il video ad un oceanologo del museo Smithsonian di Storia Naturale a Washington D.C, il Dr. Michael Vecchione, rinomato esperto in cefalopodi di vario tipo. Il quale, senza un attimo di esitazione, esclama un qualcosa di simile a: “Fantastico, sono uova di seppia!” E in particolare di una specie molto nota ma della cui prassi riproduttiva abbiamo ad oggi poche informazioni: la Ommastrephes bartramii, comunemente detta seppia volante al neon. Un animale estremamente prolifico la cui femmina, che può arrivare a misurare fino ai 60 cm di lunghezza, depone in genere tra le 350.000 ed i 3,6 milioni di uova, dimostrando chiaramente l’appartenenza alla prima parte del gruppo biologico r/K, ovvero che si riproducono in grandi quantità, piuttosto che investire le energie nel curare e nutrire la propria limitata prole, preziosa e potenzialmente insostituibile. Come invece facciamo, incidentalmente, noi umani. I piccoli della seppia volante in effetti, alla schiusa misurano pochi millimetri e mancano di un apparato natatorio davvero efficiente, venendo sostanzialmente trascinati in giro dalla corrente. In questo stato, sono facilmente vittime dei predatori, che in un ciclo senza fine si occupano di limitare la crescita incontrollata della popolazione cefalopode, con conseguente collasso dell’intera nicchia ecologica condivisa in molti ambienti della terra, fra cui i freddi mari del Nord, dove le seppie in questione migrano dopo la stagione degli accoppiamenti.

Leggi tutto

Acqua 2.0: come costruire le piramidi senza fatica

Water Pyramids

Chiaramente, deve pur esserci una spiegazione. Se gli edifici sacri degli Egizi, risalenti a più di 4000 anni fa, ci lasciano perplessi nella loro apparente impossibilità ingegneristica, è perché furono costruiti proprio a un tale scopo: quale migliore dimostrazione di forza, da parte di una dinastia regnante, che il possesso di un qualcosa di letteralmente unico nel mondo conosciuto, che sfuggisse alla comprensione di qualsiasi viaggiatore (Se non a quella di chi lì ci viveva, visto che il processo costruttivo poteva durare anche 20 anni). Mentre il problema fondamentale, dal nostro punto di vista cronologicamente dislocato, è stato l’incedere troppo veloce del progresso, stimolato proprio dalle opere di antiche civiltà come la loro. Non è particolarmente difficile immaginare i Greci o i Romani, armati delle loro competenze architettoniche e strumenti relativamente avanzati, ipoteticamente forniti di una manodopera comparabile a quella di coloro che vivevano sul Nilo, che riuscissero in qualche maniera rapida nel replicare una suprema meraviglia come la piramide di Cheope, alta 146,6 metri. Che sarebbe stato l’edificio più imponente del mondo per 38 secoli, fino alla costruzione della Cattedrale di Lincoln in Inghilterra. Ma considerate soprattutto questo: i loro predecessori del Vicino Oriente, che vissero in piena Età del Bronzo, non avevano strumenti di ferro, né la ruota, né la carrucola! Eppure trasportarono una quantità spropositata di blocchi di pietra calcarea e granito, dal peso di fino a 4 tonnellate ciascuno, nel punto deputato, prima di disporli con precisione geometrica che ancora sfida l’immaginazione. E poi soprattutto, completato il basamento del colossale mausoleo, continuarono a costruire, trascinando dette pietre lungo l’asse dello spazio verticale. Come, come? “Se non così, come?” Una frase che ricorre, tra gli ambienti specialistici o di sinceri appassionati a questo tema senza tempo, come il sostegno di teorie più o meno probabili, ciascuna egualmente avvincente nella mente di coloro che l’hanno proposta. Perché quando non è semplicemente comprensibile la maniera in cui gli schiavi di un popolo, così privo di apparati tecnologici sofisticati, fossero stati in grado di fare un qualcosa di eccessivamente duraturo, ogni sorta di spiegazione diventa lecita, funzionale alla risoluzione del problema di giornata. Chiaramente, i risultati possono variare.
Tra le teorie relativamente poco note, ma stranamente possibili nella loro cervellotica complessità, va annoverata questa del costruttore del Lincolnshire, Chris Massey, che stando a quanto ci racconta l’avrebbe elaborata a partire da una specifica esperienza di viaggio. Quando lui, assieme agli altri partecipanti di una classica crociera sul Nilo, si ritrovò a discutere con la guida assegnatagli durante la visita alla piana di Giza, in merito alle molteplici ragioni per cui le teorie maggiormente accreditate fossero nei fatti impraticabili, soprattutto per la gigantesca piramide di Cheope, la maggiore mai esistita: “Una singola rampa inclinata che conducesse fino alla sommità? Ah! Avrebbe dovuto misurare centinaia di metri e contenere più pietra dell’edificio stesso.” E poi: “Volete farmi credere che questa gente avesse trasportato i blocchi di pietra su slitte di legno, attraverso il terreno accidentato del deserto? Chiunque se ne intenda, sa che un singolo ciottolo sarebbe stato sufficiente a causare un fallimento catastrofico dell’impresa. Assolutamente…Impossibile.” Ciò senza considerare la produzione dell’enorme quantità dei blocchi stessi a partire dalla pietra di cava, un’impresa titanica in se e per se. Dal che nacque una teoria del tutto nuova, che forse andrebbe definita più un’ipotesi infondata e benché possibile nei fatti, sostanzialmente impossibile da provare. In questo, certamente resta in buona compagnia. Si usa spesso dire che le acque del Nilo, con il loro fango fertile e sottile, fossero state il nettare che donava la vita all’intera sottile striscia di territorio lungo la quale si estendeva questa antica civiltà. E se quello stesso fluido trasparente avesse aiutato anche nella costruzione del loro lascito più duraturo, allora…

Leggi tutto