Ne mai più saremo liberi dalle spietate fronde, giacinto mio, che galleggi tra l’onde

In una foto recentemente diventata celebre online, scattata nel parco naturale di Kaziranga, in Assam, un’elefantessa indiana sembra incedere col proprio fanciulletto in un verdeggiante prato punteggiato di attraenti fiori viola. L’aspetto singolare della scena, tuttavia, è il modo in cui la coppia di animali in questione risulti visibili soltanto parzialmente, con le gambe in apparenza sprofondate in quella che dovrebbe costituire una vegetazione alta ben oltre un metro. Uno sguardo maggiormente attento, tuttavia, potrà notare un paio di anomalie situazionali: come avrebbe mai potuto l’elefantino, che solleva in alto la proboscide tenendo stretta una di queste piante, sradicarne agevolmente l’intera forma in un terreno che dovrebbe risultare ben più distante? E perché i protagonisti della scena appaiono completamente bagnati dall’altezza della coda in giù, come se fossero attualmente intenti a guadare un fiume? Il nesso è che nell’effettiva interpretazione dei fatti, ciò che sembra non è necessariamente la realtà… E l’incredibile sospetto può trovare, dietro un rapido approfondimento, l’eccentrica constatazione di un’idea. Che il corso d’acqua sospettato sia davvero lì presente, soltanto coperto, da una sponda all’altra, per l’effetto di un’invereconda proliferazione vegetale. Avrai probabilmente già sentito parlare, oh figlio della materna terra, della “cosa” che si chiama Pontederia crassipes. Una presenza stabile, diffusa, totalmente prevedibile e del tutto sempreverde, che si configura come le temute fioriture dei sargassi d’acqua salmastra pur essendo a tutti gli effetti una pianta, con radici, fiori e tutto il resto, appartenente all’ordine monocotiledone delle pontederiacee, famose per la loro capacità di galleggiare traendo il proprio nutrimento in soluzione, piuttosto che dalla compatta polvere che si nasconde nel sottosuolo. Con tanta di quella diabolica, terrificante efficienza, da poter ricoprire totalmente uno specchio d’acqua in appena la metà di una stagione, soprattutto se assistita dagli sversamenti di concimi eutrofizzanti provocati dall’odierna agricoltura, in luoghi dove in precedenza è stata con terribile imprudenza trasportata dagli orticoltori degli scorsi secoli. Rigorosamente a fin di bene, s’intende. Poiché se c’è un aspetto veramente problematico del cosiddetto giacinto d’acqua, è il suo fascino esteriore e l’attraente bellezza dei fiori che produce, almeno finché non conquista territori tali da distruggere ogni rimanente presupposto d’integrazione biologica con gli altri protagonisti del territorio. Il che costituisce una mera questione di tempo, da che venne trapiantato dal suo ambiente originale sudamericano, dove l’immanente proliferazione di coleotteri capaci di nutrirsi dei suoi semi e teneri virgulti, può riuscire a contenere tale tracotanza che ogni cosa riesce a metabolizzare…

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A proposito delle meduse che hanno bloccato la maggiore centrale nucleare di Francia

Considerando attentamente l’esiziale vulnerabilità di un asset strategico come una grande centrale elettrica alimentata mediante l’utilizzo di carburante nucleare, è significativo il potenziale problematico di collocarla presso quello che costituisce per definizione il punto debole dei continenti: quella linea di demarcazione, più concreta che ideale, situata in modo tale da dividere la terra e il mare. Sulla costa come Fukushima, dove l’acqua del Pacifico serviva a raffreddare quei reattori eppure, l’innalzarsi di quella potente onda avrebbe reso manifesto il rischio di quella terribile deflagrazione finale. E non è certo un caso se da questo lato del globo terracqueo, nello stesso sito da cui le forze britanniche ed i loro alleati vennero imbarcati per lasciare temporaneamente agli autoritarismi il controllo d’Europa, un altro tipo di battaglia viene combattuto in modo ininterrotto a partire dal 1980. L’anno di accensione di quella che sarebbe diventata nota come la centrale di Gravelines a 24 Km da Dunkirk, da sempre in bilico tra funzionale presa di coscienza della propria utilità inerente assieme a dolorose considerazioni in merito al nostro presente e l’eventuale futuro. Così come durante il disastro giapponese del 2011, vennero varati piani per incrementare la sua sicurezza, e costruite lunghe, dispendiose dighe contro l’energia del Mare. Ma non è sempre possibile riuscire a prevedere in quale modo, questa volta, avrebbero trovato un’espressione le fondamentali rimostranze del dio Nettuno.
Il fenomeno si è reso manifesto dunque la scorsa domenica (10 agosto 2025) quando i tecnici supervisori avrebbero immediatamente riscontrato un’effettiva quanto preoccupante anomalia. Ovvero l’arresto automatico, in maniera pressoché contemporanea, di tre reattori sui sei presenti all’interno dell’impianto, per quello che sembrava un guasto ad ampio spettro dell’impianto di raffreddamento, necessario a prevenire l’inarrestabile fusione del nocciolo centrale. Situazione presto contestualizzata grazie al sopralluogo necessario, valido a confermare l’occorrenza di un fenomeno piuttosto raro ma non del tutto inaudito: letterali migliaia di meduse appartenenti alla classe degli Scyphozoa, spiaggiate attorno a quelle mura come risucchiate dentro i tubi degli afflussi idrici, fino al punto d’intasarli con i loro fragili e mollicci corpi tentacolari. Il genere di casistica capace di evocare l’immediato fascino della stampa e gli altri media internazionali, sebbene una percentuale relativamente bassa degli autori coinvolti si sarebbe trovata incline ad offrire l’identificazione della specie effettiva, protagonista di una tale proliferazione repentina ed altrettanto rara nel mare del Nord. Fatta eccezione per talune testate francofone tra cui TV5 Monde, trovatasi a citare il risultato delle osservazioni compiute dall’Istituto Nazionale dello Sfruttamento dei Mari (Ifremer) sull’argomento che nella persona della biologa Elvire Antajan ha pronunciato finalmente il necessario appellativo binomiale latino: Rhizostoma octopus, un tipo di cnidaria strettamente imparentata con la maggiormente familiare R. pulmo, soprannominata dalle nostre parti come il polmone di mare. Un potenziale quanto utile spunto di approfondimento ulteriore…

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Annuso, perciò distruggo: il sofisticato linguaggio chimico di una terribile stella marina

La guerra infuria sotto i flutti, lontano dagli occhi umani che potrebbero tentare di giudicarla. Quietamente operosa, la colonia tende all’espansione in base a linee guida chiaramente definite dall’esperienza. Ogni qual volta un insediamento significativo dei coralli commestibili viene trovato da un rappresentante della collettività, questi non soltanto inizia infatti fagocitarlo. Bensì nel farlo, erigendo la sua rigida corazza ricoperta d’aculei, impiega questi ultimi per sprigionare la complessa essenza chiarificatrice, che i suoi simili raccolgono senza fatica a distanza di decine o centinaia di metri. Questa la chiara legge dell’Oceano e tale l’interesse egoistico della collettività bentonica, il cui aspetto è variopinto e caratterizzata dalla propensione a muoversi lungo i canali che conducono a migliori prospettive di sopravvivenza. Ma “chi si ferma è perduto” e così i più rappresentativi assembramenti, dell’echinoderma noto come Acanthaster planci o stella corona di spine, se lasciati a loro stessi crescono in maniera esponenziale col passare dei giorni. Finché le alte barriere costruite dai polipi degli antozoi non vengano completamente ricoperte, risucchiate un distretto alla volta e trasformate in grandi spazi desertici e svuotati di ogni prospettiva di resilienza. È il terrore dell’Indo-Pacifico ciò di cui stiamo parlando, sebbene gli scienziati si siano lungamente interrogati su come facesse un simile animale, anatomicamente primitivo e totalmente privo di un vero e proprio cervello, a coordinarsi con la chiara precisione annichilente di un esercito impegnato in territorio nemico. Allorché sapendo della comprovata perizia olfattiva posseduta da questi predatori fortemente specializzati, un gruppo di ricercatori australiani e giapponesi guidati da Richard J. Harris del dipartimento di scienze marine di Cape Cleveland hanno condotto una serie di esperimenti fuori e dentro il laboratorio. Individuando quale fosse il vero e proprio vocabolario, composto di speciali proteine dette attrattine, impiegato dalle voraci predatrici dai sinuosi arti ricoperti da aculei. Il che ha permesso di annotare per la prima volta, sebbene la questione fosse già nota dal punto di vista aneddotico, l’insorgenza di una sorta di calcolo distribuito capace di condurre all’intelligenza, almeno parzialmente responsabile del terribile effetto posseduto da queste creature sull’ecologia marina latente. Sebbene l’esistenza di una simile modalità comportamentale, almeno dal punto di vista teorico, possa offrire dei possibili spunti per efficaci contromisure nei sempre più drammatici anni a venire…

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Il caos della montagna coreana invasa da miliardi di mosche dell’amore

Con contegno inspiegabilmente giovale, l’escursionista si aggira tra i recessi di quello che alcuni tenderebbero senza particolari esitazioni a definire come l’Inferno in Terra. Un tranquillo sito panoramico, con tanto di panchine, area picnic e cannocchiali a gettone per l’osservazione della valle antistante. Ammesso e non concesso che i suoi occhi riescano a staccarsi dalle infinite forme cupe latenti, che in un vortice di vita sregolata sembrerebbero aver messo sotto assedio ogni centimetro residuo dei visibili dintorni. Senza alcun riflesso chiaro di ribrezzo o repulsione, l’individuo si sdraia come niente fosse in corrispondenza di una panchina. Poco prima di essere letteralmente ricoperto dalle amichevoli abitanti del sito.
Sovrappopolazione è un stato delle cose che trascende i limiti delle risorse disponibili, portando alla costante sovrapposizione dei bisogni e conseguente annientamento dello stato di grazia di un particolare ambiente di riferimento. Ciò che tendiamo a immaginare come manifestazione pratica di tale circostanza, delineata nella ricorsività costante di determinate circostanze biologiche e risultanti creature, non è praticamente nulla, rispetto alla situazione che stanno sperimentando gli abitanti ed i visitatori di Gyeyangsan, massiccio boscoso nel comune di Incheon, con vista privilegiata sugli svettanti palazzi della periferia di Seul. Un subitaneo capitolo dell’esistenza, in cui una singola forma vita è stata replicata tante volte quanti sono i granelli di sabbia di una spiaggia, o le gocce di pioggia all’interno di un vasto temporale d’inizio luglio. Insetti, certamente, ma di un tipo pernicioso nonostante l’indole pacifica e l’assenza di strumenti per poter nuocere all’uomo. Se si esclude la condizione psichica che tende a derivare, nel trovarsi in una situazione dove l’aria brulica letteralmente, così come il suolo, i vestiti e la pelle stessa delle persone. Questo il monito e tali le conseguenze, derivanti da condizioni ecologiche vigenti che indicano un fondamentale squilibrio, piuttosto che prosperità latente.
Il suo genere: Plecia della famiglia dei bibionidi, insetti noti per la loro propensione a vivere sul suolo marcescente come larve simili a vermetti, per riemerge d’un tratto tutti assieme dando inizio alle salienti danze riproduttive. In cinque, sette giorni di follia purissima, durante cui i maschi volteggiano con insistenza sopra il punto della loro emersione, attendendo pazientemente la fuoriuscita successiva delle controparti femminili più grandi, con cui procedere all’accoppiamento. Un processo lungo e laborioso in grado di durare anche 50 o più ore, durante cui ciascuna coppia resta saldamente attaccata assieme, creando l’illusione che portava tradizionalmente a definire questi esseri “mosche a due teste”. Da tempo celebri per il corpo nero e affusolato, non più lungo di 8 mm, con l’addome rosso che tende a facilitarne l’immediata identificazione. Così come le antenne corte ma complesse, nonché il fatto che durante l’attimo della loro saliente invasione, a nessun altro è permesso d’ignorarle o distogliere la propria attenzione, poiché sono, semplicemente, ovunque…

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