Nell’ideale gerarchia cromatica degli oblunghi crostacei, che vede l’aragosta azzurra come “un caso su 10.000”, quella gialla dieci volte più rara e l’assolutamente eccezionale evento della cosiddetta tonalità di Halloween, in cui l’animale è suddiviso trasversalmente in una metà nera, l’altra arancione, potrebbe sembrar sussistere il letterale coronamento di un simile repertorio, consistente in esemplari dalla variopinta livrea puntinata, le zampe striate, sfumature che vanno dal viola al rosa, all’azzurro, al bianco e nero. Creature fantastiche che quando compaiono sulle affollate spiagge digitali di Internet, raccolgono frequentemente accuse di manomissione fotografica o nei tempi futuribili che corrono, lo zampino dell’intelligenza artificiale. Il che è vero almeno in parte (la prima delle due casistiche) vista la maniera facilmente dimostrabile in cui almeno il 95% delle foto disponibili di simili creature è stata sottoposto ad un processo di iper-saturazione, così da massimizzare i riflessi arlecchineschi di questo ineccepibile dimostratore dell’estro artistico dell’evoluzione. Che contrariamente a quanto si potrebbe pensare, in funzione della progressione sovra-esposta, non è raro né una mutazione di specie comuni, bensì un membro tra i moltissimi di quella che costituisce una popolazione cosmopolita nei mari del settentrione australiano, l’Indopacifico, il Sudafrica, le Fiji ed il Giappone, a una profondità che raramente supera il 50 metri dal livello del mare. Panulirus ornatus della famiglia dei Palinuridi, in quello che sembra quasi un gioco di parole tra i latinismi, derivando d’altra parte dalla chiara classificazione delle grandi quantità di esemplari tra i 3 ed i 5 Kg che percorrevano, fin da tempo immemore, lo stretto di Torres per andare a riprodursi nel golfo di Papua. Finendo intrappolati, in modo accidentale ma tutt’altro che sgradito, nelle reti dei pescatori discendenti dagli antichi polinesiani. Il che avrebbe portato in parallelo ad imporsi, sulla scena internazionale, la denominazione di aragoste ornate delle rocce, data la loro preferenza per i fondali ingombri di anfratti e nascondigli, dove ritirarsi tra una battuta e l’altra delle loro prede elettive. Principalmente molluschi bivalvi, gasteropodi e piccoli crostacei, il che li avrebbe forniti attraverso lo strumento della selezione naturale di una particolare sensibilità nei chemiorecettori delle proprie antenne al processo di rinnovamento del proprio stesso esoscheletro, così da poter riconoscere i piccoli parenti e prevenire sconvenienti episodi di cannibalismo. Un meccanismo che non salva d’altra parte gli esemplari sub-adulti che hanno recentemente superato lo stato larvale, detti pueruli, dalla sistematica cattura ad opera della moderna industria dell’allevamento in cattività. Che preferisce, soprattutto nelle Filippine e buona parte del Sud-Est asiatico, affidarsi al rimpiazzo sistematico degli esemplari piuttosto che percorrere la strada della riproduzione assistita, all’interno di vasche che comunque non possiedono le condizioni o lo spazio necessari a riuscire nella difficoltosa impresa. Scelta logistica non propriamente sostenibile, come frequentemente avviene nel settore dello sfruttamento dei mari…
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Le lunghe notti predatorie del saettante topo marsupiale australiano
“Diavolo di un Tasmaniano!” Può trovarsi ad esclamare il tipico conoscitore d’animali, ritornando con la mente alla voracità e aggressività territoriale del più rappresentativo mammifero predatore di quell’isola del meridione terrestre. Ed invero a ben guardare, dell’intero continente d’Oceania, dove come è noto la tardiva introduzione di creature provenienti dall’Europa fu la miccia destinata ad instradare, entro una manciata di generazioni, il ripido ed irrimediabile sentiero dello sbilanciamento ecologico. Eppure non sarebbe in alcun modo rappresentativo, tentare di ridurre quel particolare territorio ad una sorta di luogo ameno, in cui le belve di ogni stazza e gruppo sarebbero vissute in assoluta comunione ed armonia fino alla creazione dei potenti bastimenti destinati ad accorciare le distanze oceaniche tra luoghi popolati da gatti, volpi rossi e cupi roditori. Basti pensare, a tal proposito, alla grande quantità d’insetti ed altri artropodi che in quel remoto paese, furono da subito associati ai rischi provenienti dal veleno, aguzzi artigli e sostanze urticanti di vario tipo. Poiché il conflitto può essere di molti tipi differenti. E quello dalle dimensioni assai ridotte non è certo, in alcun modo, privo del principio di aggressione e la violenta crudeltà procedurale.
Di marsupiali inclini a perseguire la sopravvivenza grazie a metodi di caccia ben rodati, ne abbiamo discussi e argomentati già diversi. Il che renderebbe tale repertorio ancor più carente in termini di completezza, nel momento in cui mancassimo di menzionare il kultarr. Inizialmente classificato nel 1856 dal celebre naturalista John Gould come un rappresentante dello stesso genere del fascogale o wamberger, un tipo di carnivoro con strette relazioni nei confronti del dunnart, il quoll e l’estinto tilacino (la famosa tigre tasmaniana) il nostro interessante amico fu revisionato undici anni dopo dal curatore del Museo Australiano, Gerard Krefft che lo ribattezzò come Antechinomys, una sotto-categoria dei dasiuridi informalmente associata al concetto dei cosiddetti “gerboa” marsupiali. Pur essendo in tal senso, ed in funzione delle sue zampe posteriori più lunghe, associato al concetto del topo canguro, il kultarr resta rigorosamente un quadrupede e nello specifico di un tipo particolarmente rapido nei movimenti, potendo facilmente raggiungere i 13,8 Km/h di velocità mentre sfreccia da una duna all’altra dell’arido entroterra australiano. Un risultato davvero niente male, per una creaturina del peso massimo di 30 grammi e una lunghezza media di 80-100 mm! Non potendo fare affidamento, per sfuggire ai suoi molteplici nemici, su altre risorse che un’innata cautela e la capacità di anticipare e distanziare il pericolo, per far ritorno alla sicurezza della sua piccola buca…
Un varano va veloce se vuol essere vorace predatore dei deserti australiani
Per la radicata impressione internettiana di essere una terra selvaggia popolata da feroci esseri avversi all’uomo ed alla sua sopravvivenza, il continente d’Oceania è caratterizzato da un ecosistema con precise regole e rapporti di forza, in cui l’introduzione di animali del Nord del mondo ha nel corso degli ultimi due secoli portato a significative alterazioni e problematiche per molte specie rappresentative della biodiversità locale. Questo perché nel distante regno dei marsupiali, dove il principale predatore fu per lungo tempo la minuta “tigre” tasmaniana, esseri come il dingo o il gatto domestico europeo diventarono in poche generazioni i letterali dominatori del territorio, capaci di aggredire e trangugiare senza sforzo pressoché qualsiasi essere endemico, con poche eccezioni. Ecco, dunque, l’eccezione. Un drago… Siete già a conoscenza del modo di porsi, l’aspetto e il tipico comportamento del Varanus giganteus? Una lucertola di un tipo familiare da moltissimi punti di vista, tranne il reticolo variopinto della sua livrea e le dimensioni. Due metri e mezzo di lunghezza, fino a 20 Kg di peso; abbastanza da farne il quarto esponente in ordine di proporzioni della sua categoria nei giorni odierni. Ed un degno rappresentante dello stesso genere dei mostri di Komodo, ovvero un gruppo di creature che da queste parti viene definito per antonomasia, fin dall’epoca delle colonie, goanna (da iguana) mentre la particolare iterazione in questione prende l’appellativo in lingua aborigena di perentie. Laddove al di là del possesso di quattro zampe, una lunga coda e scaglie che ricoprono la sua epidermide, particolarmente difficile risulterebbe trovare un punto di contatto con il pacifico erbivoro arboricolo facente parte del bioma del Nuovo Mondo, a partire dal comportamento. Che lungi dall’essere quello del tipico essere a sangue freddo, incline a interi pomeriggi di riposo sotto il sole diurno, vede il fervente predatore muoversi tra simili pause mentre saetta da una duna all’altra, con la capacità di raggiungere la velocità impressionante di 40 Km/h, di gran lunga sufficiente a farne il rettile più rapido al mondo. Abbastanza da inseguire qualsiasi piccolo mammifero, uccelli distratti o altre vittime d’occasione che dovessero venire identificate dai suoi occhi attenti. Diventando i bersagli elettivi di un morso non soltanto rapido, bensì dotato di notevoli presupposti d’infezione batterica ed anche un blando veleno, nella maniera notata scientificamente per la prima volta nel 2005, in un articolo di ricercatori dell’Università di Melbourne. Non che la vittima media abbia il modo e l’occasione di rammaricarsi per questo, vista l’innata propensione del perentie a scorporarne pressoché immediatamente le singole parti, rapidamente trasformate in validi bocconi energizzanti capaci d’alimentare il suo dispendioso stile di vita. Un approccio essenzialmente inquieto, ma non privo di una cruda efficienza alla sopravvivenza…
La strana vita dell’oca poco acquatica dal becco del colore di una zucchina d’inverno
“Essere o non essere, quack-sto è il problema” Un’oca. Sulle spiagge dell’isola di Cape Barren, lungo la costa orientale tasmaniana, un gruppo di grossi uccelli grigi si aggirano alla ricerca di piccoli ciuffi verdi tra gli strati di sabbia smossa. Il collo lungo, le zampe palmate, le grandi ali ricoperte di ordinate macchie di tonalità più scura; tutto, in loro, suggerisce l’idea di un anseriforme, la stessa famiglia tassonomica di uccelli simili diffusa nella maggior parte dei continenti. Informazione formalmente vera, benché a conti fatti nessuno sembrerebbe averlo reso noto ai piumosi abitanti di questi luoghi. Che non si avvicinano neppure al bagnasciuga, non cercano le alghe, non fanno insomma nulla di quanto ci si aspetterebbe dalla loro specifica conformazione fisica e predisposizione genetica ereditaria. Questo poiché la Cereopsis novaehollandiae, con una popolazione complessiva di appena 11.000-12.000 esemplari esclusivamente distribuiti in questa terra emersa e alcune piccole isole antistanti, oltre all’intera parte meridionale degli stati australiani, rappresenta il raro caso dell’evoluzione che per fare fronte a situazioni atipiche, parrebbe aver imboccato un’improvvisa via periferica dal corso principale degli eventi. Nicchie specifiche di ambienti chiaramente definiti: c’è moltissimo che può avvenire, nel corso di qualche pregresso millennio, al palesarsi di fenotipi e caratteristiche degne di una voce diversa sull’enciclopedia. Chiedetelo, volendo, a loro stesse. Che da un becco bitorzoluto dall’atipica tonalità verdognola (la lingua pare un piccolo serpente) vi risponderanno usando un verso stranamente fuori dal contesto, come un doppio grugnito alto e basso, simile a quello del maiale. Poiché il modo d’esprimersi, è cosa nota, rappresenta il primo segno di essere in un territorio nuovo.
Gradualmente, avvicinandovi, inizierete quindi a fare la loro conoscenza. Non in modo così cordiale, s’intende: l’oca di Capo Barren, come in effetti non pochi altri rappresentanti di questa tipologia d’uccelli, vanta un atteggiamento alquanto scontroso soprattutto quando necessita di fare la guardia ai propri piccoli, fino a quattro graziosi piumini a strisce bianche e nere che tra luglio e settembre diventeranno una presenza immancabile al seguito della coppia monogama genitoriale. Ma nel loro specifico caso, possono fare affidamento su un’arma incorporata decisamente particolare: la coppia di protrusioni ossee situate nel punto mediano delle ali, funzionalmente non dissimili da un tirapugni in uso nelle gang di strada. Guai, dunque, a chi rendesse manifesto l’apparente intento di avventurarsi nel loro territorio…