Il miracolo del secchio che si svuota da solo

L’acqua. L’acqua non è priva di una propria imprescindibile volontà. Chiunque abbia mai ponderato il tracimare di una diga, il crollo degli argini, l’onda devastante di uno tsunami, non può che essere giunto alla conclusione che l’elemento più fondamentale per la vita, dopo averne ricevuto l’influenza fin dalla più antica genesi delle creature, ha finito per esserne influenzato in qualche modo, acquisendo non soltanto la forza necessaria per comportarsi nello stesso modo 9 volte su 10. Ma soprattutto per fare l’esatto opposto, quella fondamentale decima volta! Avevate mai pensato, ad esempio, che l’acqua può scorrere in salita? Proprio così, non c’è niente di particolarmente insolito: di certo avrete familiarità con il concetto del sifone. Non quello del WC a forma di U, che poi sostanzialmente sarebbe in effetti l’ESATTO opposto del sistema di sfruttamento del fenomeno sfruttato, fin dai tempi degli egizi, per le mansioni più diverse, tra cui irrigare i campi, svuotare un serbatoio, iniziare il processo di pulizia di un acquario, rubare la benzina direttamente dalle auto (che resta pur sempre un liquido) …Ovvero un ponte ad arco formato da un tubo flessibile, con un’estremità posta più in alto dell’altra, in grado di garantire il travaso del primo recipiente all’interno del secondo. Per lo meno fino al calo del pelo dell’acqua fino all’imboccatura di partenza. Un’attività funzionale allo scopo, che tuttavia presenta un significativo problema: l’avviamento. Perché possa verificarsi il fenomeno del sifone, infatti, occorre che il circuito su chiuda, per così dire, giungendo a riempire lo spazio di raccordo con un’unica massa indivisa della sostanza bersaglio, che unisca letteralmente i due ambienti coinvolti nella specifica missione. Il che costituisce, in effetti, un problema. Perché nessuna delle soluzioni è davvero soddisfacente: di certo non la prassi più utilizzata, che prevede di utilizzare la nostra stessa forza polmonare per succhiare il fluido all’interno del tubo, rischiando di ingurgitarne una sgradevole parte. Ne quella d’inserire l’interezza di quest’ultimo all’interno del recipiente, lasciare che si riempia e poi tapparne un’estremità, poco prima di spostarla all’interno del secchio sottostante. Per poi aprire il tappo, e dare inizio alla spontanea magia…. Ma pensate voi a voler praticare un simile metodo all’interno di uno spazio niente affatto raggiungibile, come il già accennato serbatoio di un veicolo a motore… Giammai, potrete riuscirci… Ecco a voi, dunque, un sistema migliore.
Ce lo mostrò Rob Morrison, uno dei conduttori del programma australiano degli anni ’70, ’80 e ’90 The Curiosity Show, costellato di una serie di esperimenti semplicemente riproducibili ed altre dimostrazioni scientifiche di chiaro interesse generale. In questo segmento durante il quale, a un’occhio inesperto, potrebbe sembrare che sia stata messa in pratica della vera e propria stregoneria. Dopo aver travasato dell’acqua con un sifone convenzionale, dunque, il divulgatore ne impiega uno decisamente più sottile, costituito da una semplice cannuccia ad angolo acuto di vetro, costruita per poggiare il suo gomito esattamente in corrispondenza del bordo del recipiente quadrangolare. Perché in quel caso, il salto necessario per far iniziare all’acqua lo spostamento è talmente insignificante, che il semplice gesto di tappare l’altro buco con un dito, poi permettere all’aria di entrare all’interno tutta d’un colpo, si dimostra sufficiente a far partire l’orchestra delle molecole in festa. E tutto questo potrebbe sembrare già piuttosto notevole, finché non si assiste al passaggio ancora ulteriore: una versione più sofisticata dello stesso concetto, con la forma di una M asimmetrica, che una volta inserita nell’acqua inizia IMMEDIATAMENTE a sifonare. Senza alcun intervento da parte degli umani. Davvero siamo di fronte, ad uno dei maggiori misteri del nostro tempo…

Leggi tutto

Giovani cuochi creano un geode di ametista dalla cioccolata

Non tutti conoscono la leggenda del mistico eremita Ru Li. La cui sapienza non aveva limiti, poiché acquisiva le nozioni tramite il più istintivo dei sensi, quello che risiede presso le papille gustative umane. Ogni qualvolta il grande saggio percepiva la necessità di comprendere profondamente qualcosa, egli usciva dalla piccola caverna sopra le montagne di Mo Su. Camminando col nodoso bastone da passeggio, guidato da un’intuito quasi soprannaturale, raggiungeva l’obiettivo, ne prendeva un pezzo e lo mandava giù. Ru Li mangiava funghi, frutta, radici. Ru Li mangiava insetti, corteccia, piume. Ru Li mangiava persino, talvolta, piccoli pezzi di pietra. Tuttavia nella sua vita, permaneva un rigido senso del rimorso esistenziale. In quanto non aveva mai potuto, nonostante il desiderio, divorare la quarzite. Roccia metamorfica, spigolosa, semitrasparente, durissima, affilata e sfolgorante. Tanto che persino il più barbuto degli Immortali, per quanto avesse mai potuto concentrare il sommo spirito durante il pasto, avrebbe riportato danni all’apparato digerente. Allora sapete cosa fece, costui? Mangiò un libro di cucina, proveniente dalle terre d’India, ben oltre l’ultima montagna ad Occidente di Mo Su. E quando ebbe terminato l’ultima pagina, come ben sapeva che sarebbe successo, nella sua mente prese forma un’idea. E se…Pensò scrutando la foresta sottostante mossa da un’alito di vento…E se creassi da me un’imitazione della pietra, usando i limpidi cristalli di khanda, che la gente di quei luoghi estrae dalla pianta di zhū zhè? Certamente, la sapienza artificiale non è pari a quella che si fonda sulla pura e incommestibile realtà. Ma resta, pur sempre, una minima parte dello scorrere del Tutto…
Di sicuro, ricreare in cucina qualche cosa che proviene dalle regioni meno visibili del mondo naturale non è semplice. Soltanto in pochi, possono riuscirci. E sembra impossibile pensare che anche nella nostra generazione, così lontana dalla gemma dell’antica Età dell’Oro, possa vivere qualcuno in grado di riuscirci. Eppure, è capitato. All’inizio del mese, è capitato: grazie all’opera di due (+1) studenti del Culinary Institute of America (CIA) a New York. Alex O’Brien Yeatts (portavoce, grazie ad Instagram) e la sua collega AbbyLee Wilcox, che pare abbia sostituito un terzo senza nome, costretto ad abbandonare il progetto causa di un cambiamento di programma negli studi. Abbandonare, si. Perché volete sapere quanto ci è voluto, a completare l’incredibile forma di questo giganteggiante geode ricoperto di cioccolata, oltre ai molti altri simili di colore rosso, arancione, giallo…? Sei interi mesi. Abbastanza perché molti cibi, se tenuti in modo inappropriato, potessero letteralmente andare a male. Ma non questo, custodito all’interno di un qualche grande frigorifero o dispensa, in una delle più prestigiose istituzioni gastronomiche degli interi Stati Uniti! Oltre 180 giorni, trascorsi a ruotare regolarmente gli oggetti, nella speranza che al loro interno i cristalli si formassero nella maniera corretta… Il che ha fissato una data sul calendario “quasi” perfettamente adeguata. Il geode, dopo tutto, è una metafora decisamente efficace dell’uovo di Pasqua, con la sua struttura esterna opaca e priva di attrattive particolari, nascondente al suo interno materiali variopinti e preziosi. Una scrigno senza serratura o cardini… Stiamo parlando, in natura, del tipo di roccia che si forma in occasione di colate laviche, con la presenza di bolle di un qualche tipo di gas. La circostante pietra di derivazione ignea, solidificandosi con un gradiente di temperatura, sviluppa quindi uno spazio vuoto, all’interno del quale si sviluppano raggruppamenti di cristalli in funzione della composizione chimica e le infiltrazioni di liquidi entrati per il processo di percolazione. Attraverso centinaia di migliaia di anni, ad una velocità tale da permettere agli atomi di disporsi seguendo il proprio rigido reticolo cristallino. Il contenuto del geode può essere di vario tipo: zeoliti, carbonati, solfati, persino celestite o opali. Il geode di gran lunga più comune, tuttavia, resta certamente il quarzo, di cui una delle qualità più stimate, al conto del gioielliere, è l’ametista. Nient’altro che una varietà impura, contaminata dalle radiazioni e una certa quantità di ferro, che gli dona la caratteristica e molto apprezzata colorazione viola. Ora naturalmente, persino se ricoperto di cioccolata, non stiamo parlando di un materiale particolarmente piacevole al palato. Proprio per questo Alex e AbbyLee hanno deciso di sostituirlo con dello zucchero, trattato secondo l’antica metodologia del nabat persiano…

Leggi tutto

La craniotomia spontanea del cinghiale indonesiano

Mamma scrofa lo diceva sempre ai piccoli suini: “Se non potete essere graziosi, siate famelici. Grugnite, agitatevi, battete gli zoccoli per terra. Arrabbiatevi! Ed avrete da mangiare.” Funziona in molte situazioni differenti: nella foresta, dove un gruppo sfortunato d’escursionisti potrebbe incontrare la tipica versione selvatica dell’animale, il peloso, zannuto e temutissimo cinghiale. Come del resto, allo zoo, luogo privo della grazia ineffabile della totale libertà, ma d’altro canto di qualsiasi preoccupazione legata al cibo. Tranne che… Se avere 2 può essere abbastanza, se avere 3 un’occasionale colpo di fortuna, riuscire a conseguire per se stessi 7, 8 oppure 9 (patatine? Noccioline? Piadine?) può davvero colorare il senso e la struttura di una lunga e appiccicosa giornata. Il che riesce molto meglio se si resta impressi al primo sguardo, in senso non soltanto necessariamente positivo. Lo sa bene babirusa, il più misterioso e strano artiodattilo al mondo, il cui nome significa letteralmente nella lingua di Sulawesi e Buru “cervo-maiale”. Ora, se osservate attentamente questo esemplare in ottima salute, la cui aria posseduta ebbe certamente modo di far sogghignare quel giorno i visitatori di un qualche resort animale del Sud Est Asiatico, noterete che la coppia delle sue due zanne più grandi, arricciate sopra il muso come protezioni di un casco da football, è stata attentamente limata e spuntata dagli sfortunati guardiani preposti a tale mansione. Volete saperne la ragione? Perché altrimenti la natura grama, che di certo questa bestia non doveva averla in palmo di mano, avrebbe condotto tali denti senza falla a ritorcersi contro il suo stesso cranio. Arrivando, si ritiene, a trasformarne il possessore in carne pronta per fare il bacon.
Càspita, che convenienza! Per noi abitanti delle regioni circostanti al Mediterraneo, presso cui animali appartenenti alla stessa famiglia s’interfacciano con noi alla maniera, grosso modo, di giganteschi topi invasori, un tale feature non potrebbe che essere assai gradita. Un sistema di autodistruzione per i grandi capi del branco, in grado di farli fuori senza falla al raggiungimento del supremo stato di perdominio? Dove dobbiamo firmare per avere i vostri maiali? Ma la realtà è che tutti gli appartenenti alla sottofamiglia Babyrousinae, nonché all’unico suo genus Babyrousa, non invadono proprio nulla, appartenendo collettivamente all’ambito degli animali a rischio lieve d’estinzione, per la progressiva riduzione dell’habitat di appartenenza. Come gli animali preistorici a cui tanto rassomigliano, questi esseri a metà tra il cinghiale e l’ippopotamo potrebbero presto sparire, lasciando come testimonianza della loro esistenza solamente un riecheggiante grugnito. Assieme ad un gran mucchio di teste perforate. Potrebbe in effetti, sembrare l’esatto opposto del senso stesso dell’evoluzione. Un animale i cui denti possono ucciderlo: qual’è la ragione? Come in molti altri aspetti della vita ed il senso di questa creatura, la questione non sembrerebbe avere alcun senso. Le due zanne superiori, che tecnicamente sono i canini del maschio, crescono verso l’alto, fuoriuscendo dal muso attraverso la pelle, ma risultano in realtà piuttosto delicati, e per questo largamente inutili nei combattimenti. Fatta eccezione l’opportunità occasionale di deviare un colpo dei rivali in amore, evitando che gli occhi vengano colpiti dalla vera arma dell’animale, i due canini inferiori che crescono diagonalmente verso l’alto e l’esterno, arrivando a costituire delle vere e proprie sciabole, utili anche per scavare nel sostrato boschivo. Il che risulta molto importante per il babirusa, che essendo privo del disco osseo prenasale dei suini nostrani, non può scavare penetrare col muso direttamente nel terreno per cercare il cibo, a meno che si trovi in una zona paludosa dal suolo molle. Un aspetto molto significativo della sua biologia è la presenza di tre stomaci distinti, come i bovini, fattore che ha fatto sospettare per lungo tempo che potesse trattarsi di un ruminante, benché la realtà dei fatti abbia in effetti smentito l’improbabile teoria. Il cinghiale indonesiano si nutre di frutta varia, mango, funghi, foglie, insetti e noci dal guscio duro, che rompe facilmente grazie alla forza della sua mascella. Più raramente, dei cuccioli di altri mammiferi o persino, della sua stessa specie. Il suo aspetto e stile di vita bestiale, attraverso i secoli, ha influenzato gli usi e leggende delle popolazioni indonesiane…

Leggi tutto

Il gatto scoiattolo che vive tra le scimmie del Brasile

Riportate alla vostra mente, per qualche secondo, la tipica scena del gatto che si arrampica su un albero e non riesce più a tornare giù. Gli spettatori preoccupati, cellulari alla mano, già pronti a far venire sulla concitata scena il camion dei pompieri. Che poi A – Non è la più grave emergenza a cui costoro potrebbero dover rispondere nella prossima ora, e poi B – Niente ci garantisce che il micio in questione, in effetti, sia più che in grado di discendere per conto suo, una volta spinto a farlo dall’aumento della fame. Del resto, non è soltanto uno stereotipo: i gatti si arrampicano facilmente verso l’alto, grazie all’impiego dei loro artigli retrattili ed acuminati. I quali, tuttavia, possono far presa solamente in un senso, il che significa che percorrere la via a ritroso comporterà necessariamente la complicata manovra di girarsi di schiena e calarsi all’indietro, senza poter guardare a fondo l’unico percorso prefissato. Non esattamente una manovra semplice, specie per un animale. Ma adesso immaginate che il felino, nel momento della verità, faccia l’impossibile, ovvero ruoti le sue zampe di 180 gradi, più o meno come gli occhi del camaleonte, oppure il collo della bambina posseduta nel film l’Esorcista. E che a quel punto, risolto il sempiterno paradigma, inizi a percorrere il tronco dell’arbusto con la testa in avanti, correndo letteralmente verso il suolo, alla maniera sono soliti fare i ben più piccoli, e leggeri, sciuridi arboricoli dalla coda vaporosa. Ecco, potrà esservi sembrato un puro sogno della pipa. Mentre in effetti, sappiate questo: stavate pensando al margay.
O Leopardus wiedii, dal nome del suo scopritore il principe Maximilian di Wied-Neuwied, che nel 1815 si recò con le sue guide e un gruppo di naturalisti nel profondo delle foreste pluviali brasiliane, alla ricerca dei misteri dei suoi ancestrali abitanti umani, i cosiddetti indios sudamericani. Per trovarsi anche di fronte a questo agile arrampicatore, definito all’epoca “gatto tigre dalla coda lunga” benché le macchie del suo mantello, con un punto più chiaro al centro, ricordino piuttosto da vicino il tipico leopardo. Ma uno ben più piccolo dell’alternativa di terra, con un peso complessivo medio di non più di 4 Kg, per una lunghezza del corpo tra i 33 ed i 55 cm esclusa la coda in questione, che può facilmente raggiungere i tre quarti del resto dell’animale. Il che dimostrò, se non altro, l’acuto spirito d’osservazione del principe, vista l’estrema somiglianza del margay al tipico ocelotto di queste terre (Leopardus pardalis, il leopardo nano) dal quale si differenzia nell’aspetto primariamente nelle dimensioni leggermente inferiori e nei grandi occhi sporgenti simili a quelli di un cane pechinese, che sul suo muso stretto e affusolato donano all’insieme un’aspetto quasi rettiliano. Per non dire, semplicemente, alieno. Questo perché il margay, come sua massima prerogativa, è un animale per lo più notturno, che si sposta nell’oscurità o al tramonto da un ramo all’altro, alla ricerca delle sue prede preferite: uccelli, lucertole ed in particolare i piccoli di alcune specie di scimmie, tra cui il tamarino calvo (Saguinus bicolor). Che cattura con una tecnica molto particolare: imitare il loro verso. Si tratta di un atteggiamento, di nuovo, talvolta accennato in linea di principio dal gatto domestico, che perso nell’osservazione degli uccelli alla finestra, può talvolta produrre dei brevi ed acuti miagolii, vagamente simili ad un pigolio. Ma non c’è niente di accidentale, ed impreciso, nelle imitazioni di questo predatore delle occulte e remote profondità forestali. Il cui richiamo, distraendo e rendendo vulnerabile il piccolo primate, può bastare a farne il bersaglio del suo balzo repentino ed impossibile da evitare. L’agilità nel muoversi tra gli alberi del margay è tale, in effetti, da far pensare per lungo tempo che il felino vivesse unicamente sopra questi rami, scendendo a terra solamente in rari casi, e per periodi estremamente brevi. Quando in effetti lo studio approfondito ha dimostrato come esso preferisca percorrere le medie distanze correndo al livello del suolo, benché si rifiuti categoricamente di fuoriuscire dalla copertura degli alberi della foresta, rendendolo particolarmente vulnerabile allo sfruttamento umano del suo ambiente di provenienza. Come del resto, ogni altro animale proveniente dall’insostituibile ambiente della foresta sudamericana.
Silenzioso, agile e letale, il margay rappresenta tutte quelle qualità che vengono attribuite convenzionalmente al gatto, potenziate molte volte, dalla necessità di sopravvivere in un ambiente ricco di prede, ma tutt’altro che accogliente per chi non sia in grado di trovare la sua nicchia evolutiva. Il che costituisce una problematica altamente specifica, nei frequenti casi in cui una regione sia condivisa da costui con l’ocelotto, o anche l’oncilla o tigrillo (Leopardus tigrinus) che pure lo ricorda da vicino, sebbene presenti una stazza ancora inferiore, di appena 3 Kg. Il fatto è che simili creature sono cacciatori forse anche troppo efficienti, e in una particolare zona possono esserci soltanto un certo numero di potenziali prede, limitando necessariamente il numero massimo di carnivori simili tra loro in grado di dividersi il bottino. Ma saltando agilmente nella notte, il margay continua la strenua lotta per il suo diritto all’esistenza…

Leggi tutto