Voglio, voglio, voglio. Devo avere: questo, il verme segmentato nelle tenebre dell’Universo, sin dall’epoca della sua nascita continuava a cogitare, nei suoi gangli contrapposti ed all’interno dei sedici cuori. Le setole deambulatorie distribuite lungo gli appena 9 cm del suo corpo, intente ad agitarsi con sinuosa successione, l’una dopo l’altra, mentre gli arti simili a tentacoli sulla nuca, ricoperti di organi sensoriali, si protendevano verticalmente verso il “cielo” in mezzo a cui fluttuava, alla ricerca dell’unica soddisfazione che gli fosse noto: un’altra particella di muco, l’escrezione di esseri sacrali, o il cadavere di un gamberetto transitato a miglior vita… Prima di precipitare verso un’esercito di bocche in attesa. Finché un giorno, quel silenzio senza fine venne rotto da un’insolita presenza, cubitale: enorme oggetto, l’astronave dei Terrestri, giunta fino a un tale luogo per lo scopo di seguir la scienza, fino alle più estreme, ancorché crudeli, conseguenze. E fu allora, con terribile risucchio, che il suo mondo venne messo sottosopra e poco dopo, terminato nella formalina. Poiché come si usa dire qui da noi “Conosciamo le profondità marine meno delle stelle fisse ad anni luce di distanza.” E neanche di quelle, nonostante tutto, le capiamo davvero!
Già: qual’è il punto più distante dalla nostra stella che sia logico chiamare ancora, a tutti gli effetti, parte del Sistema Solare? Senza inoltrarci eccessivamente in una simile questione, potremmo scegliere di dare seguito al parere di chi consideri tale definizione applicabile, in linea di principio, soltanto ad oggetti al di sopra di una certa dimensione. Poiché trattasi, nei fatti, di un insieme di “pianeti” e in quanto tale, dipendente da una simile definizione implicita, tanto sfuggente da aver visto declassare il caro Plutone a un semplice ETNO (ovvero Oggetto Estremo “al di là” di Nettuno) e nei fatti, probabilmente, il più grande della collezione. Ma proprio approcciandoci a questi ultimi, l’astronomo curioso non può fare a meno d’interrogarsi sulla maniera in cui le diverse orbite coinvolte sembrino in qualche maniera convergere ed intersecarsi, lungo il tragitto di un qualcosa che potremmo definire un vero e proprio mistero gravitazionale. Il cui nome, in date cerchie, risulta essere Nibiru: l’entità cataclismica, la Nemesi crudele della Terra, ad essa stranamente identica, nonché potenziale responsabile di una scampata distruzione qualche annetto fa. Almeno, secondo l’opinione di un certo numero di sedicenti profeti. Ma cose cosmiche possono trovarsi a contatto anche in regioni oltre la semplice materia! E qualche volta, se le condizioni sono giuste, esseri viventi possono riuscire a transitare lungo l’apertura dei portali, palesandosi d’un tratto all’altro lato.
Seguendo linee di ragionamento in qualche punto compatibili con tale ipotesi potrebbero aver reagito, almeno nei primissimi istanti, gli scienziati coinvolti nel progetto Census of Marine Zooplankton (CMarZ) quando nel 2007 si trovarono al cospetto di una tale…Cosa. Proprio al centro dell’inquadratura del loro ROV (batiscafo radiocomandato) ad oltre 2000 metri di profondità nel bacino afotico (privo di luce) del mare di Celebes, situato grossomodo tra le Filippine e l’Indonesia. Un sistema di profonde depressioni, suddivise da barriere territoriali invalicabili per gli esseri della zona bentica, ovvero abituati a vivere a stretto contatto con il fondale. Tra cui figurano, sopra qualsiasi altro, numerose specie di policheti, vermi segmentati, biologicamente simili agli anellidi di terra, per cui l’evoluzione ha tuttavia costituito una chiave d’accesso verso l’acquisizione di particolari “poteri”. Ciò che nessuno aveva prima d’allora sospettato, tuttavia, era che essi potessero in qualche maniera sollevarsi dalle sabbie senza nome, grazie a un lungo processo di trasformazione e adattamento, in fondo al quale si sarebbero trovati con 50 notopodia (arti a forma di spatola). Più che sufficienti, tutti assieme, a farne sollevare questa varietà dal suolo. E portarla a mezza altezza, proprio in mezzo al cupo nulla. Per intercettare, con gradito anticipo, gli scarti che costituiscono per essa il “cibo”…
OH-6 Cayuse: il sibilo del vento è un elicottero da guerra nordamericano
Probabilmente in pochi avrebbero pensato, all’epoca della scoperta dell’America, che i nomi di alcune tribù native di queste terre avrebbero assunto, a qualche secolo di distanza, un suono in grado di far preoccupare i membri di uno schieramento militare al letterale capo opposto del pianeta. Ormai tutti conoscono, ad esempio, il possibile doppio senso del termine “Apache” attribuito al tempo stesso all’etnia di origine athabasca e al celebre elicottero da combattimento, sottile ed aggressivo al pari di una vespa, capace di sferrare il proprio attacco al centro esatto di una formazione di mezzi corazzati nemici. E lo stesso vale per il Chinook da trasporto della Boeing con l’iconico doppio rotore, il cui nome è derivato dagli indigeni del Pacific Northwest, esattamente come quello del programma cancellato al culmine della guerra del Vietnam, per l’AH-56 Cheyenne della Lockheed. Molti meno comparativamente, tuttavia, hanno mai sentito parlare dello Hughes OH-6 Cayuse, elicottero leggero da osservazione, per almeno un paio di ottime ragioni: la prima è l’ampia serie di soprannomi attribuiti ad esso, tra cui “Loach” (dal pesce d’acqua dolce Misgurnus anguillicaudatus) o in maniera ancor più prosaica, “uovo volante” data la particolare forma del suo profilo aerodinamico di volo. E secondariamente, perché un simile apparecchio sembrò, ad un certo fondamentale punto della sua storia operativa, voler fare un po’ di tutto… Tranne, se possibile, attirare l’attenzione.
Prodotto alquanto ben riuscito di un programma degli anni ’60 per l’implementazione di un nuovo elicottero multi-ruolo nel dipartimento rilevante dell’Esercito degli Stati Uniti, l’oggetto volente inizialmente noto come Modello 139 fu in effetti la proposta della Hughes di Culver City (California) posta in essere al confronto di giganti come Fairchild-Hiller e Bell, inserita nel carnet di un simile concorso ben retribuito solo in un secondo momento. Ma capace di proporre, in tali circostanze, l’offerta dal miglior rapporto tra potenza e costo unitario di produzione, capace di ridursi fino alla cifra relativamente contenuta di 19.860 dollari (circa 170.000 al calcolo dell’inflazione attuale) nonostante un comparto tecnico di tutto rispetto, un risultato raggiunto secondo alcuni soltanto rimettendoci, in effetti, su ciascun singolo esemplare prodotto. Era il 17 febbraio del 1963 quando il primo esemplare della serie prese il volo, ponendo in essere le condizioni per una letterale rivoluzione nel suo ambito d’impiego: ben 23 record infranti, tra cui quelli, assolutamente essenziali in campo militare, di portata e resistenza in volo. Dopo un ordine iniziale di 1.370 apparecchi dunque, ormai all’apice del lungo conflitto passato alla storia come guerra del Vietnam, l’Esercito fece un ulteriore ordine di 2.700, causa gli ottimi risultati ottenuti ai margini del campo di battaglia o nel cuore dello stesso, grazie alle varianti pesantemente armate affettuosamente note come “uova da guerra”. Come potrete facilmente intuire dal nostro titolo di oggi, tuttavia, questa non è la storia di simili implementi bellici bensì di un particolare approccio al conflitto elicotteristico, che potremmo definire al tempo stesso molto più sottile ed anche, dati i giusti presupposti, risolutivo: la moderna guerra delle informazioni.
Già, l’avreste mai pensato? Che il singolo approccio al volo umano maggiormente udibile ed oserei aggiungere, cacofonico, potesse trovar l’ottimo impiego nella prototipica missione di spionaggio: quella concepita ormai da lungo tempo già verso la metà degli anni ’60, con l’obiettivo di porre sotto sorveglianza le linee telefoniche usate dalle forze militari e politiche del Vietnam settentrionale, proprio lungo il fondamentale sistema di strade collinari tatticamente noto agli americani come sentiero di Ho Chi Min. Il che non poteva fare a meno di presupporre, alquanto prevedibilmente, una serie d’importanti modifiche al progetto convenzionale del Loach…
Il canto armonico dei 70 pesci nella galleria di automi
Mentre gli ospiti invitati per l’ennesima festa percorreranno il corridoio discendente che si trova all’ingresso del Royal Palms di Chicago, venue d’eccezione presso cui è possibile, tra le altre cose, accedere ad un certo numero di piste per lo shuffleboard (curling da ponte o superficie di cemento) qualcosa di bizzarro colpirà da oggi la loro attenzione. Un’intera parete risultante, almeno in apparenza, da una florida carriera nel fantastico mondo della pesca, messa in atto da un qualche abile componente della squadra di gestione, con l’evidente compiacenza di Ashley Albert, la proprietaria. Ma è soltanto una volta effettuati i primi tre o quattro passi in tale mondo che, al varcare di una soglia invisibile, l’effettiva funzione dell’opera d’arredo avrà modo di rivelarsi. Quando i persici in questione, voltandosi all’unisono verso lo stretto passaggio, spalancheranno le proprie bocche e inizieranno a…
Il sibilo dell’aria che percorre quel pertugio, limpida e perfettamente udibile, sussurro dell’Oceano per chi ha il desiderio di raccogliere conchiglie, poi le mette tutte in fila e pensierosamente, accosta il proprio orecchio al telefono in aragonite ricevuto in dono dalla natura. Ma un mollusco può cantare, anche nella migliore delle ipotesi, non più di 10, 15 canzoni. Mentre un pesce, essere pinnuto dal più elevato senso critico ed inclinazione a disputar se stesso, possiede in linea teorica la chiave d’accesso verso molti generi di tipo differente. Come i molti sentimenti trasformati in musica da Albert Leornes “Al” Green, gigante americano della musica gospel e soul attivo sin dagli anni ’60, particolarmente celebre a livello internazionale per il suo brano del 1974 “Take me to the River” e l’esecuzione dello stesso che iniziò a sentirsi dalla fine degli anni ’90, nelle case di letterali centinaia di migliaia di persone, grazie a un’esecuzione che potremmo definire… Fuori dal coro. Quella di Billy il pesce persico texano “dalla bocca larga”, il cui intento istrionico può già notarsi dal gioco di parole, un duplice riferimento all’effettivo nome della specie ittica di appartenenza (Micropterus salmoides) e la funzione principale di una simile creazione, forse il più famoso scherzo elettronico della sua Era. Quella di cantare, s’intende, soprattutto due brani: l’ottimistico “Don’t Worry, Be Happy” di Bobby McFerrin ed il già citato, poetico racconto di una riscoperta mistica da parte del buon vecchio Al – Che ovviamente, si presume sia da prendere in un senso decisamente più letterale, quando a cantarla è un pesce prossimo al soffocamento che in circostanze reali, vorrebbe DAVVERO essere riportato nel suo fiume di provenienza.
Eppure non c’è alcunché di macabro o inquietante nella nuova idea comunicativa di questo luogo di ristoro dedicato, almeno in parte, al più nobile degli sport normalmente praticati a bordo di una nave da crociera, quanto piuttosto un chiaro intento di lasciar letteralmente privo di parole ogni possibile visitatore, per poi rimpiazzarle, se possibile, mediante un repertorio assai più ampio rispetto a quello originario del popolarissimo giocattolo della Gemmy di Dallas, TX. Offerto, nello specifico, grazie all’opera migliorativa di Adam Lassy dello studio di design Quasi di New York, progettista di situazioni abitative, arredatore di luoghi di lavoro e a quanto pare, anche un abile programmatore di creature degli abissi, per cui nulla è impossibile nell’ora della pesca, considerati i giusti presupposti. Neanche creare l’arte, intesa come attimo di lieve introspezione, da un meme…
Banzai! Dopo il rito del Ringraziamento, Naruhito è finalmente Imperatore
Quando lo scorso maggio abbiamo avuto modo di vedere in Tv, per la prima volta dal 1990, la più famosa delle tre cerimonie previste per la posa in essere di un nuovo Imperatore del Giappone, resa ancor più significativa dalla rara abdicazione del suo insigne predecessore, alcuni di noi non hanno potuto fare a meno di tradire un certo senso di sorpresa: dov’era il preciso ritualismo, dove l’arte e tutto il pathos del momento, di una civiltà famosa per il senso delle proprie tradizioni e l’attenzione verso la gestualità degli antenati, notoriamente incline a conservare i più antichi gesti e tutto il loro importantissimo significato? Naruhito semplicemente, in abito del tutto occidentale, riceveva in tale circostanza la spada tagliatrice d’erba ed i gioielli, rigorosamente custoditi all’interno di confezioni tali da renderli invisibili a noi “comuni mortali” (la terza insegna del suo potere, lo specchio divino di Amaterasu, eternamente custodita presso il Santuario di Ise e per questo irraggiungibile persino, per lui). É stato soltanto con il sopraggiungere dello scorso 22 ottobre quindi che le cose hanno iniziato a farsi decisamente più interessanti, con l’opportunità di vedere il nuovo sovrano e sua moglie Masako impegnati nella Sokuirei-Seiden-no-gi (salita al trono) dopo una lenta processione con i rispettivi kimono specifici per una tale circostanza, poco prima che lui iniziasse a declamare il solenne giuramento che compete al suo ruolo. Ma è senz’altro stato nella notte successiva allo scorso giovedì 14 novembre, che il processo di trasformazione di un uomo in effettivo tramite verso il più importante kami (divinità) del paese ha raggiunto quello che potremmo definire, senza ombra di dubbio, il suo momento maggiormente solenne e di gran lunga più sacro.
Sto parlando per l’appunto dell’importantissimo Daijō-sai (大嘗祭) o Grande Festa del Ringraziamento, un episodio rituale che molte testate giornalistiche si sono limitate a definire “segreto” con un possibile senso di sollievo al non dover approfondire una questione tanto delicata, fatta eccezione per le comprensibili proteste da parte dei fautori della divisione tra stato e chiesa, dato il costo stimato superiore ai 22 milioni di dollari. E questo, nonostante il basso numero di documentazioni videografiche effettive concesse sull’argomento. La realtà di una simile scelta di termini tuttavia, nel caso in questione, è che in effetti non c’è proprio nulla in un questo evento, per come si svolge al giorno d’oggi, che sia stato custodito al di fuori dell’opinione pubblica. Essendo esso costituito da una serie di passaggi ben precisi che più che altro, non vengono generalmente discussi in modo approfondito fuori dalle cerchie del palazzo e al tempo stesso, dominato da un momento di raccoglimento interiore che sarebbe stato semplicemente assurdo, in questo o qualsiasi altro paese, scegliere di mostrare per il pubblico ludibrio, dinanzi a telecamere senza un’anima o ritegno. Il rito del Daijō-sai consiste infatti, oltre a una ragione reiterata di proteste di natura finanziaria, il preciso e forse unico momento in cui l’Imperatore si trova al cospetto della sua divina Antenata la Dea stessa, e condividendo con essa un pasto, riceverà da lei le conoscenze necessarie ad assolvere al ruolo che compete alla sua dinastia priva d’interruzioni. Con alcuni rari punti di contatto nei confronti della Comunione cristiana, ma anche l’annuale rito del Niinamesai (新嘗祭) o Ringraziamento per il Raccolto, benché la quantità di passaggi estremamente simbolici ed il ruolo dell’uomo solo al comando lo rendano, in ultima analisi, straordinariamente distintivo. Ridurre tuttavia questo passaggio fondamentale al semplice momento del suo espletamento potrebbe essere una tentazione tale da indurci in errore, dato il suo estendersi, attraverso alcuni fondamentali passaggi, attraverso il passaggio di un intero anno…



