Disse il gelso ad un ciliegio: togli le radici dai miei rami

Bialbero di Casorzo

È una vista che si offre a chiunque passi con la macchina sulla Strada Provinciale 38 del Piemonte, che unisce i due comuni di Casorzo e Grana transitando tra le verdeggianti pianure del Piemonte, dove l’agricoltura tradizionale incontra l’industria vinicola moderna. Nello specifico, molti scelgono persino di fermarsi, scendere ed andare ad ammirarli: tre imponenti alberi di gelso (Morus Linnaeus) all’orizzonte, di cui due misurano l’altezza di 5 metri circa. Mentre quello al centro, s’intuisce presto, riesce a raggiungerne addirittura 11. O almeno questo è ciò che sembra da lontano. Perché a un secondo sguardo, ed un’analisi più approfondita, ci si accorge di come quel particolare arbusto abbia qualche cosa di davvero molto strano. Laddove i suoi compagni, infatti, presentano la normale biforcazione quasi orizzontale dei rami principali secondo l’abitudine di questa specie, l’albero più grande ha una sorta di secondo fusto centrale, più sottile e slanciato, che a sua volta si divide andando in alto, ma in maniera differente. Tale stranezza della sua struttura, inoltre, è addirittura fuori centro dal resto dell’entità vegetale. Sembra in effetti, sotto molti punti di vista, che la lancia di Odino (o la verga Demetra) sia stata infissa dall’alto sulla sommità del gelso, e che l’implemento attraverso i secoli, per ragioni chiaramente sovrannaturali, si sia messo quindi a germogliare. Impossibile! Eppure si tratta di una similitudine meno distante di quanto si potrebbe essere portati a pensare. Quella parte soprastante del celebre bialbero, o doppio albero di Casorza, è infatti in realtà un’arbusto di ciliegio. Totalmente indipendente dal punto di vista genetico, nonché molto diverso. Cresciuto, miracolosamente, per altri 6 metri dalla sommità dell’ospite schiacciato dal suo peso!
Siamo abituati a pensare alle piante come ad esseri pacifici, indifesi, tranquilli proprio perché immobili, e distanti dal concetto di aggressione. Ma la realtà è che nonostante i loro ritmi rallentati, esse sono aggressive esattamente come noi animali. Basti pensare al groviglio sotterraneo di radici, che s’inseguono nel suolo di un antico bosco, cercando di conquistare più territorio e sostanze nutritive possibili. O ai giganti delle foreste pluviali, che crescono a ritmo forsennato, per  cercare di guadagnarsi una via d’accesso alla preziosa luce del Sole necessaria per la fotosintesi clorofilliana. Mentre il fico strangolatore (F. watkinsiana) tenta di aggrapparsi a vittime innocenti, per ucciderle verso il raggiungimento di un tale obiettivo. E c’è un momento, nella vita di queste creature, che esemplifica più di ogni altro quel desiderio di sopravvivenza “ad ogni costo” che è la genesi del fondamentale egoismo di ogni essere guidato dall’istinto, o in altri termini dal frutto proibito dell’evoluzione: quando la pianta si libera dei suoi semi, grazie all’espediente strategico di un pegno dolce da mangiare, e quelle preziose capsule, trasportate in giro dagli uccelli o piccoli animali, devono trovare il modo di attecchire ovunque finiscano per essere defecate. Sulla dura terra, sulle rocce, sull’asfalto, nel bel mezzo di una valle ombrosa e secca. Persino sopra un’altro albero, se è questo che decide la forza imprevedibile del vento.
Il celebre bialbero di Casorzo si presenta quindi con tutte le caratteristiche biologiche di quella che viene definita in gergo una pianta epifita (in contrapposizione alla via del parassita, come il fico di cui sopra) ovvero che sfrutta il sostegno di un altro arbusto per avvantaggiarsi in qualche maniera, o come è ancor più probabile in questo caso, si ritrova in una tale situazione per un mero caso del destino. Ma ciò che contribuisce a renderlo tanto eccezionale ed attraente, è la maniera in cui entrambe le piante così congiunte godano all’apparenza di ottima salute, tanto che il ciliegio, in primavera, si ricopre di candidi fiori profumati. E il suo fiero basamento, nonostante il peso che si trova a sostenere, sopravvive e gode addirittura di ottima salute. Non per niente i due arbusti sono stati chiamati, dai vignaioli del posto che li hanno fatti un loro simbolo privilegiato, alberi degli innamorati. Il riferimento mitologico è piuttosto chiaro…

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L’evoluzione strategica delle portaerei italiane

ITS Cavour

In queste riprese risalenti al 2013, l’ammiraglia della flotta italiana mette in mostra gli artigli acciaiosi in occasione del meeting tenutosi a sud della Sardegna dell’Atlantic Council, il comitato politico e militare statunitense venutosi a costituire oltre 50 anni fa per favorire la cooperazione tra le diverse potenze economiche globali. Come per l’incontro tra Renzi, la Merkel e Hollande di questo attuale agosto 2016, ospitato stavolta sul meno massivo incrociatore portaeromobili Garibaldi (13.850 Vs. 27.900 tonnellate) lo splendore del ponte di volo in condizioni di operatività era diventato l’occasione di mostrare momentaneamente al mondo che si, dopo tutto esistiamo. E siamo pur sempre pronti ed abili, nel definire obiettivi strategici di portata internazionale.
Se è vero che la “guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” come scrisse il grande von Clausewitz, allora la mobilitazione di ciascuna delle tre possibili forze armate di ciascun paese potrebbe corrispondere ad un diverso tipo di messaggio diplomatico: perché l’aviazione interdice o acquisisce, l’esercito conquista o difende, e la marina…Fa un po’ di tutte le cose, ma anche e soprattutto, per via della sua capacità di essere dislocata in ogni regione del mondo senza il bisogno di alcun preambolo, applica lo status de facto di un’estensione della propria operatività, su medio o lungo termine, quale il nemico, o controparte che dir si voglia, può contrastare unicamente con una dimostrazione di forza ancor più grande. Ed è per questo che fin dall’epoca della prima guerra mondiale, la presenza di anche soltanto una singola nave da battaglia nemica all’interno delle proprie acque costituiva l’inizio percepito della fine, una situazione che annunciava generalmente l’ultimo capitolo del conflitto. Fu dunque in funzione di questo che gli Stati Uniti per primi, notoriamente lontani dai confini in arme di qualsivoglia nazione ostile, giunsero ad inventare, finanziare e schierare un nuovo e diverso tipo di unità marittima, capace di dominare i mari come nessuna prima di lei. Erano dunque gli anni immediatamente antecedenti alla grande guerra, quando Eugene Ely, famoso aviatore, decollò per primo dal ponte dell’incrociatore corazzato USS Birmingham nel 1910. Per poi riuscire persino ad atterrare, in una diversa occasione nel corso dell’anno immediatamente successivo, sulla struttura temporanea costruita sopra la poppa dell’USS Pennsylvania. Nulla, a seguire di questo, sarebbe più stato lo stesso. Basi mobili, piattaforme umanitarie, strumenti diplomatici dall’alto tasso di visibilità: le portaerei moderne costituiscono una risorsa costosa ma versatile, che soltanto alcuni dei paesi più potenti del mondo possono permettersi di schierare. Resta tuttavia importante non dimenticare quanto segue: in qualità di armi, esse esistono soltanto perché forgiate nel fuoco della battaglia. E temprate nel sangue versato dalle trascorse generazioni di eroi.
La storia delle due portaerei correntemente schierate dal nostro paese viene generalmente fatta risalire, in via remota, all’episodio di una cocente sconfitta subita nel corso del secondo conflitto globale: la battaglia di Capo Matapan (28 marzo 1941) combattuta contro la Royal Navy degli inglesi per il controllo delle regioni marittime antistanti alla Grecia. Prima di allora, sussisteva ancora l’idea di un’Italia “popolo di navigatori” naturalmente in grado di prevalere tra l’onde, nonché l’insensata metafora di epoca fascista secondo cui la nostra penisola, con la sua posizione strategica nel bel mezzo del Mare Mediterraneo, potesse automaticamente costituire “la portaerei di se stessa”. Da quel momento in poi, il regime duramente umiliato sui campi di battaglia e già in via di disgregazione prima dell’armistizio segreto di Cassibile (3 settembre 1943) lavorò alacremente per crearsi, alla pari dei molti nemici, delle navi dotate di almeno un’intera squadriglia d’aerei. A tal punto pesò, la presa di coscienza della nostra inadeguatezza nel contrastare una forza costituita su questo nuovo precetto dell’ordine di battaglia per mare. Tutto iniziò con una missione teoricamente piuttosto semplice: bloccare i convogli di rifornimento inglesi che si stavano spostando troppo liberamente tra l’Europa e l’Africa, secondo quanto esplicitamente delineato dagli alleati tedeschi. Ma le cose iniziarono quasi subito ad andare per il verso sbagliato…

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Il colore più prezioso del Rinascimento italiano

Ultramarine

Dentro una ciotola di coccio, metto pietra triturata, mastice e colofonia, la cosiddetta pece greca. Quindi aggiungo alcuni blocchi di cera d’api, non dissimili a quelli necessari per la fabbricazione di una candela profumata. Un tale intruglio, dunque, mescolo e rigiro, per ore ed ore, finché non si trasformi in una massa semi-solida che plasmo con le mani, nella forma di “due bastoni d’un asta forte, né troppo grossi, né troppo sottili, che sieno rotondi da capo a piè”. Quindi, nelle successive parole di uno strano linguaggio a metà tra il veneto e il toscano, li immergo nella liscivia, ed inizio energicamente a “strucarli”…
Sul finire del XIII secolo, l’arte europea stava andando incontro ad una serie di nuovi concetti, o in altri termini, Rivelazioni: che il sentimento più puro della fede non poteva prescindere dallo spirito d’osservazione del mondo reale, che la Natura stessa era magnifica, e meritava di esser parte della rappresentazione artificiale del Creato, che Cristo, la Madonna, i Santi e i personaggi della Bibbia erano state delle persone reali, e come tali rispondenti a delle precise caratteristiche anatomiche e proporzionali. E così con alle spalle l’Annunciazione di Leon Battista Alberti (1344) in cui il pavimento piastrellato sembrava tendere ad un’accenno del misterioso concetto di punto di fuga, Filippo Brunelleschi si applicava nei suoi primi esperimenti ottici, per dirimere la questione matematica del codice prospettico della pittura. Proprio a quest’ultimo sarebbe stato dedicato, nel futuro 1435, il testo di Leon Battista Alberti De Pictura, che includeva la prima trattazione geometrica della realtà in tre dimensioni. Ma ritornando a noi, ovvero ben prima di quel tomo fondamentale, forse non tutti sono a conoscenza della vicenda di un altro grande teorico ed autore letterario, Cennino di Andrea Cennini nato a Colle Val d’Elsa, in provincia di Firenze, che scrivendo in volgare con 35 anni d’anticipo ebbe a compilare il suo grande Tomo dell’Arte, una trattazione, estremamente metodologica se non proprio scientifica, di quanto doveva conoscere un artista per potersi dire veramente preparato sulle tecniche della rappresentazione grafica sul volgere delle Ere. Il suo libro, rimasto il punto di riferimento per generazioni di apprendisti e maestri di bottega, costituiva un completo catalogo di approcci alla tecnica del disegno, alla preparazione de pennelli, le tecniche dell’affresco, la decorazione, persino il conio delle monete. Ma il più grande spazio, nei capitoli tra il 35 e il 62, viene dedicato alle tecniche per la preparazione e l’uso del colore. Va assolutamente preso in considerazione, quando si pensa alla pittura di quest’epoca, come ogni singola tonalità impiegata nelle opere che sono giunte sino a noi avesse una provenienza radicalmente differente, frutto di anni ed anni di sperimentazioni provenienti dai luoghi e dalle epoche più diverse. C’era il rosso vermiglione, frutto dall’alchemica mescolanza tra lo zolfo ed il mercurio, secondo un metodo tramandato dagli antichi romani. C’era il viola purpureo, che i bizantini estraevano tritando centinaia e migliaia di molluschi gasteropodi della famiglia dei Muricidi, sacrificati con trasporto per raggiungere la perfezione nel mondo dell’arte. Dall’India esisteva un giallo particolarmente intenso, tratto dall’urina concentrata dei bovini; e quante leggiadre aureole, quanti aloni angelici di apparizioni sacre, furono il frutto di un tale fluido prosaico proveniente da vesciche d’animali!
Ma sopra tutti questi c’era un singolo colore, straordinariamente intenso ed impossibile da riprodurre con approcci alternativi, che veniva considerato addirittura più prezioso della foglia d’oro: il quale proveniva unicamente da una singola miniera nel Badakhshan, nell’odierno Afghanistan nord-orientale e per questo veniva chiamato blu d’oltremare. Era a Sar-i Sang, nelle profonde viscere della Terra, dove uomini senza più speranza battevano con forza gli scuri picconi, alla ricerca di una pietra composta fino al 40% di lazurite, l’unica sostanza minerale ad essere naturalmente simile all’azzurro cielo. Il suo nome: lapislazzuli, dalla parola persiana lājavard, riferita al luogo della sua estrazione. La cui importanza, non venne mai sottovalutata. Fin dall’epoca del Neolitco, infatti, furono fatti tentativi d’impiegarla nell’arte, con stuoli di mercanti che facevano a gara per esportarla in tutti i più remoti recessi del Mediterraneo. Tanto che i più antichi manufatti giunti sino a noi a farne uso, si annoverano oggetti risalenti al primo e secondo millennio a.C, tra cui le statue dei templi di Ishtar in Mesopotamia ed alcune maschere funerarie dei faraoni egizi. La pratica tradizionale dell’impiego di questa pietra per la creazione dei pigmenti prevedeva la sua triturazione mediante l’impiego di un pestello, quindi l’applicazione diretta a seguito dell’aggiunta di semplice acqua fluidificatrice. Ma in tale rudimentale modo, tutto ciò che gli antichi potevano ottenere era una tinta tendente al grigio, priva dello splendore intrinseco della parte “viva” della pietra, quel blu impareggiabile ma necessariamente condizionato dalle impurità. E così continuò ad essere, finché non giunse sulla scena Cennino Cennini, con il suo metodo semplicemente privo di precedenti.

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Come costruirsi un ventilatore senza pale della Dyson

Ventilatore senza elica

L’hanno vista transitare sul suo carro in legno zebrato, oltre l’alba che non sembra ancora sopraggiungere nell’ora naturale. Ne discutono gli uccelli coi calzoni dell’Adidas, ormai in ritardo nelle migrazioni a Oriente, causa una mancanza di chiarezza nella situazione climatica e dei flussi d’aria transcontinentali. Lo dicono gli altoparlanti bluetooth nella strade, collegati senza fili al consenso delle circostanze del momento: “L’Estate, l’Estate sta arrivando” Non il meta-lupo di Bran (così si chiamava, per chi non se lo ricordasse) adottato assieme ai suoi piccoli fratelli pelosi dagli Stark, poco prima della serie di vicende che li avrebbero spazzati tutti quanti ai quattro venti. Ma una vera ed ormai leggendaria stagione, durante la quale i coni gelati si squagliano più rapidi dell’accensione del Pinguino, il climatizzatore. Che assai probabilmente, questa volta, neanche avrà venduto il previsto! Arrivederci business plan! E ti credo! Perché mai spendere, quando a fine luglio ancora si esce in moto con la giacca, e il vento batte la sua furia contro le finestre delle nostre case, miracolosamente libere dall’afa… Così non siamo neanche, a dire il vero, preparati. Nel momento in cui finalmente i 22,5/24,5 gradi d’inclinazione che caratterizzano l’asse terrestre avranno esposto sufficientemente lo Stivale, persino in questi tempi di profonda irregolarità climatica, l’Italia piomberà di nuovo nell’atroce e più vera crisi dei nostri tempi: il caldo, caldissimo, l’ustionante pesantezza delle circostanze. Sarà opportuno, dunque, premunirsi. E come, se non impiegando l’arma più diretta e semplice conto l’arsura, il “dispositivo di raffreddamento personale”, come lo chiamano nel marketing, che piuttosto che raffreddare l’intera stanza, si occupa semplicemente di spostare e raffreddare l’aria, per spedirla contro il proprietario a gran velocità… In maniera…Poco fantasiosa, eppure è vero, assai soddisfacente. A meno… D’impiegare uno di quei nuovi attrezzi stravaganti e costosi, che sembrano generare un tale flusso dal uno spazio totalmente vuoto, al centro di un anello basculante collegato alla corrente. Vi siete mai chiesti quale sia il principio di un ventilatore-senza-pale? E soprattutto, quanto sia effettivamente difficile da riprodurre il suo principio? Qualora non l’aveste fatto (davvero?) accorre in vostro aiuto Rulof Fai da Te, il popolare YouTuber italiano che della sua creatività, ed abilità manuale, ha fatto un marchio di fabbrica valido a concedergli ormai oltre i 400.000 iscritti.
Rulof, che è un tipo simpatico e alla mano, non si perde affatto in chiacchiere, ed inizia subito ad implementare la sua idea. In primo luogo, elenca quello che ci serve per seguirlo nell’impresa: una boccia trasparente d’acqua, del tipo in uso nei distributori degli uffici, e un vaso da fiori in plastica, della precisa dimensione necessaria ad incastrarsi nell’altro oggetto. Possibilmente, dalla vaga forma conica che vada ad allargarsi nella parte superiore, per dirigere ancor meglio l’aria. Con un piccolo frullino, quindi, egli inizia a togliere la base ed il collo superiore del contenitore per i liquidi, ottenendo un perfetto cilindro di plastica trasparente. Anche il vaso, quindi, subirà un simile trattamento, vedendosi privato della sua chiusura inferiore, fino all’ottenimento di un secondo solido più piccolo, anch’esso aperto da entrambi i lati ma, cosa fondamentale, leggermente più corto del primo, di una misura di qualche centimetro appena. Ciò perché i due elementi, secondo quanto illustrato dal tutorial, verranno a questo punto entrambi chiusi da un lato, tramite l’applicazione a mezzo colla di una lastra di plexiglass tagliata con la forma di una ciambella. Ad essa sarà quindi applicato un piccolo ed alto anello di plastica, possibilmente ricavato dalla stessa bottiglia dell’acqua, che formi una sorta d’intercapedine con la parete del vaso, rivolta rigorosamente verso l’utilizzatore del dispositivo. Permettendo quindi all’aria di essere lanciata, in linea quanto meno teorica, dallo spazio chiuso a quello antistante, rinfrescando chiunque si sia messo innanzi a un simile apparato. Già, ma l’aria prelevata da DOVE? È proprio a questo punto, che inizia la parte veramente interessante…

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