Dighe: due passi nello scarico più suggestivo d’Inghilterra

Così ci è offerta l’occasione di conoscere Patrick Dickinson, esploratore urbano ed escursionista delle isole britanniche, mentre si affaccia dall’insolita balconata, simile a quella di un castello inesistente, posta a sorvegliare una delle due voragini a gradoni sul confine estremo di un grande lago, appartenente alla categoria architettonica degli stramazzi a campana. Poco prima che, dopo aver mandato la sua videocamera a indagare tramite l’impiego di una prudente canna da pesca, si diriga all’altro capo di quel foro che si piega in diagonale 25 metri più in basso, diventando infine un tunnel a due uscite reso scivoloso dal passaggio reiterato quanto occasionale delle migliaia di tonnellate d’acqua soprastante, come ultima misura preventiva nei confronti di un’eventuale tracimazione. In questo luogo dalle proporzioni totalmente inumane, dove il suono della voce rimbalza più volte riecheggiando tra le solide pareti del bivio simile alla prua di una nave, la sua esposizione si trasforma nell’ultimo appiglio alle nostre certezze acquisite, come tanto spesso avviene in luoghi che appartengono ad un’altro tempo e stato pragmatico dell’esistenza umana.
È un luogo ricco di testimonianze, l’erbosa valle dell’Upper Derwent nel Derbyshire, situata a poca distanza da Manchester, nel centro esatto d’Inghilterra. Luoghi come il cerchio preistorico di Hordron, composto da 11 pesanti macigni trasportati fin qui da qualche antica eppure non dimenticata civiltà. O la pietra miliare a forma di T che contrassegnava l’incrocio di una strada romana, recante chiare indicazioni verso le quattro destinazioni di Edale, Glossop, Hope e Sheffield. Per non parlare delle mura derelitte della vecchia fattoria abbandonata di Elmin Pitts, risalente assai probabilmente al XVIII secolo, quasi del tutto ricoperte dal muschio e dai rampicanti del vicino sottobosco. Ma forse i reperti maggiormente memorabili, per la maniera in cui compaiono in estate pronti a ritornare nell’oblio all’arrivo delle prime piogge, sono le rovine dei due villaggi di Ashopton e Derwent, affioranti tra l’acqua di uno dei più vasti bacini idrici del paese. Ladybower è il suo appellativo, dal cognome di un’abbiente famiglia di investitori agricoli nota praticamente a tutti da queste parti al volgere del secolo scorso. Più o meno quando, secondo il Comitato Speciale per l’Approvvigionamento Idrico istituito nel 1899 con un Atto del Parlamento, venne decretato che al quantità d’acqua naturalmente presente nella regione non era più sufficiente a supportare la rapida urbanizzazione dei dintorni. Ragione per cui ebbe inizio, a spron battuto, la messa in opera di non uno bensì tre laghi addizionali, tramite l’innalzamento di argini e la costruzione di altrettante dighe di muratura. Si trattava di un sistema topograficamente in grado di ricordare vagamente la lettera Y, con i due bacini a monte di Howden e Derwent già completi entro il 1916 mentre la costruzione terzo, più logisticamente complesso anche a causa del nucleo di terra argillosa e per l’impatto maggiore sul territorio, si sarebbe protratta fino agli anni ’40 e per l’intera durata della seconda guerra mondiale. Un’epoca in cui, per ovvie ragioni, i fondi scarseggiavano e l’impresa subì un’ulteriore serie di ritardi, mentre gli altri due laghi già ultimati venivano impeigati come ausilio per l’addestramento degli equipaggi dei bombardieri coinvolti nella rocambolesca operazione Chastise, per la distruzione della vitale diga nella valle di Ruhr in Germania. Finché il 25 settembre del 1945, al cospetto di re Giorgio VI e di sua figlia Elisabetta, l’impegnativa opera pubblica non venne finalmente inaugurata, tra le prevedibili quanto condivisibili proteste di una parte della popolazione locale. Dopo tutto, non fa mai piacere ricevere una nota del governo, in cui si fa presente che nel giro di alcuni mesi, la nostra casa sarà utilizzabile soltanto da pesci, granchi e altre creature dei fondali. E nessun compenso monetario può giustificare la perdita delle proprie radici…

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Lo spettacolo alieno di una scavatrice ragno

Nella sequenza culmine di una buona parte della cinematografia di genere catastrofista-fantascientifico, si assiste spesso al trionfo della professionalità acquisita: come in Armageddon di Michael Bay, che finisce per diventare un elogio del mestiere dei trivellatori petroliferi, o nella vicenda del pilota di caccia statunitensi Will Smith in Indipendence Day, che si dimostra perfettamente capace d’impugnare i controlli di un velivolo spaziale nel momento della suprema verità. Se pensiamo invece al più recente Pacific Rim d’altra parte, coi suoi robot giganti che affrontano la rielaborazione hollywoodiana dei kaiju (mostri giganti) provenienti dal Giappone, possiamo chiaramente ricordare le difficoltà incontrate dal protagonista e gli altri personaggi nel far muovere tali campioni ingegneristici del pianeta Terra.
Questo perché, per loro massima quanto evidente sfortuna, il regista Del Toro non ha pensato a includere nella storia il singolo mestiere moderno che richieda l’interfaccia più simile a quella di un meccanismo antropomorfo gigante: sto parlando, tanto per essere chiari, di coloro che si allenano ogni giorno nel mettere a frutto lo strumento di una Spinnenbagger (trad. italiana: scavatrice ragno). Quel tipo di dispositivo svizzero per definizione, o veicolo che dir si voglia, che una volta giunto sul posto in cui fare l’impiego della sua benna mobile, piuttosto che aspettare di essere scaricato dal camion di trasporto estende le “zampe” anteriori fino terra, mentre le altre vengono impiegate per spingere il grosso del suo peso fuori dal cassone di metallo. E che dinnanzi a un ripido pendio, invece che sfruttare la comune rotazione dei quattro pneumatici motorizzati, ne solleva un paio agevolmente per posizionarli un po’ più in alto, mentre si mantiene in equilibrio con il lungo braccio, quindi fa lo stesso con il retrotreno, avendo cura di allargare gli arti al fine di abbassare il proprio baricentro. Chiunque dovesse trovarsi ai comandi di una tipica Menzi Muck ad esempio, mezzo appartenente alla serie più famosa nel mercato di settore internazionale, esattamente come il personaggio folkloristico tedesco da cui prende il nome (il piccolo Muck) non si lascerà scoraggiare da alcun tipo di pendenza, voragine, pendio o ostacolo di altra natura, ben sapendo che una giusta combinazione di comandi impartiti attraverso la nutrita collezione di leve, pulsanti e joystick presenti nel suo abitacolo, può arrivare a dirimere qualsiasi tipo di questione.
Per quanto concerne l’origine remota di questi letterali fulmini del cantiere, d’altra parte, non possiamo fare a meno d’individuare un altro luogo comune derivante in via diretta dal mondo del fantastico: quello secondo cui i due principali rivali, o per meglio dire dopo il loro decesso in tarda età le aziende che hanno rispettivamente fondato negli anni ’60, erano un tempo amici e collaboratori, resi concorrenti dalla rispettiva visione sulla strada da intraprendere a partire dalla loro epocale collaborazione. Sto parlando di Edwin Ernst Menzi (1897-1984) e Joseph Kaiser (1928-1993) che secondo quanto riportato nel libro commemorativo del 2015 “Cento anni d’innovazione. Cento anni di KAISER” s’incontrarono per l’esigenza del secondo di un terreno presso la città svizzera di Widnau dove mettere alla prova la sua personale visione per un nuovo tipo di scavatrice, finendo quindi per collaborare ma soltanto nel perfezionarne i più minuti e secondari dettagli. Mentre per quanto riguarda l’altro lato della barricata, benché manchi un tipo di comunicazione aziendale storica altrettanto approfondita, si riesce a desumere dal boilerplate Menzi un’attribuzione non meno esclusiva al proprio fondatore dei meriti di partenza. Espletati tramite la dimostrazione al pubblico in svariate fiere della MUK 2000 (Menzi Und Kaiser) nel 1965, il primo mezzo semovente fornito di quattro zampe, benché il suo livello di comfort e praticità d’impiego venga oggi descritto come paragonabile “a quello di una cabina telefonica”. Ovviamente, c’è sempre spazio per migliorare.

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Uomo inventa il più potente forno solare della Thailandia

Ogni giorno quel dannato autobus passava all’incrocio Kloom Sakae di Nong Sano, nella provincia di Phetchaburi. Dove Sila Sutharat, ormai da un lungo periodo di 20 anni, gestiva il più rinomato e amato chiosco locale per la vendita di polli cotti alla brace. Un mestiere sereno e onesto, per la maggior parte del tempo… Escluso l’attimo cruciale e reiterato, verso metà mattina, in cui il riflesso direzionato dal parabrezza del mezzo infernale si configurava nella maniera perfetta per incrociare la direzione naturale del suo sguardo, causandogli uno spiacevole quanto persistente senso di accecamento. In un primo esteso periodo, il cuoco di strada aveva tentato di evitare una simile esperienza, spostandosi in maniera preventiva per offrire la sua schiena al punto d’origine del problema. Ma ogni giorno l’autobus passava in un orario leggermente differente, ragione per cui egli finiva, sistematicamente, per lavorare in una posizione scomoda per dei periodi sempre più estesi, finendo per restare lo stesso colpito in un’ampia varietà di occasioni. Cento, mille volte dovette limitarsi a sfogare la propria frustrazione con imprecazioni sommesse o semplicemente immaginate, al fine di non disturbare i suoi clienti. Finché ad un certo punto, da questo Purgatorio delle cose semplici non ebbe l’occasione di formarsi un’idea: “E se io trovassi il modo di trasformare questa mia vulnerabilità in un punto di forza?” Come un lottatore di judo, che veicola la spinta del suo avversario in una presa da cui è impossibile fuggire; come Highlander, che decapita il nemico immortale perché “Dovrà restarne soltanto uno”; come Mega-Man, che assorbe il power-up lasciato dal potente boss al termine di un livello.
Con la ragionevole ed altrettanto pragmatica distinzione, tipica del mondo materiale, per cui l’espressione di una tale iniziativa tende a svolgersi dall’interno verso l’esterno, piuttosto che il contrario. Così lui, zaino in spalla, dev’essersi probabilmente recato presso un fornitore locale di cornici a giorno. E poi un vetraio, o forse essersi procurato presso qualche fabbrica delle grandi lastre a specchio, da tagliare con cautela in tanti pezzettini rettangolari. Unendo quindi le due cose, le ha montate su una complessa struttura di metallo parabolica non dissimile da quella usata in svariate possibili opere d’arte moderne. E sarebbe stato perdonato un qualsivoglia passante che, conoscendo il dramma quotidiano di quest’uomo sereno e onesto, avesse pensato che qualcosa di sinistro fosse scattato in lui, per costruire la più fedele corrispondenza asiatica del leggendario specchio ustore di Archimede usato durante l’assedio di Siracusa per bruciare le navi dei Romani (212 a.C.) e indossare una maschera da saldatore per proteggersi gli occhi da tutta la sua potenza spropositata. E pensa che efficacia avrebbe avuto quel riflettore, contro l’inconsapevole, incolpevole rappresentante del trasporto pubblico urbano! Se non che verso l’orario della presunta resa dei conti, con il Sole già ben alto in cielo, piuttosto che puntare l’arma impropria contro la strada Sutharat la orienta attentamente verso il punto che era stato, fin dall’inizio, al centro dei suoi pensieri: la griglia con il pollo da servire ai suoi clienti. Senza fuoco, senza inganno, poco alla volta la genialità del suo progetto appare più che mai evidente. Mentre un sottile fil di fumo, appena tratteggiato in questo giorno senza vento, inizia a sollevarsi dalla coscia di volatile succosa e palesemente cruda. Si ma ancora per QUANTO, sotto la possenza di un raggio artificiale capace di raggiungere superare abbondantemente i 300 gradi?

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La nave più affilata nella storia della marina militare inglese

Volendo stilare un’ipotetica graduatoria degli uomini più influenti in uno specifico momento storico, sarebbe impossibile non porre in prima posizione colui che possiede la capacità d’influenzare e dirigere i flussi di forza. Ovvero lo spostamento, attraverso l’aere e lo spazio, degli atomi instradati attraverso il percorso della sua incrollabile volontà. Ed era il 26 giugno del 1897 quando, durante la sfilata della marina per il giubileo di diamante della regina, il conte irlandese del castello di Birr, Charles Algernon Parsons, sarebbe diventato quest’uomo, dinnanzi ad alcune delle figure più importanti della sua epoca e niente meno che il principe del Galles, colui che sarebbe salito al trono d’Inghilterra come Edoardo VII nel giro di appena sei anni. Figlio ed erede della monumentale monarca Vittoria, colei che aveva visto e determinato la crescita del più vasto Impero, nonché uomo di marina dalla notevole esperienza. Il quale tuttavia non avrebbe potuto far nulla, dinnanzi alla spropositata arroganza del suo contemporaneo.
Tutto ebbe inizio in un lampo di luce di una ciminiera incandescente, tra gli spruzzi del mare oltre la costa di Spithead nella contea dello Hampshire, dove storicamente si erano sempre tenuti simili eventi di rappresentanza: effetti prodotti dal riflesso ed il rapido movimento dello yacht privato, sottile come una spada da samurai, costruito e pilotato dal capitano Christopher J. Leyland, in qualità di proof-of-concept per un nuovo metodo finalizzato a trasformare l’energia del calore in navigazione. Turbinia era il termine scelto da Parsons stesso, di nome e di fatto. Così come sarebbe stato particolarmente evidente per chiunque avesse potuto scrutare, con occhi indagatori, all’interno della sua sala macchine sferragliante. Dove non v’era traccia residua, di nessun tipo, del sistema tradizionale della macchina a vapore e in effetti neppure l’ombra di un pistone. Entrambi sostituiti da un approccio decisamente più semplice ed elegante: l’elemento girevole ed aerodinamico, replicato tre volte e direttamente collegato a un’impressionante serie d’eliche, con un’efficienza energetica assolutamente invidiabile (per l’epoca) di circa il 10-15%. Ciò che tuttavia ebbero modo di vedere, e in qualche modo metabolizzare, i nobili e il futuro re assiepati sugli spalti sabbiosi antistanti, sarebbe stata l’impressionante velocità di 34 nodi (63,4 Km/h) raggiunta dal natante, abbastanza da girare letteralmente attorno ad alcune delle più possenti navi militari della sua epoca, gettando copiosi spruzzi sul ponte dagli equipaggi increduli e incapaci di fermarla. Viene in effetti narrato, a proposito di questo attimo leggendario, che alcuni dei marinai incaricati avessero tentato di puntare i cannoni all’indirizzo dell’intruso non identificato e in attesa dell’ordine di far fuoco, senza tuttavia riuscire a inquadrarlo nei propri mirini. Talmente elevata era, in parole povere, la velocità del Turbinia.
Si trattò di un rischio attentamente calcolato, dalle chiare finalità pubblicitarie “d’assalto”, nonché la risultanza di molti anni di lavoro da parte del suo inventore, colui che avendo intrapreso una carriera ingegneristica nel nuovo campo della generazione elettrica, avrebbe invece finito per rivoluzionare il sistema di propulsione per eccellenza del mondo militare. Perciò prima di spostarci in avanti nella nostra cronologia, vediamo almeno per un attimo di considerare da dove, ed in che maniera, fosse giunto alla ribalta questo impressionante bolide dei britannici flutti…

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