Il vecchio sistema dei vagoni sganciati al volo dai treni che non rallentavano in stazione

In una scena spesso ripetuta verso la seconda metà del XIX secolo, ma non meno eccezionale a causa di ciò, gli operatori dei primi convogli in uso presso la Grand Station di New York dovevano fare i conti con un singolare problema: la maniera in cui giungendo attraverso il tunnel di Park Avenue, lo spazio di deposito non disponesse di una quantità e varietà sufficiente di piattaforme rotative per gestire logisticamente la situazione. Ragion per cui all’avvicinarsi del punto di sosta designato, il macchinista accelerava, invece di frenare, mentre un addetto con il ghiaccio delle vene si sporgeva fuori dalla locomotiva, con in mano il lungo palo usato per sganciare la carrozza successiva e assieme ad essa, l’intera parte rimanente del treno. All’udire del segnale concordato, quindi, quest’ultimo si prodigava nel disattivare il gancio pneumatico in maniera rapida ed inesorabile, mentre la singola motrice distaccava l’intero complesso dei vagoni che facevano parte del suo stesso bastimento. Ecco che il personale in stazione, vedendola passare, attivava quindi quello che localmente veniva chiamato uno “scambio al volo” (flying switch) al fine di lasciar procedere per inerzia la coda del dragone presso l’area designata, presso cui un secondo macchinista avrebbe provveduto ad attivare l’impianto frenante in modo totalmente autonomo ed attentamente calibrato. Semplice, funzionale. Mortalmente pericoloso. Eppure mai una volta, per i molti anni in cui venne impiegato un simile sistema, si sarebbe verificato un incidente, in tale versione statunitense di un’ormai ben collaudata procedura, usata da almeno una decade all’altro lato dell’Atlantico, nel paese in cui la ferrovia era stata elevata al rango di arte tecnologica al servizio dell’intera popolazione. Sto parlando chiaramente della Gran Bretagna e della vicina Irlanda, entro cui i confini, a quanto narrano le cronache, i passeggeri dovettero riuscire a razionalizzare un particolare stile di viaggio. Quello effettuato all’interno di una cosiddetta slip coach o carrozza [lasciata] scivolare via, secondo un copione che non diventava più tranquillizzante ad ogni successiva esecuzione funzionale. Mediante cui di solito non tutto il treno, come nel caso newyorchese e successivo, bensì determinate sezioni di esso, venivano sganciate al raggiungimento di stazioni minori, permettendo ai loro occupanti di scendere senza per questo rallentare la corsa dei loro compagni di strada ferrata. Un approccio indubbiamente intrigante fondato sulla natura modulare di questa intera classe di veicoli, sebbene le complesse implicazioni organizzative, tecnologiche e psicologiche avrebbero progressivamente reso desueta una tale pratica. Che del resto non avrebbe mai preso piede fuori dai paesi anglosassoni, fatta eccezione per alcuni isolati esempi in Francia ed Olanda. Mentre osservando a posteriori la faccenda, non sarebbe stato possibile dubitare in alcun modo che in quel preciso momento storico, entro quel determinato luogo geografico, l’abbandono intenzionale dei vagoni rappresentasse l’onda del futuro ferroviario nell’opinione di molti, soprattutto coloro che ebbero il potere, e la capacità, di propagare gli specifici passaggi necessari a compiere correttamente la manovra.
C’è d’altra parte un significativo potere nell’inerzia, come ampiamente dimostrabile dalle leggi fisiche della conservazione del momento angolare e dell’energia, che un controllore di qualsiasi meccanismo deve necessariamente dissipare, per ciascuna attivazione di un qualsivoglia tipo d’impianto o dispositivo frenante. Ragion per cui, quale sarebbe la ragione per operare in tal senso verso l’intera collettività coinvolta, piuttosto che coloro, fra tutti, che hanno effettivamente raggiunto la propria destinazione finale? Qualcosa di simile dovette passare per la mente, anche senza tale serie testuale di parole, degli operatori addetti alla tratta tra Deptford e Spa Road, che nell’ancor più remoto 1836 misero in atto per primi l’approccio all’immagazzinamento già descritto in apertura presso il terminal americano ad oltre un lustro di distanza. Ma il primo esempio nazionale di carrozza passeggeri volutamente sganciata presso una stazione si sarebbe verificata nel 1858, quando la London, Brighton and South Coast Railway (LB&SCR) decise di essersi stancata, ragionevolmente, di far sosta per un numero estremamente ridotto di passeggeri presso la stazione di Haywards Heath, nella parte ovest del Sussex. Nondimeno intenzionata a mantenere attivo tale punto di sosta, decise perciò d’implementare un metodo per cui soltanto i diretti interessati, quando presenti a bordo, si fermassero presso quel particolare punto d’arrivo.

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L’uovo francese creato per anticipare le city car elettriche di 5 decadi e una balena

Nel museo Città dell’Automobile di Mulhouse, nell’Alsazia francese, si trova esposta una vettura tanto insolita che addirittura in un salone pieno di Bugatti di gran pregio, si è più volte dimostrata in grado di catalizzare l’attenzione dei visitatori. Lunga poco più di due metri e larga uno e mezzo, appena sufficienti a contenere il sedile del conduttore più quello di un singolo passeggero, il veicolo appare costruito primariamente in due materiali: un guscio bombato di metallo nella parte posteriore, e la grande bolla di plexiglass, priva di pilastri o altri elementi in grado di ridurre la visibilità stradale, concepita come interfaccia tra i due occupanti e l’universo scorrevole della città di Parigi. Concettualmente non dissimile da una macchina contemporanea come una Renault Twizy, Citroen Ami o la recente Smart versione EQ, in forza di un motore elettrico capace di farle raggiungere agevolmente i 70 Km orari, lo strano veicolo non manca mai di stupire per la targhetta di accompagnamento che evidenzia l’anno di produzione. Ovvero il 1942, all’apice non solo dei drammatici eventi della seconda guerra mondiale, ma dell’occupazione militare della Francia stessa ad opera delle forze militari tedesche. O forse sarebbe più opportuno dire “costruita” per l’iniziativa e l’opera di un singolo brillante progettista, destinato a diventare celebre nel suo paese di appartenenza grazie ai molti contributi dati al mondo dei trasporti stradali, ferroviari ed aerei. Tuttavia non sono molti, sfortunatamente, a conoscere in Europa l’opera di Paul Jean Arzens, vissuto tra il 1903 e il 1990, autore tra le altre cose del caratteristico aspetto di molte locomotive francesi della Alsthom ed SNCF tra gli anni ’60 e ’70, riconoscibili per la caratteristica parte frontale a nez cassés (letteralmente: naso rotto) con il profilo simile a quello di una lettera “Z” o nell’idea del suo creatore formatosi alla Scuola delle Belle Arti di Parigi, un corridore pronto ai blocchi di partenza di Olimpiadi ormai lontane. Con una passione per le soluzioni estetiche d’ispirazione naturalistica, o per usare un termine maggiormente specifico “bionica” che si riflette a pieno titolo nelle sue creazioni giovanili appartenenti al mondo dell’automobilismo fuoriserie, visto come nessuna casa automobilistica fosse effettivamente destinata, nel corso della sua lunga carriera, ad approvare la produzione in serie per una delle sue intriganti soluzioni veicolari. Un solo esemplare sarebbe stato messo al mondo, quindi, dell’appropriatamente denominato Œuf (uovo) électrique, così come della sua creazione antecedente ed altrettanto notevole della Baleine del 1938 (la Balena) un’impressionante roadster a due posti, se così possiamo ancora azzardarci a definirla, della lunghezza 7 metri e il peso complessivo tutto sommato contenuto di 1099 Kg, grazie a un copioso impiego di alluminio, per cui l’autore si era ispirato direttamente e dichiaratamente al mondo allora avveniristico dell’aviazione. Un veicolo dall’aspetto tanto distintivo da essere comparsa in almeno due fumetti francesi, la Menace diabolique del 1979 e l’eterno Spirou, in un recente album pubblicato successivamente agli anni 2010, con la sua linea dal riconoscibile stile Art Déco e la griglia frontale del radiatore in grado di alludere ai fanoni del più grande animale oceanico della Terra, con all’interno nascosta la forma normalmente invisibile dei fari. Una visione certamente in grado di stupire e sconvolgere chiunque la dovesse scorgere in arrivo nei propri specchietti retrovisori, ma concettualmente del tutto all’opposto del più famoso “Uovo” nato in un contesto d’utilizzo certamente diverso, risultando perfettamente complementare a tale Batmobile d’anteguerra. Non a caso, il costruttore di entrambe, partendo dal suo celebre studio col soffitto totalmente trasparente in rue de Vaugirard, avrebbe continuato a farne un frequente uso stradale fino alla veneranda età di 87 anni…

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L’interessante storia della scala più lunga dell’Atlantico Meridionale

Genesis 28:10-22: Giacobbe partì da Beer-Sceba e andò verso Caran. Giunse ad un certo luogo e vi passò la notte, perché il sole era già tramontato. Prese una delle pietre del luogo, se la mise per capezzale e lì si coricò. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima toccava il cielo; e gli angeli di Dio salivano e scendevano per la scala. Il Signore stava al di sopra di essa e gli disse: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio d’Isacco. La terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua discendenza.” Storie della Bibbia, storie degli uomini a contatto con le strane meraviglie del Creato, luoghi assurdi come un’isola nel mezzo dell’oceano, a 1950 Km dalle coste dell’Africa ed oltre un giorno di navigazione dall’insediamento emerso più vicino. Uno dei luoghi maggiormente solitari della Terra, scelta non a caso come luogo d’esilio per la figura spropositata di Napoleone. Ma molti anni prima di questo, comparsa sui diari di diversi viaggiatori per la copiosa quantità d’acqua non salata da sfruttare, tra cui il galiziano João da Nova (1502) e gli altri portoghesi Estêvão da Gama (1503) e Francisco de Almeida (1505) che ne fecero un promettente punto d’approdo, durante l’ardua traversata per congiungere due continenti. Il terzo dei quali scelse di attribuire a questo luogo, indiretta conseguenza di antichissime eruzioni vulcaniche di una montagna ormai sopita da tempo, il nome della santa Flavia Giulia Elena, imperatrice di Costantinopoli dal 324 al 329 d.C. Nella cui memoria, qui venne fondata una cappella, e alcuni marinai negli anni successivi scelsero di stabilire il villaggio di Jamestown. Con al crescita dei commerci durante l’epoca delle Grandi Esplorazioni, l’isola di Sant’Elena diventò quindi abbastanza importante da costituire un porto sicuro per svariati bastimenti olandesi, spagnoli e portoghesi. Ma sarebbe stato solamente il generale inglese in grado di mettere a morte Re Carlo I, Oliver Cromwell, a decretare questo luogo parte del dominio della sua nazione, includendolo nei territori d’Oltremare sotto il comando della Compagnia delle Indie Orientali. Così mentre la popolazione dell’isola cresceva, fino a 1.110 persone inclusi gli schiavi nel nel 1730, l’insenatura dove aveva luogo il principale punto portuale vedeva aumentare anche le bocche dei propri cannoni, posti sulla cima di quella che sarebbe diventata, nella toponomastica locale, assai appropriatamente Fort Hill. Ora, nessuna grande battaglia venne mai combattuta, per il predominio di queste pur fertili vallate circondate dall’oceano, neanche successivamente al trasporto fino a questo luogo dell’Imperatore deposto di Francia nel 1815, che qui avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua vita. Fatta eccezione per quella quotidiana, combattuta duramente dalle ormai svariate migliaia di abitanti, di mantenere appropriatamente rifornito il piccolo villaggio sorto attorno al forte collinare, completo di campi coltivati con l’essenziale necessità di essere occasionalmente sottoposti a concimazione. Ed alla reiterata questione, dal tenore assai notevole, di come trasportare efficientemente copiose quantità di letame sulla cima di una parete scoscesa alta 195 metri, chi poteva rispondere se non l’ingegnere J. W. Hoar… Il quale attorno al 1829, avendo attentamente disegnato i piani, vide realizzare ai margini della città ciò per cui il mondo avrebbe finito per ricordarlo a tempo indeterminato: una serie di due binari paralleli. Utili a tirare rispettivamente verso l’alto, e lasciar scendere nel senso inverso, altrettanti vagoni su ruote, carichi di tutto il necessario a mantenere operativa la struttura difensiva sulla cima del promontorio… Anche grazie all’opera instancabile di una squadra di muli collegati a un’argano di grandi dimensioni. Nel centro esatto di quel meccanismo, chiamato per l’appunto il Piano Inclinato (Inclined Plane) trovava quindi posto una lunga gradinata di servizio dall’inclinazione superiore ai 20 gradi, in onore della quale l’intero luogo fu ribattezzato da quel momento la Collina della Scala (Ladder Hill). E la stessa struttura di quest’ultima, con un’inaspettato colpo di scena, il percorso angelico citato nella Bibbia e attribuito al sogno di Giacobbe d’Israele: Jacob’s Ladder. Ma caso volle che i locali non avessero fatto i conti con qualcosa d’imponderabile: il volere ed il potere dei più famelici, e minuscoli, tra tutti coloro che condividevano le pur sempre limitate risorse a disposizione…

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Il grande miracolo vittoriano del primo tunnel scavato sotto il Tamigi

Rosica e scava; serpeggia, divora. Il più grande dei vermi teredo, mollusco che mangia le navi, venne ammansito all’inizio del XIX secolo a servire la brava gente della città di Londra. Non nella sua manifestazione biologica, bensì quella artificiale direttamente partorita dalla mente visionaria di un uomo, la cui collaborazione con la Royal Navy aveva già contribuito a semplificare e ridurre i costi nella produzione intensiva di carrucole navali. Stiamo qui parlando, dinnanzi al palcoscenico della storia, della vita e l’eredità di Marc Isambard Brunel, l’ingegnere fuggito dalla Francia nel 1793, dopo alcuni commenti inappropriati in merito alla figura di Robespierre e che ritroviamo esattamente 32 anni dopo, alle prese con un dei più significativi & sofferti problemi a quei tempi per la popolosa capitale del Regno Unito: come congiungere efficacemente, dai rispettivi lati del grande fiume, le nuove strutture portuali che avevano accompagnato la sua crescita industriale ed economica, senza inficiare la mobilità dei vascelli tramite la frapposizioni d’ingombranti sovrastrutture e ponti. Domanda implicita verso cui si era già provato a dare una risposta, quando nel 1803 l’imponente figura di Richard Trevithick, assieme ad un gruppo di minatori da lui reclutati in Cornovaglia, aveva fondato con le finanze messe da parte nella sua pregressa carriera di lottatore la compagnia Thames Archway Company, ricevendo il mandato cittadino allo scavo del più lungo, e difficoltoso, dei tunnel costruiti nel corso della storia umana (nonché il primo a passare sotto un fiume navigabile, fatta eccezione per quello babilonese soltanto teorizzato da parte degli archeologi, sotto l’ancestrale Eufrate). Per scoprire soltanto quanto fosse un ambiente chimicamente ostile, e pericolosamente friabile, quello attraverso cui la sua squadra aveva pensato di scavare un angusto pertugio da ampliare e murare successivamente, mentre pompavano via l’acqua fetida filtrante mediante l’impiego di una piccola macchina a vapore fatta procedere sui binari. Così che dopo appena 313 metri, e quattro anni di lavoro, la compagnia aveva terminato i soldi e l’idea fu necessariamente abbandonata. Passa il tempo ma non spariscono le necessità, così che l’erede più competente di un tale sogno, un bel giorno, avrebbe trovato un ingegnoso metodo per trovare salvezza dalla sua problematica situazione debitoria. Quando direttamente dal carcere in cui era stato confinato con tutta la famiglia causa una serie di pessime decisioni finanziarie, scrisse una lettera indirizzata all’Imperatore Alessandro I di Russia, in cui parlava di un rivoluzionario metodo per far passare un tunnel sotto il fiume Neva. Missiva immediatamente intercettata e fatta pervenire ad un gruppo d’intellettuali, architetti ed altre figure di spicco della politica londinese, che in breve tempo organizzarono una colletta per saldare le migliaia di sterline rimaste e far liberare questa personalità geniale, immediatamente assurta al ruolo di preziosa risorsa per l’Inghilterra. Fu una mera conseguenza di un tale risvolto, quindi, l’effettiva evocazione del verme, con la sua testa corazzata costruita in metallo, legno e quel tipo d’intraprendenza che permette ai saggi di strumentalizzare la natura.
Il miglioramento procedurale previsto da Brunel sarebbe consistito quindi nella scelta di un approccio allo scavo costruendo di pari passo il ponte, piuttosto che accennarne il passaggio e poi, soltanto in seguito, apporvi le strutture che avrebbero dovuto contribuire a renderlo permanente. Questione certamente più facile a dirsi e semplicemente impossibile fino alla sua proposta per il cosiddetto “scudo”. Una solida serie di 36 celle, ciascuna delle quali ospitante un singolo scavatore e facenti parte di un indivisibile muro, il cui graduale avanzamento su viti infinite avrebbe dovuto idealmente imitare quello della testa corazzata del mollusco bivalve tanto giustamente inviso ai marinai. E così fu, per gli anni a seguire, che furono molti più del previsto per un’ampia serie di ragioni. Non ultime la quantità d’interruzioni dovute ad incidenti, assenza di fondi e l’ampio ventaglio di significativi contrattempi che sempre accompagnano i maggiori risvolti del progresso umano…

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