La vera funzione del cocomero quadrato

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La città di Tokyo è, per citare Anthony Bourdain, celebre cuoco, scrittore e personaggio della Tv statunitense, quasi certamente uno dei luoghi più incredibili della Terra. Un concentrato iper-tecnologico di soluzioni avveniristiche e interi quartieri a tema, un labirinto imperscrutabile di sotto-culture, istituzioni semi-serie e d’intrattenimento, punti di svago e giochi di ruolo indistinguibili dalla realtà. Un ambiente vasto e diseguale in cui il proprio modo di comportarsi, relazionarsi con gli altri o vestirsi, può indicare il senso d’appartenenza a tribù trasversali che superano il senso delle tradizioni, per generare una storia pregressa che corre indietro fino all’epoca dei samurai. Avete mai bevuto il tè verde? E con bevuto, non intendo semplicemente acquistato, preparato e versato la bevanda nelle tazze, per poi condividerla coi vostri amici e conoscenti. Ma essersi seduti con le gambe incastrate nella difficile posa del seiza, ascoltando i suoni della natura, mentre il sibilo del vento accompagna il gorgoglìo di un’antica teiera. Ed ai margini dello sguardo, posizionato apparentemente per caso in un angolo, è presente un oggetto d’arte finalizzato ad agevolare lo stimolo del pensiero: una statuetta di Buddha, un rotolo calligrafico, un piccolo ed altrettanto perfetto bonsai; una scultura moderna, un modellino di Gundam, un enorme Pikachu di peluche. O se siete davvero fortunati, qualcosa di ancor più raro e meraviglioso…
Intendiamoci: l’impiego presunto ideale del cocomero-cubo, fin dalla sua genesi commerciale verso il princìpio degli anni ’80, è stato fin da subito di natura sociale. Esisteva in effetti da poco una catena di negozi con sede nella capitale, dal nome di Senbikiya, fondata sul concetto che visitando un amico, il miglior omiyage (regalo) a disposizione fosse un buon frutto, che egli potesse gustare pensando a noi, magari poco dopo il termine dell’incontro. E non c’era niente di meglio, a tal fine, che l’impiego di un dono che stupisse anche l’occhio, ben prima di solleticare il palato. Dovete anche considerare che il Giappone, rispetto alla media dei paesi con la sua stessa popolazione, ha un’estensione del suolo coltivabile piuttosto limitata, che non gli consente di far fronte al fabbisogno nazionale di frutta e verdura senza ricorrer alle importazioni. Ciò a portato, negli anni a partire dall’epoca industriale, alla costituzione di una particolare filiera che cerca, sopra ogni altra cosa, la qualità estrema. Il che, unito al prestigio che si può tutt’ora guadagnare portando al proprio capufficio o suocero la perfetta scatolina di uva, mele o pere, ha fatto lievitare non poco il costo medio di simili “doni” della natura. Ma persino questo non era nulla, al confronto degli estremi monetari raggiunti dal più esclusivo, meraviglioso e raro dei frutti prodotti all’interno dei confini di Nippon.
Esiste un qualche grado di dubbio, su chi effettivamente abbia avuto per primo l’idea, benché la produzione effettiva della geometrica delizia spetti unicamente all’azienda agricola di Toshiyuki Yamashita, fiero abitante della città di Zentsūji, nell’isola meridionale di Shikoku; ciò certifica, in effetti, lo stesso brevetto mostrato nel video dall’imprenditore stesso a John Daub, il titolare, l’ideatore e conduttore della serie per YouTube ONLY in Japan, parte del network divulgativo WAO-RYU. Wikipedia cita tuttavia, con tanto di link all’effettivo documento ufficiale, un’opera d’arte della designer Tomoyuki Ono risalente al 1978, cui fece seguito l’immediato brevetto presso l’ufficio preposto degli Stati Uniti. Pare infatti che fosse stata proprio lei, la prima a pensare d’introdurre il dolce frutto della Citrullus lanatus all’interno di un contenitore quadrato, lasciandolo attaccato alla pianta per permettere che, crescendo, assumesse la forma desiderata. Ma oggi in Giappone, il cocomero quadrato è direttamente connesso unicamente a questi luoghi, e procurarsene uno privo dell’adesivo che ne dimostri la chiara origine controllata, vanificherebbe essenzialmente il valore del gesto e dell’oggetto in se. Il quale, come esordisce John nella sua esposizione, risulta essere tutt’altro che indifferente: si va in media dai 100 ai 200 dollari, con alcuni esemplari reputati assolutamente perfetti (nella precisione della forma ed allineamento della livrea alternata) che possono agevolmente superare l’equivalente dei 500. Si tratta, dopo tutto, di una merce piuttosto rara. E meno deperibile di quanto si possa tendere a pensare…

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Come è possibile comprare per sbaglio una mucca?

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L’avete mai considerato? Il tipico battitore d’aste d’Oltreoceano non è come noi. Quando si trova sopra quel palco, impugnando il suo martelletto, egli si trasforma nella personificazione di…Qualcosa. Di grande. Chiamiamolo, se vogliamo, il potere delle vecchie istituzioni del commercio. Ascoltarlo mentre parla al ritmo di 250 parole al minuto, ripetendo sempre le stesse cose, e snocciola i suoi numeri: “Ho 100, chi offre 100 ed ¼. Cento, cento ed ¼, chi offre cento ed ½? Cento ed ½, cento ed ½…” Può trasportarti in un mondo del tutto diverso. In cui il denaro non ha valore, mentre a comandare è soltanto l’ipnosi del desiderio, quel sentimento che poeticamente prende il nome di Want.
L’inglese non è difficile, puoi persino combinarlo con l’italiano. “To tell” vuol dire narrare; “Vi” è  pronome personale di seconda persona plurale. Vogliate seguirmi, dunque, mentre vi-tello una storia. È la vicenda di un calf (vi-tello anche lui) che a luglio dell’anno scorso ebbe la dubbia fortuna di andare in Tv. Ma furono il modo, e la ragione di un tale evento, a caratterizzare l’intera questione. Perché l’animale fu messo in vendita all’asta, e quindi successivamente ricomprato, dalla stessa identica persona: John Elick, mandriano texano. per la sconclusionata mediazione di Bert detto “la Macchina” Kreischer, noto comico, attore e conduttore di reality show statunitense. Che in quel frangente era occupato, assieme ai suoi due migliori amici, nella realizzazione della nuova puntata di Trip Flip, un programma che l’ha portato un po’ ovunque, dallo Utah al Sud Africa, dall’Alabama alla Tanzania. E poi naturalmente lì, nello stato de “il Gigante” (una regione, per l’appunto, gigante) ovvero il Texas del grande Sud, dove ogni aspetto del commercio guadagna riflessi cromatici differenti, e costringe chi viene da fuori a fare una grande, assoluta attenzione. Ora naturalmente, come in tutti gli show realizzati per il pubblico ludibrio, non manca la più scontata delle obiezioni: c’era un copione, era tutto preparato. Mentre lo stesso protagonista, in alcuni dei suoi numerosi podcast prodotti per il pubblico del web, ha sempre giurato che la vicenda si fosse svolta esattamente così, come la vediamo. E poi va pur detto: la sua crisi di riso nervoso, accompagnata dalle goliardiche consolazioni degli amici, sembrano molto sincere.
La scena si svolge in un capannone allestito con lo specifico intento di tenere un’asta di bestiame, di quelli che vengono comunemente impiegati nelle zone rurali di quel paese o tirati su in forma provvisoria, durante le fiere agricole locali. Secondo alcuni siamo ad Abilene nella contea di Taylor, ma non è sicuro. Invece la premessa è che Kreischer, come suo solito, si è lasciato trascinare dagli eventi, ed ha promesso all’ospite e guida locale John Elick che avrebbe fatto di tutto, onde assicurare che ciascuno dei suoi vitelli fosse venduto a un buon prezzo. Incluso, a quanto pare, fare lui la prima offerta, sedendosi tra il pubblico e alzando la mano, un gesto notoriamente inequivocabile in tali circostanze. Soltanto che… Ed è questo ciò che lui non aveva affatto considerato, la mucca in questione è dotata di un pool genetico a quanto pare di gran classe, tanto da porre il suo prezzo di base al rispettabile gruzzolo di 1.400 dollari. Non proprio una cifra che invoglia al rilancio. Così il battitore continua la sua nenia, riconferma più e più volte la cifra. Un membro tra il pubblico, che aveva incontrato il suo sguardo, fa cenno che non gli interessa. E così alla velocità del tuono, BAM! La mucca è venduta. Kreischer spalanca gli occhi, guarda gli amici e quindi scandisce le seguenti parole: “Ho comprato una mucca. Mia moglie mi ucciderà.”

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La complicata vita di un popolo che ha perso il mare

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Terra smossa e timide sterpaglie nel Karakalpakstan, la repubblica indipendente che costituisce un territorio un tempo umido, ora secco quanto il bordo esterno del Sahara. Quando a un tratto, poco fuori il centro di Nukul, s’immagina un dialogo tra navi del deserto: “Rugginoso, svettante, rovinato peschereccio, chi può averti trasportato in questo luogo? Non c’è spiaggia, non c’è molo, non c’è acqua di alcun tipo! La tua utilità, mi siano testimoni le orde dell’antico Kāt, è ormai trascorsa come il sole dell’impero del Gran Khan! E invece io, marciando, vedo chiaramente il mio futuro…” Lo zoccolo che batte sul terreno. Un sibilo e un grugnito, di maestà lesa per l’interruzione ad opera di quel grande vascello rianimato: “Ah, cammello. Sei tu. Vieni sotto l’ombra del mio scafo. Del vasto lago di Aral, tu non sai nulla. Dei pesci, della pioggia e delle stagioni di quell’abbondanza evaporata. Gli uomini ti nutrono e ti rendono importante, come hanno sempre fanno con il mondo e la natura. Ma tu ricorda sempre questa cosa: trascorsa la tua utilità per loro, sarai solamente il Nulla. Esattamente come tutto ciò che vedi attorno a te.”
Svariati chilometri più a nord, sorge la cittadina da 17.000 anime di Moynaq. Sopra un altopiano che fu in epoca recente un istmo, da cui moli s’irradiano in diverse direzioni. E canali con appena un metro d’acqua, scavati freneticamente fino al cimitero delle navi. Esiste ancora, in questi lidi, un qualche tipo di vitalità e speranza, con gente che si muove, parla, effettua scambi delle merci che provengono da fuori. Ma ogni anno, irrimediabilmente, altra gente prende, parte e se ne va. Passando innanzi a quel cartello triangolare, certamente risalente all’epoca sovietica, ove campeggia l’immagine di un pesce che sobbalza sopra le onde stilizzate. Gradevoli ricordi, di un’economia fiorente ormai sparita! Mentre tutto attorno, adesso è sabbia, sale, arido rimpianto. Il più grande, certamente, degli Uzbeki. E dei loro vicini nel pastorale Kazakhistan, che ancora custodiscono una parte di quella distesa d’acqua, gelosamente racchiusa grazie ad una diga costruita nel 2005. Negli ultimi tempi, le piogge hanno trattato bene quella zona. E gradualmente, la minima parte settentrionale di un bacino idrico un tempo vasto quanto il lago Victoria (68,000 km quadrati) si è riempita nuovamente, ritornando a una profondità di 30 metri. Eppure di quell’acqua, preziosa ed insostituibile, soltanto una minima parte viene lasciata filtrare oltre il confine. Per andare a perdersi tra queste sabbie eterne, nonostante tutto, prive di malinconia. Così, ove un tempo nuotavano i pinnuti, adesso è territorio di cammelli. Che allegramente, non comprendono la verità.
“Ah si, è così che pensi, peschereccio inutile di un altro tempo?! Sappi che i quadrupedi resistono da un tempo assai più lungo, di voi altri ammassi di sostanze minerali raffinate dalla società industriale! Se un domani l’intera civiltà di costoro, i grandi sfruttatori, dovesse scomparire tutto a un tratto…Noi torneremmo ad inselvatichirci, per brucare l’erba dalle crepe del cemento impolverato.” Fedele cavalcatura, produttore di latte, animale da soma. Tutto questo lui era stato, e quella vita, faticosa ma soddisfacente, l’aveva condotto fino a questo punto d’invidiabile prosperità. Ma il richiamo della sabbia era sempre presente, tra le orecchie ridirezionabili e le due svettanti gobbe posteriori. “Ah, si, è così che pensi? Credi che l’umanità sia come un parassita…Pronto da estirpare, per restituire il mondo al suo splendore primigenio…” Animata dalle sue argomentazioni, la nave parve sussultare per il vento lieve delle circostanze. In alto, sbattendo sul pennone principale, il vessillo irriconoscibile produsse un suono simile ad un colpo di fucile. “Bestia. Guardati attorno: cosa vedi? Quale odore percepiscono le tue famose nàri?” Sale, detersivo, additivi chimici. Più un lieve accenno di qualcosa… D’indefinibile. L’olezzo atroce di sostanze misteriose. Una minaccia senza volto e senza tempo. “Si, puoi starne certo… Questi oblò comprendono la tua espressione. Ora, taci! Lasciami parlare…”

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La ragione per distruggere un campo di tulipani

Tulip Harvesting

Come polli che chiocciano la loro triste condizione, posti dentro gabbie appena sufficienti a sopravvivere facendo uova, per il massimo vantaggio dell’industria e del commercio. Finché l’ascia non discenda sopra il loro collo, affinché un miglior profitto possa provenire dalla carne bianca ormai privata delle piume. Un destino certamente pari a quello dei bovini e dei suini, parte di una macchina stratificata, in cui ogni nascita, ciascun allattamento, siano veicolati all’efficienza di una produzione sempiterna, di carne e costolette e di bistecche e d’insaccati d’ogni tipo…E noi che faticosamente, ci sforziamo di dimenticare. Lo sguardo vacuo delle bestie, la loro presunta incapacità di comprendere la sofferenza, sia presente che futura. Mentre ancora girano le ruote e gli ingranaggi, verso una proficua quanto utile dannazione. Eppure persino una simile freddezza, giustamente assurta al centro di disquisizioni senza fine, non è praticamente nulla al confronto di quello che succede all’altro regno di esseri viventi, di ciò che vegeta la propria vita, nutrendosi di acqua ed aria e luce, null’altro che l’ambiente in quanto tale. Le piante, che pur avendo come tutto e tutti, una nascita e una fine, a differenza dei loro cugini non producono un latente senso d’empatia. Il che ci porta a strane giustapposizioni.
Ogni anno, verso la fine dell’estate, l’Olanda si colora di una veste variopinta. Miliardi di piantine, come i pixel o i punti di un ricamo, spuntano all’improvviso dalla terra di ogni campo e zona designati, nel vasto territorio noto come “Dune e bulbi” (Duin- en Bollenstreek) che si estende dalle propaggini meridionali del fiume Oude Rijn, fino alla regione di Haarlem, circa 20 Km ad ovest di Amsterdam. Così nei campi e nelle serre, senza mai saltare un anno, si perpetua la presentazione al mondo del meraviglioso tulipano. Un fiore particolarmente amato e di cui si fa un ampio commercio e ibridazione, con sua grande fortuna (collettiva) e un dannazione (per quanto concerne i singoli esemplari). Questo è basilare nella condizione di qualunque forma di vita che si trovi nella logica di fondo dell’industria: avere l’opportunità di crescere e riprodursi, in condizioni largamente migliori di quelle che s’incontrerebbero in natura, ma ad un costo esistenziale estremamente significativo. Di veder la propria vita interrotta anticipatamente, affinché l’umanità possa trovare la fondamentale ricompensa. Ma forse in nessun ambito, sia animale che vegetale, tale prassi prende una via operativa cruda ed efficace quanto quella usata qui nei Paesi Bassi, al termine della stagione di fioritura, nel sistematico annientamento di quanto è stato dolorosamente prodotto dalla Terra, nell’ecatombe contestuale di miliardi di esseri del tutto inermi, morte e distruzione, un assoluto cataclisma cui farà seguito, si, la rinascita. Ma solamente un anno dopo.
Guardate il video, apprezzatene le implicazioni. Due potenti trattori New Holland T6.160 Blue Power, ripresi in modo come sempre ineccepibile dai titolari del canale TractorSpotter, si apprestano a compiere la propria dolorosa marcia, proprio nel bel mezzo dei campi fioriti dell’azienda di Maliepaard Bloembollen, qualche chilometro a sud di Rotterdam. E se farete l’implicita domanda a uno di questi agricoltori, o chiunque abbia vissuto qui da un tempo medio, del perché sia necessario fare tutto questo, lui vi risponderà: “Che c’è di strano?!” Sulla parte frontale di ciascun veicolo, vorticanti come pale di mulino, trovano posto altrettanti assemblaggi di lame tubolari, che sistematicamente rimuovono la cima di ogni singolo fiore, lasciando solamente il suolo dietro a loro, totalmente scevro di colore tranne che per qualche pianta tanto piccola da essergli sfuggita. Poco male: il contadino passerà dopo, estirpandole con le proprie stesse callose mani. E a chiunque potesse pensare, magari, che i preziosi tulipani siano in qualche modo preservati, posti all’interno di un serbatoio nascosto all’interno del sofisticato macchinario quindi trasportati fino alle città, consiglio d’ossevare ancora meglio. Perché in effetti, si nota bene in certe inquadrature, i fiori non soltanto cadono semplicemente a terra, ma finiscono spesso sotto gli pneumatici dei due trattori, venendo sminuzzati. Lo spietato compito di pilotare i mezzi dunque ci appare, in buona sostanza, l’occupazione ideale per chi provi un’odio ingiustificato per le piante, o abbia la necessità di sfogarsi distruggendo la bellezza innata delle cose… Ma la verità è PROFONDAMENTE diversa.

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