Rotola, di nuovo rotola la grande sfera oceanica del criceto umano

Comparso per la prima volta sulla pagina Facebook dello Sceriffo della contea di Flager, l’oggetto non identificato giaceva immobile nel mezzo della spiaggia floridense. Come un enorme bigodino, questa volta, costruito in alluminio e fiancheggiato da una serie di 18 professionali sfere gonfiabili (niente più palloni da basket morsi dagli squali) ben fissate all’interno di una simile struttura per garantirne la stabilizzazione. Attorno alla quale, temporaneamente, sembra aggirarsi un controllore che sistema, ripara e mette in sicurezza i suoi meccanismi. Mentre un nutrito capannello di persone, comprensibilmente incuriosite, lo osserva commentandone i gesti. Qualche volta, gli rivolgono anche una domanda o due… Poco male. Persino al terzo tentativo, l’eroe sportivo ama parlare della sua difficile e autoimposta missione di vita.
Libertà di parola, di culto, di associazione, di educazione, di scegliere la propria nazionalità e cultura. America, la terra dei sognatori: un luogo in cui inseguire i propri obiettivi, non importa quanto remoti, dove tutto sembra possibile, a patto di avere sufficienti risorse finanziarie. E qualche volta, anche in assenza di quelle risorse. Ma è difficile inseguire una chimera abbastanza a lungo, mentre questa muta e si trasforma nei diversi stati della materia, senza esserne ad un certo punto profondamente cambiati. Mentre si rimbalza per i fiumi e nelle valli, ci si arrampica verso le cime di alti picchi e poi si balza all’altro lato contro i venti, lasciando che ampie ali di pipistrello ci trasportino lungo correnti ascensionali intangibili e incolori per lo sguardo; per lo meno, a patto che fosse questa specifica esperienza a dare il ritmo e il passo dei nostri gesti. E se invece il tipo di animale totemico capace di guidarci, fosse piccolo e peloso, piatto e liscio all’occorrenza… Un timido quadrupede che cerca sempre di portare a termine quello che suscita interesse tra i suoi baffi, carichi di ottime speranze… Non è semplicissimo individuare, nell’intero regno animale, una bestia più nobile del Mesocricetus auratus o criceto siriano, generalmente noto per la sua frequente collocazione all’interno di pratiche gabbiette poste sopra il tavolo della cucina o della sala pranzo. Cercatore esperto di avventure utili a risolvere un bisogno, che sia di tipo alimentare, di svagarsi oppure pertinente all’anima e la mente stesse, mentre percorre angusti pertugi, corre sui difficili percorsi e trova infine, non senza qualche contrattempo, l’ambita uscita dal dedalo cunicolare di un difficile labirinto. E ogni qualvolta che dovesse venire a mancargli tale opportunità, può sempre fare affidamento sulla sua immaginazione; esercitando i muscoli, per molti minuti o qualche ora, all’interno dell’equivalente in scala ridotta di una turbina per la generazione d’energia elettrica: la Ruota. Così Reza Baluchi, già noto ciclista e corridore di origini iraniane, immigrato negli Stati Uniti nel 2002 dopo essere vissuto per 10 anni in Germania, ha un giorno scelto d’inseguire tale stato e il metodo di quel minuto sognatore. Costruendo la sua personalissima interpretazione della stessa cosa… E puntando dritto verso le Bermuda, si è imbarcato nella traversata in grado di coronare un’intera vita. Oppure, nell’ipotesi peggiore, terminarla.
Il concetto è in realtà piuttosto intrigante e dal punto di vista tecnologico, tutt’altro che azzardato. Prendere un oggetto in grado di rotolare mantenendosi al di sopra della superficie dell’Atlantico ed entrandovi all’interno, cominciare a correre volgendo le spalle alla riva. Nell’evidente ambizione, per quanto remota, di riuscire entro una manciata di ore o giorni a raggiungere la propria meta. Più i secondi che le prime in questo caso, visto l’obiettivo in questo caso dichiarato da quest’uomo, in varie interviste e dichiarazioni, di riuscire presto ad approdare col suo marchingegno sulle spiagge newyorchesi a circa 2.000 Km di distanza. Un’impresa apparentemente impossibile per molti ma (forse?) non per lui, già capace di compiere un giro a piedi degli interi Stati Uniti nel 2003, per un totale di 18.860 Km dedicati alla lotta contro il terrorismo e la raccolta di fondi per chiunque ne avesse bisogno. Benché sia il caso di sottolinearlo: non è esattamente la stessa riuscire a fare anche soltanto una frazione di questo tra le onde resistenti dell’Oceano, sotto il sole impietoso dell’estate e con possibilità di soste notevolmente più limitate…

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La lunga scala sopra l’Austria che sublima il concetto di via ferrata

“Sperate sempre in ciò che vi aspettate, ma non aspettatevi mai ciò in cui credete.” Che cosa avrebbe detto l’eternamente giovane alpinista austriaco Paul Preuss (1886-1913) alle cui imprese lungo le pendici del monte Donnerkogel Maggiore (2.054 metri) è stata dedicata tre anni fà questa opera fondamentalmente turistica, frutto dell’unione tra un luogo straordinario, vedute stupefacenti, e almeno un pizzico di sincera passione per le arrampicate…. Sotto l’egida ingombrante di chiodi, funi, attrezzature fisse dall’impatto paesaggistico tutt’altro che commisurato alla necessità di svolgere una funzione pratica immanente. Proprio lui, che più di ogni altra cosa credeva nella scalata senza nessun tipo d’ausilio tecnologico, e che l’uomo dovesse ergersi oltre le difficoltà dell’esistenza usando esclusivamente le proprie forze, com’era personalmente riuscito a fare da ragazzo, superando l’infermità causata dalla polio e diventando uno sportivo, ed un filosofo, capace d’influenzare le generazioni. E che all’età di soli 27 anni, in circostanze destinate a rimanere largamente incerte, cadde in solitudine dalle più alte propaggini Mandlkogel, precipitando per 300 metri fino alla sua improvvida dipartita. Poiché nessuno può essere infallibile, neppure i grandi della storia, e la montagna di per se non può conoscerti per nome o fare un’eccezione verso chi desidera conoscerla in assenza del “giusto” grado di timore reverenziale. Così nell’odierno scenario del bisogno di affermare, ad ogni costo, la propria capacità d’iniziativa e un certo grado di evidente sprezzo del pericolo, la costruzione di una via ferrata può arrivare ad assumere un significato del tutto nuovo: la strada d’accesso democratica, ed in quanto tale aperta nei confronti di chiunque possieda il giusto grado d’intraprendenza, per poter dire innanzi ai microfoni del mondo “Anch’io (…Posso farlo, credo nel destino, non ho nessun tipo di timore!)” Ed è forse proprio questo uno dei principali crismi interpretativi ricercati dal creatore di una cosa simile, quell’esperto scalatore Heli Putz alla guida del suo collettivo Outdoor Leadership, che ha in tal modo scelto d’offrire il suo contributo ad un parte della generazione di Instagram e Facebook, se non proprio la sua interezza collettiva e priva di suddivisioni sociali. Poiché il sentiero attrezzatissimo di quella che oggi ha preso il nome ufficiale di Intersport Klettersteig (letteralmente: Via ferrata Intersport) rientrerebbe già da principio in una categoria di tipo C/D secondo la classificazione austriaca, grosso modo presso il confine dell’MD (Molto Difficile) secondo la metrica in uso presso i montanari del nostro paese sito all’altro lato delle Alpi. Anche senza prendere in considerazione il piece de resistance dell’ormai celebre Himmelsleiter (“Scalinata verso il cielo”) lunga oltre 40 metri, ricavata da una serie di quattro funi d’acciaio e relative traversine, prima di essere sospesa sopra un ampio baratro tra due cime, del tutto sufficienti a renderla la più tangibile manifestazione biblica di quel sogno che fece Giacobbe riposando nel deserto, mentre fuggiva dal fratello Esaù. “Ed egli vide una scala splendente, la cui cima raggiungeva il Paradiso; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa.”
Ma c’è in effetti ben poco di angelico, nella fruizione di un qualcosa che ha trovato collocazione con l’esplicito obiettivo di attirare il più alto numero d’utilizzatori, alla ricerca di quello che potremmo soltanto definire un approccio particolarmente diretto allo svago tra i confini di questa esistenza terrena. All’interno di una serie di confini operativi, e largamente al di là di essi, spingendo oltre quello che potremmo definire ragionevole dal punto di vista di chi ha poco o nulla da guadagnarci. E non credo fosse esattamente questo, il messaggio veicolato dalle parole di colui che in quel giorno sfortunato avrebbe finito inaspettatamente per lasciarci la vita…

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Il popolo che corre nel deserto 30 miglia con la palla prima di realizzare un gol

Inciso a chiare lettere di fuoco nella memoria di molti nati negli anni ’80, soprattutto nella nostra terra calcistica d’Italia, è la spropositata rappresentazione del campo di gioco nel cartone animato giapponese Captain Tsubasa, alias Holly e Benji. Con il suo luogo erboso capace di estendere le proprie proporzioni durante una sola azione di gioco in base alle necessità della ripartizione in episodi, la cui percorrenza diventava l’occasione di accurate rimembranze d’infanzia, multipli confronti coi rivali e il ricordo assai preciso dei lunghi periodi d’allenamento trascorsi assieme ai fedeli compagni di squadra, pedissequamente suddiviso in più capitoli per estendere l’accumulo della suspense narrativa. Persino tale rappresentazione estesa come frutto di una palese licenza poetica, tuttavia, raramente superava qualche centinaia di metri, dovendo necessariamente rendere conto agli stringenti limiti della realtà, coadiuvati dal bisogno di “vendere” al pubblico un qualcosa che, bene o male, fosse riconoscibile come lo stesso gioco della palla nel campetto sotto casa e la partita della domenica in Tv. Traslando la nostra lente analitica dall’altro lato dell’Atlantico, tuttavia, è possibile trovarsi in un luogo dove non soltanto le corse senza fine dietro ad una sfera dall’impiego simile non stupirebbero nessuno. Ma sembrerebbero, persino, relativamente brevi. Rispetto al gioco nazionale dello stato di messicano di Chihuahua, nonché esperienza mistica e fondamentale per le tradizioni millenarie del popolo indigeno di quelli che vengono talvolta definiti indiani Tarahumara, ma preferiscono per loro stessi la definizione di Rarámuri, ovvero “Coloro che corrono”. Un nome programmatico se mai ce n’è stato uno. Mirato ad esemplificare la conclamata naturale propensione di costoro, forse genetica o forse culturale, ad esercitare il più antico e diffuso metodo di spostamento tra gli umani: muovere un piede di fronte all’altro, più velocemente possibile, e poi farlo ancora. E ancora…
Il gioco nazionale del Rarajipari dunque, attività del tutto unica al mondo, consiste fondamentalmente in questo. Con il catalizzatore universalmente riconoscibile di una sfera dal diametro di 7-10 centimetri, realizzata mediante legno di quercia o radici, che dovrà essere calciata dai membri di una squadra fino al raggiungimento di un luogo prefissato al termine di un lungo viaggio, che può facilmente raggiungere (e superare) la lunghezza di una maratona secondo le precise cognizioni dell’uomo bianco. Nel delinearsi di un evento che ha un profondo significato sociale, nel quale membri di diversi villaggi e tribù contrapposte possono fare parte dello stesso gruppo, ricevendo l’onore ed il dovere di mantenere il controllo della palla soltanto quando si trovano in vantaggio nella carovana. Un proposito che spesso viene considerato l’occasione di scommettere ingenti somme di denaro o risorse importanti, mentre i concorrenti fanno il possibile per incrementare le proprie capacità di vittoria, bevendo presunte pozioni magiche preparate dai rispettivi sciamani o facendo inviare da questi ultimi il malocchio nei confronti degli avversari. Non prima, tuttavia, del concludersi della tradizionale festa celebrativa notturna caratterizzata da impegnative danze, consumo di bevande alcoliche e lauti pasti. Strana preparazione per ancor più strani atleti, che già più di una volta hanno lasciato senza parole coloro che hanno tentato di misurare la propria preparazione fisica con la loro. Vedi il caso spesso citato dei tre membri dei Rarámuri che parteciparono nel 1993 alla gara di podismo lunga 100 miglia di Denver, contro molti atleti professionisti e lungo l’impegnativa pista del Colorado riuscendo a giungere rispettivamente primo, secondo e quinto. Per il semplice fatto che, nel caso del cinquantacinquenne fumatore primo classificato Victoriano Churro, il tempo registrato per la seconda metà della corsa era risultato maggiore di soli 20 minuti rispetto alla prima parte del tragitto complessivo. In altri termini, dopo uno sforzo simile per un intero periodo di 20 ore, l’uomo era tranquillamente pronto a proseguire…

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881 Km/h: perché all’aereo telecomandato più veloce del mondo dovrebbe servire un motore?

Da qualche parte attraversando l’alto empireo dello scibile, una macchina straordinaria sfrutta e veicola le leggi della fisica scoperte dagli umani: consumando un combustibile ragionevolmente simile a quello dei razzi spaziali, l’aereo simile a una freccia taglia l’aria neanche si trattasse dell’affilata lama di una spada da samurai. L’acuto suono del suo motore, una turbina non più grande di una bottiglia da mezzo litro, annuncia la creazione e la modifica di un flusso ventoso, che percorrendo lo speciale spazio sotto le sue ali, lo solleva e spinge fino alla sua piccola destinazione. Piccola perché piccolo è anche l’aereo, essendo a conti fatti, solamente un modellino; un modellino controllato a distanza che raggiunge agevolmente i 750 Km orari. E se ora vi dicessi che l’RC Speeder “Inferno” full GFK e mezzi similari, di cui parlammo in queste pagine qualche anno fa, è stato largamente superato in prestazioni da un qualcosa di radicalmente differente, ovvero quello che costituisce a tutti gli effetti nient’altro che un ALIANTE soggetto ad eseguire gli ordini trasmessi da un radiocomando situato a terra? O per meglio dire, in specifiche regioni della Terra, dove le condizioni meteorologiche e del territorio riescono a costituire non più soltanto il potenziale ostacolo alla realizzazione del record bensì il sostegno di partenza basilare, e la vera condicio sine qua non, che può condurre un nome ad essere iscritto nel posto d’onore del libro dei record…
Sarebbe tuttavia riduttivo, ed in qualche modo dissacrante, inserire questi due apparecchi nella stessa linea ideale del progresso umano. Poiché l’impresa recentemente compiuta dall’americano Spencer Lisenby presso la montagna Parker in California non troppo lontano da Santa Ana è il più recente coronamento di un percorso intrapreso almeno dal remoto 2017, quando in una lunga e affascinante conferenza spiegava l’obiettivo della sua compagnia di consulenza aeronautica, mirato a veicolare e mettere a frutto una specifico approccio all’esigenza fondativa di quest’intera specifica branca della tecnologia applicata: far volare qualcosa, veloce e lontano, possibilmente col dispendio minimo di energia frutto di un combustibile (che aumenta il peso) o di una batteria (che aumenta DI MOLTO il peso).
Ecco dunque, nel memorabile 19 gennaio recentemente attraversato, il veicolo che decolla direttamente dalla mano del suo aiutante, o per meglio dire “viene lasciato andare” vista l’evidente assenza di qualsivoglia tipo di elica o ugello di scarico del turbocompressore. Trattasi in effetti, di una dimostrazione pratica delle straordinarie potenzialità nascoste in quello che prende il nome di volo veleggiato dinamico, significativa scoperta per gli umani di questi ultimi anni, teorizzata e messa in atto per la prima volta dalla leggenda dell’aeromodellismo Joe Wurts negli anni ’90. Ma che altri piumati esseri di questo pianeta, da un tempo assai più lungo, avevano conosciuto e messo a frutto al fine di ridurre il dispendio energetico durante le lunghe migrazioni da un lato all’altro degli oceani distanti. Immagino sia chiaro, a questo punto, ciò di cui stiamo parlando: le tecniche di volo dell’albatross urlatore (Diomedea exulans) e molti altri, applicate a un semplice pezzo di fibra di vetro, legno di balsa e plastica. Sfruttate per raggiungere una cadenza di Mach 0.71, ovvero in altri termini, oltre due terzi della velocità del suono. Incredibile, a dirsi…

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