Insetti assassini, ragni anomali, suini completamente fuori controllo… Di tutti gli allarmi animali lanciati negli ultimi anni, si tratta certamente del più grazioso. Eppure non c’è molto da scherzare o ridere sulla segnalazione fatta verso l’inizio della settimana da Savino Muraglia, presidente della Coldiretti Puglia. Mirante a rendere esplicito per l’opinione pubblica un fatto di cui molti, per una ragione o per l’altra, avevamo mancato di prendere coscienza: che l’Italia è sotto assedio da qualcuno che proviene da lontano, e quel qualcuno possiede un becco arancione chiaro, piccole ali color giungla equatoriale e un ventre tendente al giallo chiaro. L’essere il cui verso ebbe modo di risuonare libero nei nostri cieli ormai da circa 10 anni, prima che la sua leggendaria capacità di proliferazione gli permettesse di moltiplicarsi a dismisura, occupando nicchie ecologiche le quali, del tutto a nostra insaputa, erano state modellate dalla tropicalizzazione climatica in modo perfettamente idoneo al suo bisogno. Myiopsitta monachus, il pappagallo quacchero o secondo un altro metodo di denominazione, altresì detto parrocchetto Napoleone. La cui espressione simpatica a coronamento di un ingombro di appena 30 cm, paragonabile a quella del merlo italiano, nasconde in realtà alcune caratteristiche capace di renderlo un ospite particolarmente ingombrante: in primo luogo l’abitudine a formare colonie di decine, quando non addirittura centinaia di esemplari, capaci di vivere all’interno di un nido comunale posto in alto e dalle dimensioni di una piccola automobile umana. Seguìta dalla fervida intelligenza, che gli permette d’individuare le potenziali fonti di cibo con abilità persino superiore a quella di gabbiani, corvi e piccioni, prima di organizzare spietate scorribande che devastano i raccolti al pari dello sciame di locuste o un piccolo incendio boschivo. Come recentemente avvenuto, secondo il report pubblicato da diverse testate giornalistiche online, nella zona di Molfetta, nel Barese, a Bisceglie e fin quasi alle propaggini dell’Alta Murgia, dove i molti tesori della nostra terra si sono trasformati in bersaglio lecito per la fame dei feroci e cinguettanti pappagallini, guidati da un istinto che li porta ad assaggiare tutto, morderlo e talvolta, ricoprirlo di guano. Frutti della terra come le albicocche, le ciliege, gli ortaggi a baccello. Ma soprattutto le mandorle tipiche di queste terre, delle quali vanno particolarmente ghiotti staccandole in pochi secondi dal mallo della pianta, grazie alla forza e il desiderio capaci di animare le loro gastronomiche scorribande.
Il che, tralasciando la canonica narrazione, molto apprezzata in questi tempi, che vorrebbe associare l’invasione da parte di specie non native alle migrazioni indotte dagli sconvolgimenti climatici creati dall’uomo (eventualità comunque non del tutto inusitata) non può certo prescindere dal mero fatto che simili esseri, oltre ad essere stanziali, provengono tutti da un unico luogo, ovvero il territorio sudamericano. E poiché l’immagine di un pappagallo che nuota attraverso l’Oceano Atlantico, per quanto affascinante, tenda a fuoriuscire largamente dal reame del possibile, c’è soltanto un possibile modo in cui la presente emergenza possa essere giunta a palesarsi sulle accidentate vie del fato nostrano…
invasioni
Il pesante silenzio di Varosia, città abitata dagli spettri del suo passato
Nessun movimento, zero automobili, neanche l’ombra di una persona. Mura cascanti di edifici parzialmente consumati, dopo 45 anni d’abbandono ed incuria situazionale. Chi avrebbe mai pensato di riuscire a incorporare in una singola occhiata dal cielo priva di artefatti o scenografie l’intero aspetto di una catastrofe urbana dalle cause non evidenti, così drammaticamente simili nei loro chiari effetti alle radiazioni sprigionate da una catastrofe nucleare? Ma questa non è Pripyat, vicino Chernobyl, né una vecchia scena ripresa dai Hiroshima o Nagasaki. Attraverso la storia più recente dei media autogestiti e indipendenti, quasi nessun strumento si è rivelato maggiormente versatile ed efficace dell’umile drone. Una piattaforma telecomandata e a basso costo, in grado di sorvolare le circostanze che si desidera documentare, senza mettersi direttamente in pericolo come con l’impiego di elicotteri tradizionali. E in casi come questo, dove il livello di rischio si avvicina molto a quello di una zona di guerra, proprio perché formalmente, siamo nel luogo che in tutto il Mediterraneo, presenta una storia maggiormente simile alla zona demilitarizzata tra le due Coree. Con una significativa differenza, in grado di renderlo se possibile, ancor più inquietante: il fatto che il territorio fatto oggetto di sorveglianza continua e un severo divieto d’accesso, punibile immediatamente mediante l’impiego di armi da fuoco sempre cariche, contenga l’intero estendersi di una vera e propria città, un tempo popolata da 35/40.000 abitanti ed oggi l’unico quartiere completamente disabitato di un centro abitato che la circonda, al di là di un alta recinzione formata da filo spinato, muri invalicabili e fichi d’India. Benvenuti a Famagosta, sull’assolata isola di Cipro ed in particolare nella zona derelitta di Varosia, il tempio del turismo un tempo noto come “la Riviera francese a largo della Turchia” prima che proprio quel problematico vicino nazionale intervenisse, con carri armati, elicotteri e truppe d’assalto, per porre la parola fine ad una crisi politica e d’ordine pubblico dalle pesanti implicazioni umanitarie. Ma sarebbe certamente ben difficile interpretare l’impiego diretto delle armi, in questo come altri eventi della storia antica e moderna, come un qualsivoglia tipo di miglioramento…
L’evento trasformativo noto come Operazione di Pace a Cipro (ironico, nevvero?) ebbe inizio nell’estate del 1974, benché la sua origine remota possa essere fatta risalire all’accordo stipulato a Zurigo nel 1960 per la lungamente desiderata indipendenza dell’isola, col beneplacito della potenza coloniale inglese e i due vicini territoriali Turchia e Grecia, che restituiva formalmente il controllo di questi luoghi al moderato leader politico Makarios III, arcivescovo e primo presidente di un paese che purtuttavia, non sembrava destinato a conoscere uno stato sociale di quiete solida e duratura. Vigeva tra queste coste fin dall’epoca dell’impero Ottomano, infatti, una situazione di convivenza interculturale tra la maggioranza della popolazione di etnia greca e quella proveniente dalla vicina Turchia, costituente circa il 30% del totale. Con occasionali, eppur sempre risolvibili attriti, sempre più spesso stemperati dallo spontaneo senso di amicizia e fratellanza delle nuovissime generazioni. Finché nella primavera del 1974, non venne scoperto come l’organizzazione nazionalista greca EOKA-B stesse organizzando un colpo di stato armato contro il governo pacificatore di Makarios III, che subito si affrettò a scappare dal palazzo presidenziale, venendo prelevato e portato in salvo a Londra. La situazione precipitò e i casi di violenza ai danni dei turco-ciprioti aumentarono drasticamente. Gruppi armati di milizie e vigilanti pattugliavano le strade. E fu allora, impugnando con furia le parole scritte nel trattato di Zurigo, che prevedeva il possibile intervento di ciascuno dei tre firmatari allo scopo di mantenere il delicato status quo vigente, che il capo di stato turco ed ex-ufficiale di marina Fahri Korutürk ordinò l’intervento militare da parte delle truppe del suo paese. E il destino del quartiere/città di Varosia, in quel preciso momento, intraprese la sua drammatica strada futura…
Pleco, il pesce corazzato che minaccia l’ecosistema americano
Ombre oscure che si aggirano al di sotto delle increspature, nei fiumi, laghi e altri luoghi acquatici d’Europa, i pesci siluro costituiscono un problema anche troppo noto della globalizzazione biologica, importati originariamente dai paesi del Mar Baltico a scopo sportivo ed oggi diffusi a macchia d’olio, con conseguenze spesso deleterie sulle ampie nicchie biologiche monopolizzate dalla loro imprevista apparizione. Il problema del loro intero ordine di esseri viventi, comunemente detto dei pesci gatto, è la straordinaria capacità di adattamento che li caratterizza: nonostante le dimensioni imponenti, grazie alla capacità di respirare direttamente l’aria atmosferica, di nutrirsi di scorie ed avanzi di qualsiasi tipo e la resistenza notevole all’inquinamento, non c’è quasi nulla che possa fermare la loro proliferazione. Neppure la cattura da parte dei pescatori stessi, dato il sapore notoriamente orribile delle loro carni. È il tipico dilemma dell’uomo che influenza involontariamente il delicato meccanismo della catena alimentare, ritrovandosi improvvisamente privo d’idee sul come ritornare allo stato di grazia originario.
Quello che non molti sanno, tuttavia, è che dall’altro lato dell’Atlantico, dove simili creature non ebbero mai modo di affermarsi, un altro membro dello stesso ordine sta gettando scompiglio nell’intera parte meridionale degli Stati Uniti, dal Texas alla Florida, comparendo all’improvviso e dando sfogo alla sua notevole capacità di proliferazione. Pleco per gli amici, o più formalmente Hypostomus plecostomus, assomiglia alla nostra versione dell’invasore pinnuto più o meno quanto ciò può essere detto di una volpe siberiana, rispetto ad una iena o un licaone africano. Lungo al massimo 50 cm, laddove il Silurus glanis può raggiungere anche i tre metri e 250 Kg di peso, questo spazzino naturale originario del Sudamerica si è guadagnato il soprannome di “pesce ventosa” per la bocca rivolta verso il basso, che gli permette di aderire saldamente a qualsiasi superficie ragionevolmente uniforme, espediente usato dall’inefficace nuotatore per sfuggire al trascinamento da parte della corrente dei fiumi. Ma ciò che colpisce maggiormente la fantasia, rendendolo concettualmente simile a un qualche tipo di creatura preistorica, è il suo strato dorsale di “scuti” (placche dermiche coriacee e resistenti) da cui deriva lo stesso nome famigliare dei Loricariidae, con un riferimento alla lorica dei legionari romani. Il che costituisce un punto di distinzione altamente rilevante, visto come tutti gli appartenenti a questa genìa, diversamente dalla maggior parte dei pesci d’acqua dolce o salata, non possiedono alcun tipo di scaglia o aculeo, il che potrebbe rendere gli esemplari più piccoli, quanto meno, potenzialmente vulnerabili all’attacco da parte dei predatori nativi. Mentre l’esperienza c’insegna, come ampiamente dimostrato da una lunga serie di video online, che nelle vie idriche del settentrione americano non esiste assolutamente nulla che possa contrastare la sempre maggiore presenza di questi soldati onnivori e voraci, capaci di rimuovere completamente un intero sostrato di alghe all’interno di un lago, per poi scavare i loro nidi in prossimità delle rive, aumentando drammaticamente l’erosione e rovinando completamente l’equilibrio pre-esistente del paesaggio ripariale. E tutto a causa della momentanea disattenzione o disinteresse da parte di qualcuno..
Bielorussia: il ponte ricoperto da uno strato di libellule notturne
23 luglio 2018: era una serata tiepida a Vitebsk, ridente cittadina prossima al confine settentrionale con il paese più vasto del mondo. Con temperature attorno ai 18-20 gradi di media, piuttosto normali anche nel pieno dell’estate, per un luogo che ha toccato i -35 in più di un caso della sua storia meteorologica pregressa. E tutto sembrava normale se non che dalle finestre degli appartamenti, in quello che è stato definito su Twitter “un letterale film dell’orrore” non fu possibile osservare il congregarsi di un’inquietante nube all’orizzonte. Localizzata sopra il solo corso d’acqua del centro abitato, e capace di formare vortici sempre più densi, puntati come una freccia verso il principale attraversamento stradale del Vitba, il ponte Kirov. In breve tempo, i lampioni smisero di funzionare, mentre carreggiata, parapetti e addirittura piloni sembrarono sparire in dissolvenza, come trasportati dalle nebbie di Avalon in un universo parallelo. Voci antiche riecheggiavano nell’aria stranamente densa e ronzante…
“Il fiume Bug a settentrione del Mar Nero porta nella sua corrente a mezza estate delle piccole membrane, simili a bacche, dalle quali fuoriescono dei bruchi a quattro zampe, dotati anche di un paio d’ali. Queste creature non vivono più di un giorno, ragione per cui vengono chiamate hemerobius.” Nelle parole dello storico Plinio il Vecchio, vissuto nel primo secolo dopo Cristo, riecheggia una profezia del mondo naturale che tutt’ora, con cadenza grossomodo regolare di uno o più anni, condiziona l’esperienza di quei popoli e la loro relazione con i mesi di luglio e agosto. È un episodio che tutti, in tali luoghi particolarmente fortunati, sperimentano almeno una volta nella vita. Non è quasi mai pericoloso, tranne forse nelle prime ore, se nell’area interessata trova collocazione una strada dal traffico medio-intenso, lungo cui gli automobilisti non tenteranno di accendere i fari, ritrovandoli coperti da nugoli di queste bestie, come d’altra parte, pure il parabrezza e gli specchietti retrovisori. Stessa cosa per i pedoni, che la stessa cosa tenderanno a sperimentarla tra i capelli, con le orecchie, il naso e gli occhi. Ma non in maniera, per così dire, irreversibile, visto che sarà possibile rimuoverle ben prima di morire soffocati. Le effimere, tipiche dell’Est Europa, sono insetti che non possono fare nulla all’uomo, come già sapevano gli antichi. I quali tuttavia, nell’assenza di un metodo scientifico adottato su larga scala, non avevano mai pensato di analizzarne il ciclo vitale, scoprendo come l’apparente durata molto breve della loro vita fosse in realtà pertinente soltanto all’ultimo stadio delle numerose mutazioni a cui devono andare incontro, quello dell’imago (o a seconda della specie, sub-imago). Mentre le creature, prima di spiccare il volo, erano solite abitare i corsi d’acqua o laghi per svariati mesi, o persino anni, nutrendosi a seconda dei casi di detriti o insetti più piccoli di loro. Pensate alla dicotomia del bruco e la farfalla. Ma espressa in una maniera più basica e per certi versi, primordiale.
Nessun sito di notizie appartenente all’area interessata, quest’anno, sembra aver avanzato ipotesi su quale sia la specie effettivamente coinvolta. È possibile, tuttavia, che si tratti di Palingenia longicauda, le più grandi effimere del Vecchio Continente, misuranti fino a 12 cm dalla testa con le antenne fino alla punta della lunga coda biforcuta, segno di riconoscimento della loro intera famiglia di artropodi volanti. Stiamo dunque parlando di una creatura certamente invasiva, e che non comprende il concetto di spazio vitale (come avrebbe mai potuto?) ma che può essere facilmente interpretata come un segno positivo, per l’assenza d’inquinamento delle acque e il fatto stesso che stia di nuovo proliferando, nonostante la scomparsa in molti dei paesi che una volta appartenevano al suo areale. Certo è difficile spiegare tale aspetto a chi deve sigillare le finestre e tapparsi in casa, in tutta fretta, prima di essere coperto totalmente da una schiera di entusiastici invasori. Ciascuno in cerca di nient’altro, in quel momento, che di una femmina con cui accoppiarsi. Ecco qui spiegata, dunque, la ragione di questo caotico trionfo: siamo dinnanzi a un’orgia. Uno tsunami di libellule in cerca di sesso…