Gatto, fatti da parte: è iniziata l’epoca del procione sottile

La vita nel tipico insediamento minerario dell’Arizona non era semplice verso la metà dell’800 e questo Clifford, oramai, l’aveva capito fin troppo bene. Al terzo attacco da parte dei nativi, con frecce, fucili e tutto il resto, la ridente cittadina di Bisbee era finalmente giunta a costituire una sua milizia, dotata del miglior armamentario reperibile nella contea di Cochise. Incendi e inondazioni temporanee, per le occasionali piogge torrenziali sui confini del deserto, erano un pericolo superato soltanto dalle malattie, come il tifo o le afflizioni veneree che giravano presso il popoloso quartiere delle prostitute, una risorse niente meno che fondamentale per questo tipo di comunità. Con un sospiro rivolto all’indirizzo del suo piccone personale, acquistato quasi d’impulso per assicurarsi la possibilità di mettersi in proprio e andare in cerca d’oro, dopo tanti faticosi anni a sgobbare nelle cave locali di argento e rame, l’uomo spense con un soffio la lanterna, preparandosi al calare della sera. Il suono familiare dei ratti, che strisciavano nel controsoffitto della sua capanna (un lusso piuttosto raro da quelle parti) iniziarono puntualmente a propagarsi nelle tenebre pensierose. “Non più compromessi, niente sofferenza nei giorni a venire” Esclamò colpendo il bordo del tavolo, per poi avvicinare il piede destro alla strana scatola che risiedeva da qualche giorno accanto alla stufa, acquisita a poco prezzo presso lo spaccio del centro cittadino. Con un sobbalzo quindi, l’animale contenuto all’interno strisciò fuori, ansioso di dare inizio alla sua battuta di caccia. Sarebbe stato disposto persino a uccidere, pur di proteggere ciò che aveva di più caro!
Non proprio un felino, non proprio un procione, benché carnivoro ed onnivoro almeno quanto entrambi, e limitato nella diffusione all’interno del suo areale altamente specifico della parte arida di Stati Uniti e Messico, fino alle propaggini settentrionali dell’America Centrale. Con il nome di ringtail (“coda inanellata”) Bassariscus astutus (“piccola volpe furba”) o per l’appunto, gatto del minatore, nell’accezione del suo ruolo semi-addomesticato, frutto di un compromesso assai proficuo tra il piccolo mammifero e il mondo in progressiva espansione estrattiva degli umani. Una creatura tanto perfettamente adattata al suo ambiente che sconfina spesso nel deserto, grazie alla capacità d’immagazzinare i liquidi nell’organismo e le abitudini notturne, quanto abile nel perseguire senza alcun quartiere uccelli, roditori, lucertole, conigli, rospi, rane e serpenti. Ovvero in altri termini, qualsiasi cosa si muova, respiri e sia sufficientemente più piccola dei suoi 30-42 cm di lunghezza. Coda esclusa, s’intende, con chiaro riferimento all’estensione in grado di raggiungere pari misura, caratterizzata dalla vistosa serie di strisce bianche e nere che riprendono direttamente quelle del Procyon lotor, il suo parente più famoso nei territori posti a settentrione del suo habitat naturale, così come i vagamente simili olingo e coati dell’America Meridionale. Essendo abbastanza intelligente da riuscire ad apprendere una serie di confini e comportamenti attentamente definiti, oltre che territoriale per sua innata propensione, il ringtail seppe quindi dimostrarsi il possessore di quella scintilla d’aggressività coniugata ad un certo grado d’intrapredendenza, tale da farne un valido compagno di avventure per chi fosse tanto fortunato, o furbo, da riuscire a procurarsene un esemplare…

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Il drago peloso che divora trentamila soldati nell’alto castello

“Così la gente ai piani alti mantiene il suo potere: parlando una lingua che stimola il terrore per l’ignoto e la sopravvivenza futura della colonia!” Declamò il Predicatore alzando la prima coppia delle sue sei zampe, per stagliarsi contro l’azzurro cielo sudamericano. La propaggine gibbosa del termitaio, teatro di tutte le interazioni tra gli strati sovrapposti di una società che si presumeva essere perfetta, nonché perfettamente in scala, per non ledere all’ambiente con l’impatto dell’artropode tecnologia abitativa. Piccoli gli insetti, di sicuro, ma non così le svettanti mura, costruite con la terra e la saliva delle loro bocche simili a minuscole tagliole. Chi poteva, dopo tutto, nuocere alle bestie proprietarie di un così alto monumento? Chi poteva penetrare dentro al guscio delle circostanze, invidiabili persino per lo sguardo altero degli Dei? “Profezie, minacce, apocalisse del Crepuscolo e creature grandi come montagne. Eppure, di tutti quelli che hanno visto il Mirmecofago, nessuno è mai riuscito a sopravvivere per raccontarci del suo aspetto. Davvero molto… CONVENIENTE!” Mentre simili parole dalle molte ramificazioni come le radici di un ontano risuonavano possenti nelle luce del mattino, il mondo stesso cominciò a vibrare. Le vedette in cima all’edificio, emettendo feromoni d’allarme, gridavano l’inaudibile avviso che sembrava presagire guai davvero grossi, per l’intero esercito percorso da un formicolìo fremente. In quel momento, un lungo serpente rosa penetrò dalla finestra panoramica sulla savana, sbalzando via il predicatore e tutti quelli che lo stavano ascoltando. Eppure, almeno la metà di loro non precipitò lontano, restando invece appiccicata all’essere venuto dall’Esterno. Con risucchio forte come il tuono, le spire si accorciarono d’un tratto. Mentre una piramide pilifera comparve nel pertugio, con un occhio fisso e assottigliato come la puntura di una spillo. Dalla folla rimescolata, si udì una voce acuta: “Morte, morte, il mostro è giunto. Manovali e militi, sudditi e padroni. Preparatevi a finire nello stomaco del grande aspirapolvere ursino!”
Un destino, da un certo punto di vista, peggiore di qualsiasi altro possa essere conosciuto agli insetti. Poiché il formichiere gigante, anche detto tridattilo per la tripla fornitura di affilati artigli sulle muscolose zampe, non ha denti, muscoli masticatori degni di questo nome e neanche una sostanza corrosiva nello stomaco, per offrire una misericordia rapida alle moltitudini fagocitate quotidianamente per sopire la sua enorme fame. Le quali se non soffrono l’eterno fato nel momento in cui si schiacciano contro il palato della belva, procedono fin dentro al grande organo simile a una betoniera. Dove periranno, gradualmente, nello stesso acido prodotto dalla loro decomposizione. Un espediente furbo e pratico, come i molti altri grazie ai quali, nel procedere dei secoli e millenni, l’ingegno graduale dell’evoluzione ha dato forma a tutto questo. Il più letale predatore del pianeta, peggiore di uragani o terremoti, per lo meno dal punto di vista delle sue operose, piccole nemiche.
Capace di nutrirsi indifferentemente d’imenotteri o blattoidei, contrariamente a quanto potrebbe lasciar presumere il suo nome, preferendo nei fatti molto spesso i secondi in molti degli areali d’appartenenza, nella loro accezione eusociale famosa per i cumuli costruiti nelle vaste valli erbose delle più selvatiche circostanze. Eppure già scomparso, come i possenti dinosauri, dai territori settentrionali del Messico, l’Uruguay ed il Costa Rica. Per non parlare del Guatemala. Restando comune unicamente in alcune aree dell’Amazzonia, il Pantanal ed il Cerrado brasiliani, oltre a certe province particolarmente poco sviluppate dell’Argentina. Perché le dimensioni contano, ma ancor più di questo, è l’adattabilità a un’ambiente trasformato che determina le alterne fortune di una specie…

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La capra non-capra, splendente fantasma delle Montagne Rocciose

È tutto ciò che abbiamo, dopo tutto: quando lo sguardo del puma si rivolge nella nostra direzione, quando l’aquila si staglia minacciosa contro il cielo, quando lupi, orsi o ghiottoni/volverine si avvicinano con fare minaccioso al gregge, sceso periodicamente a valle per cercare cibo o sali minerali dagli affioramenti invisibili del sottosuolo. Sto belando, chiaramente, della nostra forza muscolare, l’agilità frutto di un acuto perfezionamento e i geni ereditari di una qualità particolare. Noi che siamo, nella lingua dei latini (che mai vissero da queste parti) Oreamnos americanus, esseri cornuti, canuti e giustamente saggi, come può essere desunto facilmente dalla lunga ed appuntita barba. Per non parlare dell’aspetto evanescente, che ci rende vagamente simili a creature di cui parlano le antiche leggende. Quelle dei popoli Salish, la confederazione dei nativi che un tempo dominavano le vaste terre dalla Columbia Inglese in Canada, fino alla parte settentrionale della California, intessendo coperte ed abiti coi nostri bianchi peli, abbandonati quasi ovunque a seguito dell’essenziale muta primaverile. Un aspetto all’origine, allo stesso modo, di un importante fraintendimento da parte dei primi coloni provenienti dalla parte orientale del continente: che noi fossimo la stessa cosa di un distinto tipo d’animale, a loro noto in quanto mansueto abitatore domestico delle fattorie di pianura. O almeno questo è quello che ci ha raccontato, fin da quel momento in cui venimmo in contatto, la marmotta dal ventre giallo, unico altro mammifero di dimensioni significative che riesce a sopportare le gelide temperature, e gli agguerriti venti, di un ambiente remoto ed elevato come la nostra terra elettiva: “Capre, capre e capre chiamano costoro. Identici a voialtri nella forma eppur di multipli colori: nere, marroni e a macchie, addirittura. Con le corna di diverso aspetto e proporzioni…. ” E hai detto nulla, astuto roditore! Avremmo avuto modo di rispondergli, volendo. “Mai sentito nominare il concetto di convergenza evolutiva?” Il problema è che nel regno degli umani, perché un mezzo di ragionamento possa essere integrato nella conoscenza, occorrono molti anni di profonda introspezione ed approfondimento. Così prima che riconoscessero l’errore chiaro fin da subito, dal punto di vista delle dirette interessate, ci volle un tempo superiore all’inserimento dell’errato nome nelle cognizioni collettive della gente. E “capra di montagna” diventammo. Pur essendo membri di una discendenza parallela eppur fondamentalmente distinta. Così tramandata, dalle sacre pergamene cognitive dell’antico clan, benché nessuna di noi sappia associare un effettivo volto ai rilevanti nomi: “Oreamnos (letteralmente: agnello di montagna) nasce dalla stessa linea di sangue delle “capre” takin e tahr Himalayane, essendosi differenziato dall’antenato comune a tali popolazioni solamente tra i 7,5 e gli 8 milioni di anni fa.” Quando i ghiacci che facevano da ponte tra i distinti continenti, a causa di un processo geo-climatico che prosegue tutt’ora, lasciarono spazio all’invalicabile e splendente oceano. Che talvolta ancora riusciamo a scorgere, mentre i nostri sguardi seguono la direzione del tramonto dalla cima degli alti picchi montani…

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Silenzio in sala: ritrovato il cane canoro della Nuova Caledonia

In lontananza tra gli alberi, mentre le luci del pomeriggio iniziavano a scemare, udimmo chiaramente il canto di una balena. Non che il più grande mammifero della Terra, per quanto fosse a noi chiaro in quell’epoca meno scientifica degli attuali giorni, emettesse alcun tipo di suono comprensibile all’orecchio umano. Ma se l’avesse fatto, fummo pronti a convenire mentre si apportavano gli ultimi preparativi al campo base, avrebbe avuto esattamente quella stridula tonalità espressiva: (Waaaaaaaaaaah!) Quindi alla nota dominante se ne aggiunse una seconda, cambiando e modulandone il fondamentale timbro. Ora sembrava di sentire il flauto di un musicista folle ispirato da Lucifero, oppure il canto mongolo delle vaste valli erbose della Mongolia. Lentamente, un giorno dopo l’altro, iniziammo a riconoscere quel suono. E dopo circa una settimana di ricerche, finalmente, avemmo l’opportunità d’incontrare il timido cane.
Per Sir Edward Hallstorm, famoso filantropo australiano e direttore del museo Taronga di Sydney, nella vicina Australia, verso l’inizio degli anni ’50 non era associabile un preciso volto ai canidi notati per la prima volta in queste foreste 1606 dall’insensibile esploratore spagnolo Luís Vaz de Torres, che aveva trovato in Nuova Caledonia “Piccole creature stupide, incapaci di abbaiare o ululare, anche se colpite con un bastone” e che lo zoologo inglese Charles De Vis, nel 1911, aveva sospettato essere un qualche tipo di cane ferale, un tempo usato per fare la guardia nei villaggi della Nuova Caledonia e successivamente ritornato allo stato brado, per decidere in quel fatidico momento di tornare a emettere il soave canto dei propri antenati. Ciò che finalmente ebbe l’occasione di conoscere, cogliendo l’occasione di attribuire ad esso il suo nome, era una razza molto simile al dingo australiano ma più piccola, dagli occhi a mandorla ed il muso triangolare, le orecchie mobili, la coda lievemente ricurva verso l’alto come quella di un lupo. Eppure nonostante il comprensibile entusiasmo, successivamente la sua classificazione tassonomica di questa categoria canina come una specie a parte denominata Canis hallstromi sarebbe decaduta, in forza di analisi genetiche mitocondriali capaci di associarlo al tipico cane selvatico della maggiore terra emersa d’Oceania e la razza, anticamente addomesticata, del basenji. Il cane canoro era in altri termini, semplicemente un cane, tuttavia adattatosi attraverso i secoli a un particolare habitat, per la sopravvivenza solitaria e la caccia sistematica di marsupiali, roditori e uccelli tipici delle giungle terrestri meridionali. Pur essendo privo di una categoria differente da quella del semplice Canis familiaris, tuttavia, il cane della Nuova Caledonia si presenta con abilità e doti fondamentalmente differenti, tra cui una propensione ad arrampicarsi simile a quella della volpe grigia, grazie a una flessibilità maggiore della zampe che possono essere ruotate di quasi 180 gradi. Un tapetum lucidum oculare tanto sviluppato da assomigliare a quello di un gatto, permettendogli di vedere bene anche di notte. E ovviamente, l’apparato fonetico in grado di produrre un canto stridulo che risulta perfettamente riconoscibile anche da distanze sorprendentemente significative. Che potrebbe ricordare in linea di principio il tipico ululato udibile nelle foreste del tipico bioma paleartico, o anche l’enfatico lamento di un cane di razza husky proiettato su una scala infinitamente maggiore, ma presenta cambiamenti repentini di frequenza con durata di appena 300-500 millisecondi, soprattutto durante le ore del vespro o al sorgere del sole. Un suono che gradualmente, gli abitanti del posto avrebbero smesso di sentire, causa progressiva riduzione del numero di esemplari non ancora addomesticati ed in funzione di questo, destinati a incrociarsi con razze di tipo differente, perdendo buona parte della propria unicità primordiale. Se non che a un gruppo guidato da James K. Mcintyre della Fondazione Cani Canori della Florida e composto in parte da biologi dell’università della Nuova Guinea, all’improvviso verso il termine di questa calda estate del 2020, sarebbe improvvisamente venuto un dubbio: possibile che la silenziosa razza di canidi degli altopiani alla base del monte Puncak Jaya, nella regione di Tembagapura, potessero custodire un maggior grado di parentela rispetto a quello sospettato fin dalle origini della faccenda?

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