Spiacevole ma significativo si sarebbe rivelato il fato degli equipaggi della Erebus e la Terror, le due navi partite nel 1845 dall’Inghilterra, nella ricerca del leggendario passaggio a nordovest che avrebbe eliminato la necessità tanto frequente di circumnavigare il globo. Quando in agosto di quell’anno i rispettivi capitani, certi di poter varcare la baia di Baffin, rimasero bloccati in mezzo ai ghiacci. Trovandosi a dover abbandonare i rispettivi scafi, intraprendendo un viaggio a piedi destinato a culminare con il proprio annientamento tra i ghiacci dell’estremo settentrione terrestre. E non si può fare a meno di tornare con la mente, almeno in parte, a quel drammatico inizio della storia delle esplorazioni polari, quando si apprende il progetto intrapreso ormai da oltre mezza decade ad opera della fondazione francese Tara, tra gli ultimi “guardiani dell’oceano” che riescono a ottenere fondi dalle commissioni per il clima nazionale ed europea. Un’evoluzione, se vogliamo, dei viaggi ad alto rischio già compiuti nel 2004 e nel 2006 oltre la linea del 66° parallelo, dove gli alberi smettono di crescere, a bordo dell’eponimo schooner varato nel 1987 dal grande marinaio Sir Peter Blake. Grazie ad un’imbarcazione progettata dallo stesso architetto navale, Olivier Petit, ma in base a crismi totalmente diversi. Via lo scafo col profilo di un nocciolo di oliva, verso l’adozione di una forma ellissoide che assomiglia vagamente al cerchio di una stereotipica nave spaziale. Sormontata da una cupola geodetica, con significative strategie d’isolamento termico per l’equipaggio di 18 persone contenute all’interno. Questo per l’idea alla base dell’effettivo impiego futuro di tale implemento, ispirato a una tipologia di tradizionali, ed ormai quasi secolari missioni organizzate dagli scienziati russi; allorché come l’originale Papanin del 1937, e come la recente Severny Polyus, la nuova stazione polare francese impiegherà il proprio motore e 130 metri cubi di diesel prodotto sostenibilmente al fine di raggiungere i confini della compatta calotta glaciale artica. Incagliandosi intenzionalmente, non al fine di procedere, bensì trascorrere fino a 18 mesi in tali condizioni estreme trasportata dalle correnti oceaniche, senza la possibilità di ricevere rifornimenti e con temperature in grado di oscillare tra i 30 e 50 gradi sotto lo zero. Un’opportunità unica, e altrettanto rischiosa, di approfondire in modo straordinario le regole di un tale ecosistema, facendo il possibile per individuare un modo utile a fermare l’attuale processo di deriva climatica. Che potrebbe trasformare tutto questo, entro pochissime generazioni, in un ricordo lontano…
La futuribile Research Station, come viene chiamata intenzionalmente, è figlia di un’ambiziosa visione perseguita dall’attuale direttore esecutivo e leader ideologico della Fondazione Romain Troublé, con doppia laurea in biologia e telecomunicazioni, nonché un passato diviso tra regate ed avventurose esplorazioni navali. Che dopo aver preso il controllo del Tara Schooner nel 2003, utilizzandolo per una serie di esplorazioni nei mari europei ed in seguito nei due suddetti viaggi verso nord, prima in Groenlandia e poi ai confini del ghiaccio “eterno” si è costruito nella mente una lista degli accorgimenti, e soluzioni pratiche che avrebbero semplificato l’esecuzione di simili missioni in futuro. Dal che l’idea, anni dopo, di coinvolgere di nuovo Petit ed i cantieri CMN a Cherbourg, nella creazione di questo capolavoro di autosufficienza e solidità che sembra sfidare molte delle convenzioni all’interno del suo settore. Tecnicamente si, una nave (che non necessità di un rimorchio) ma con uno scafo di 20 mm di spessore per 404 tonnellate complessive a pieno carico, nonostante la lunghezza di appena 26 metri. Risultando quanto di meno agile si possa immaginare nella navigazione in acque aperte, il che del resto è totalmente in linea con lo scopo della sua esistenza ormai tangibile, grazie al varo effettuato appena 2 settimane fa nelle acque antistanti l’estrema punta della Bretagna. In una configurazione, non ancora completa, che la vedrà in futuro ospitare uffici al piano superiore per l’intero team scientifico, oltre a capienti alloggi e ben 6 laboratori. Senza dimenticare gli spazi di stoccaggio logistico per i rifornimenti ed il carburante, incluso quello dedicato al carburante aeronautico ad uso e consumo degli elicotteri sul sentiero di ritorno, che per svariati mesi nel periodo invernale costituiranno l’unica maniera per raggiungere in caso di necessità il remoto avamposto umano nel grande bianco. I cui occupanti, tra oceanografi, glaciologi, fisici, biologi ed anche l’occasionale artista e giornalista, potranno trascorrere tale prezioso tempo per approfondire le nostre limitate conoscenze in merito agli organismi estremofili di questi luoghi, potendo addirittura accedere alle oscure profondità sotto i ghiacci, grazie all’ingegnosa installazione nella colonna centrale di una moon pool, un tubo verticale dotato di portellone all’estremità inferiore, da cui immergersi o inviare droni telecomandati fino a profondità stimate di 2.500 metri. Qualcosa che potrebbe rivelare, per inferenza, il tipo di forme di vita capaci di popolare gli ipotetici ecosistemi delle lune ghiacciate dei grandi giganti gassosi del Sistema Solare.
Siamo dunque, come ama ripetere lo stesso Troublé, ormai ad un punto di svolta, per cui la nostra generazione potrebbe essere l’ultima a sognare, per quanto possibile, di estendere la sopravvivenza del bioma glaciale artico, il cui assottigliamento progressivo è un dato di fatto largamente acclarato, per non parlare inoltre dell’inquinamento causato dall’attività industriale dei nostri giorni. L’inizio di un processo che non può essere in alcun modo invertito secondo quanto teorizzato dal capo della fondazione, ma soltanto rallentato, idealmente riducendo a monte la produzione di plastica ed altri materiali non biodegradabili, benché nessun governo sia ancora riuscito ad elaborare delle politiche realmente funzionali in tal senso.
Perciò mentre stappiamo le nuove bottiglie in plastica con il tappo unito sancite da un decreto dell’Unione Europea, apparirà del tutto lecito porsi l’interrogativo: troppo poco, troppo tardi? Forse ci vorrà del tempo per avere le idee maggiormente chiare. Le missioni previste per la stazione di ricerca Tara sono già state pianificate, almeno in via teorica, fino al 2050. Sempre che ci sia ancora una calotta artica da approfondire, entro un quarto di secolo a questa parte.