Quercia viva, piovra della foresta. Maestoso gigante del meridione statunitense

Durante la guerra anglo-americana del 1812 i capitani britannici impararono a temere, in modo particolare, uno scafo proveniente da quelle alcuni continuavano a considerare le colonie del Nuovo Mondo. Una fregata pesante da tre alberi il cui nome alludeva, non senza un marcato patriottismo, al documento legale all’origine di una nazione: USS Constitution, coi suoi 52 cannoni disposti efficientemente su tre dei quattro ponti adeguatamente corazzati. E costruiti a partire dal nucleo interno della nave, in un tipo di materiale che nessuno mai, in Europa, aveva conosciuto prima di quel momento: un legno dorato e resistente, perfettamente impermeabile, resistente ai parassiti. Forse il vero tesoro della terra in cui, secoli prima, ci si era affannati alla ricerca della mitica El Dorado. Costituente la forma tangibile, perfettamente apprezzabile dai costruttori di navi, del leccio meridionale o Quercus virginiana, così classificata a partire dal XVIII secolo per l’opera del botanico londinese, Philip Miller. Che aveva conosciuto durante i suoi viaggi la pianta in questione, essendo quest’ultima marcatamente incapace di crescere fuori da condizioni climatiche sufficientemente propizie, prive di rigidi inverni o improvvise quanto imprevedibili gelate. Questo perché il suo nome alternativo, live oak o “quercia viva” allude effettivamente alla prerogativa di essere (quasi) sempreverde ovvero perdere le foglie soltanto per una settimana ogni anno, poco prima che emergano quelle nuove al principio della primavera. Il che non dovrebbe lasciar presumere le caratteristiche di una pianta fragile o vulnerabile agli elementi, bensì perfettamente adattata ai propri effettivi territori di provenienza. Giacché ogni leccio, al raggiungimento di un’elevazione sufficiente, inizia immediatamente ad infiggere nel terreno una possente radice centrale o fittone, talmente profonda da risultare invulnerabile a qualsiasi tentativo di capovolgimento. Così che durante l’abbattersi dell’uragano Katrina su New Orleans, praticamente ogni singolo albero incluse le querce di altre specie furono letteralmente spazzate via dal vento. Ma NON le Q. virginiana, offrendo alla popolazione colpita un esempio ispiratore di resilienza. Ben poca consolazione, è facile immaginarlo. Eppure alberi come questi, magnifici ed imponenti, sembrano incarnare in qualche modo alcune delle virtù maggiormente utili all’umanità nelle sue tribolazioni passate, presenti e future. Non che sia facile superare, di fronte a simili presenze, una prima sensazione d’istintiva paura e diffidenza. Per il modo in cui tali lecci si diramano a pochi metri da terra, con una disposizione dei rami trasversali che tendono ad allargarsi piuttosto che crescere verticalmente, ricoperti da piante epifite come le lunghe barbe della Tillandsia o muschio spagnolo. Giungendo così a ricordare, da un punto di vista istintivo, le plurime braccia di una misteriosa creatura, fuoriuscita all’improvviso dalle profonde viscere del mondo…

Con un areale di diffusione particolarmente ampio, il leccio meridionale si riscontra dunque dall’intero arco del Golfo del Messico fino alla Costa Est, passando (naturalmente) per la Virginia che gli da il nome scientifico, le due Carolina, Georgia, Florida ed un buon terzo della Louisiana. Non mancano, infine, alcune popolazioni isolate in Texas, dove potrebbe essere stato introdotto artificialmente. Vi sono d’altra parte intere zone degli Stati Uniti dove le innate doti ornamentali di quest’albero sembrano essere state apprezzate a tal punto da costituire la vegetazione principale in più punti, capace essenzialmente di sovrastare e annientare qualsiasi timido tentativo di attecchire da parte di arbusti appartenenti a genìe distinte. Con un’altezza massima di 20 metri ed una crescita relativamente lenta, questi imponenti occupanti delle macchie boschive possono d’altra parte contare di un processo di fecondazione reciproca particolarmente efficiente, dovuto alla presenza di fiori poco visibili sia maschili che femminili sulla stessa pianta e l’ampia quantità di animali, tra cui soprattutto piccoli mammiferi, che sono inclini a trarre nutrimento dalla pletora delle loro ghiande. I molti rami bassi e facilmente accessibili, in tal senso, possono raggiungere le funzionalità di un vero e proprio ristorante, pur diventando nel contempo un’importante vulnerabilità, soggetta al distacco e caduta in terra una volta che l’albero invecchia, perdendo il suo vigore di un tempo. Non che ciò possa avvenire particolarmente presto, visto come sussistano negli Stati Uniti esemplari di quercia viva la cui presenza è attestata da oltre quattro secoli, essendo diventati delle presenze beneamate dei propri distretti, regioni o stati. Tra i più famosi sarebbe impossibile non citare, ad esempio, la Quercia delle Sette Sorelle di Mandesville (LA) così chiamata perché collocata in un terreno di proprietà della Sig.ra Doby, la più anziana di una nutrita discendenza proveniente da una singola unione familiare. Colei che, tutelando e preservando l’eccezionale albero del diametro di 12 metri ed un’altezza di 17, riuscì a farlo registrare dopo l’anno 1934 come “presidente” della Società Americana delle Querce Vive, trattandosi effettivamente dell’esempio di maggior stazza di uno di questi alberi che è ancora possibile ammirare in tutto il suo incrollabile splendore. Altrettanto importante a suo modo, il leccio Angel Oak di John Island vicino Charleston, South Carolina, che con i suoi 8,5 metri di circonferenza e 20 d’altezza costituì storicamente uno dei pochi luoghi dove bianchi e persone di colore erano soliti trascorrere tempo assieme all’inizio del secolo scorso. Tanto che si afferma che il suo tronco sia ancora circondato, occasionalmente, dagli spiriti (o angeli) delle vittime perite ove sorgeva il vicino mercato di schiavi di un tempo. Alberi entrambi, questi, soggetti alla teoria lungamente paventata del fatto che potesse trattarsi di una pluralità d’individui cresciuti a stretto contatto, piuttosto che il singolo esemplare arbustivo, almeno finché con metodologie moderne non fu dimostrata la provenienza da un singolo sistema di radici ciascuno, confermando la loro iscrizione all’albo delle piante più notevoli di tutti gli Stati Uniti. Oggi ammirata principalmente da lontano, la quercia viva era di suo conto nota ben prima del contatto con gli Europei alle popolazioni Native Americane, che facevano uso dell’olio estratto dalle sue ghiande nella medicina tradizionale ed in cucina, così come i tuberi formati occasionalmente dalle radici, mentre le foglie verdi dalla superficie particolarmente lucida venivano intessute tra loro nella costruzione di tappeti, stuoie o tende. Un altro utilizzo, particolarmente insolito, prevedeva l’usanza da parte di alcune tribù di piegare i giovani alberi affinché crescessero diagonalmente, così da diventare riconoscibili punti di riferimento topografici o marcatori di sentieri importanti. Un trattamento forse non piacevole per la pianta, che tuttavia essa era perfettamente in grado di tollerare continuando comunque a crescere rigogliosa e forte.

Chi può dire, veramente, di aver conosciuto alberi più impressionanti di questi? Allo stesso modo in cui risultano esserlo, in molte maniere, i manufatti costruiti con il loro legno. Vedi il destino della nave citata in apertura che molti anni dopo l’ultimo importante conflitto anglo-americano, avendo circumnavigato il globo e compiuto innumerevoli missioni sotto l’egida della sua bandiera stellata, avrebbe assunto il soprannome di Old Ironsides (la vecchia “fianchi corazzati”) entrando a pieno titolo nello scarno catalogo delle imbarcazioni militari giudicate degne di essere preservate. Restando fino ad oggi, come ben pochi avrebbero potuto prevedere, perfettamente solida ed in grado di navigare pur essendo stata rimossa dal servizio attivo, mantenendo nella propria struttura principale una buona parte dell’antico legno di leccio utilizzato originariamente per costruirla, proveniente dalla collina di Gascoigne Bluff in Georgia.
Là dove piovre plurisecolari, intrecciando i contorti rami, ci ricordano la forza e l’impressionante capacità di resistere del verdeggiante principio universale. Anche quando sottoposto, in maniera del tutto imprescindibile, alla pressione ed il continuo sfruttamento da parte dei comparativamente effimeri esponenti della civiltà umana. Le cui generazioni continuano a succedersi indefesse. Le cui asce si abbattono, instancabili, sull’esposta spina dorsale del mondo.

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