Mefistofele col suo strumento musicale


L’aria di Lucifero, la sinfonia di Satana, il componimento di Pazuzu, la mazurca di Belzebù. È scritto con il sangue tra le pagine senza sostanza del folklore, che il diavolo si annoia nell’eterna attesa del distante giorno, certo come il fuoco dell’Inferno, in cui Gabriele, Michele e gli altri arcangeli, discesi nella tenebra infuocata per la prima e ultima volta, porranno fine al suo regno del terrore senza rèmore e alla sofferenza di coloro che non possono conoscere il perdono. Perché loro per primi, non hanno mai compreso il senso delle loro gesta. Ma l’ansia e la costante memoria, la consapevolezza di una simile spada pronta a roteare, come per il supplizio di Tantalo e di Loki, coloro che conobbero la punizione che sublima l’anima ancora prima che venisse lui per farne un’arte, non vogliono per forza dire che l’attesa debba essere del tutto priva di bei momenti.
Asmodeo ha parecchi passatempi. Egli colleziona pipe, il cui fumo conosciamo come cenere che fuoriesce dai vulcani. E appende spesso quadri alla parete, con un trapano che induce i terremoti. Ma ciò che ama, più di ogni altra cosa, è scrivere e produrre dei componimenti, la cui esecuzione annienta la ragione, cancellando ogni speranza dal cuore di coloro che, per loro massima sfortuna, sono condannati ad essere i vicini del suo loft. Una delle possibili definizioni della parola “musica” secondo i dizionari, è “Suono o insieme di suoni particolarmente melodioso, armonioso o gradevole all’udito” e lo stesso Mark Korven, nel definire ciò che emette con la sua ultima invenzione, costruita con l’aiuto del liutaio e amico canadese Tony Duggan-Smith, dimostra una certa comprensibile cautela nella scelta dell’appellativo per ciò che produce strimpellando quelle corde maledette da Dio e dall’uomo. Eppure, nel presentarla al grande pubblico, non manca mai d’indossare giacca nera, calzoni neri e fare un’espressione seria e distaccata, quasi come non volesse far sembrare che la sua opera di esecutore giunga dal profondo del proprio cuore. Bensì… Da un altro luogo. Lo stesso in cui corre a rifugiarsi la mente umana, quando un senso opprimente d’ansia l’attanaglia, facendoci tornare, per qualche breve e allucinante attimo, i rettili dotati di un cervello che controlla solamente le reazioni. Senza neanche un grammo di ragionamento. Senza pace, senza sosta. È in effetti un gran peccato che nel mondo cinematografico manchi, la figura di un compositore o altro tipo di direttore artistico auditivo, che si dichiari specialista in qual particolare genere, dei film cosiddetti dell’orrore (colui che abbiamo già citato, dal canto suo, ama chiamarle commedie della domenica mattina). Quando l’assassino o il mostro, insidiando al sua vittima del tutto impreparata, può contare sul commento auditivo di sempre quegli stessi effetti sonori, le solite quattro note messe in croce, il canto sommesso dei violini e il rullo di tamburi distanti. Il tecnico del foley è una figura estremamente creativa eppure, in genere, anche un acuto tradizionalista. E ci sono molti modi in cui una porta possa cigolare, o il vento, far battere le imposte della casa dell’orrore. O forse sarebbe meglio dire che: non ci sono state fino ad ora.
La “Macchina dell’Apprensione” (Apprehension Engine) è un’agglomerato di elementi che non farebbe sfigurare il mostro di Frankenstein, per come il suo omonimo creatore aveva operato, cucendo assieme parti provenienti da cadaveri molto diversi tra loro. Essa è composta di una cassa di risonanza in legno, da cui protrudono due manici dotati di paletta da chitarra, completi di corde assicurate all’altro lato dell’improbabile dispositivo. Il primo non troppo diverso da quello dell’estremità più grave di una chitarra, mentre il secondo collegato ad un sistema con manopola rotante non troppo dissimile dal cuore dello strumento a corde medievale della ghironda (vedi precedente articolo). Ma ovviamente non finisce qui, visto che come Duggan-Smith racconta, non senza un senso di spiritosa rassegnazione, Korven gli ha fatto sostanzialmente svuotare i cassetti dell’officina, chiedendogli d’integrare nella sua creatura ogni sorta di bizzarria in grado di produrre sonorità del tipo da lui ricercato. Come una fila di stecche metalliche dalla lunghezza variabile, da far vibrare o accarezzare con l’archetto, producendo una sorta di sovrannaturale ed inquietante miagolio. E la camera riverberante a molla, nient’altro che un recipiente con un condotto snodato ad “S” del tipo concepito per la prima volta negli anni ’30 del 900 dall’americano Laurens Hammond per il suo famoso organo da chiesa. La cui funzione, in questo caso, è quella usuale di creare l’illusione che ogni suono prodotto derivi dal fondo di un lungo corridoio o sala, ma anche di essere percossa direttamente, producendo un rimbombo metallico dal tenore decisamente alquanto suggestivo. A completare il repertorio, un paio di riccioli d’acciaio sulla parte superiore, dall’impiego non eccessivamente dissimile dai righelli centrali, e alcune stecche molleggiate, che una volta colpite producono schiocchi, vibrazioni, colpetti. Un piccolo ma potente magnete, nel frattempo, può essere spostato a piacimento, attraendo delle probabili biglie metalliche alla base di un improvviso tonfo occasionale. Ma il principale segreto dell’apparato ha un tenore decisamente più moderno, funziona a batteria e si chiama Ebow…

Il maestro nel suo antro parzialmente insonorizzato. Una stanza vuota, con pavimento cupo, plastica alle finestre a alla porta. Non vorremo certo far entrare i corvi, o scappare l’anima immortale dei dannati…

La più importante classe di suoni da impiegare nel commento a un film concepito per suscitare paura è ovviamente, quella che sembra impossibile all’orecchio e per la mente umana. Proprio in questo, va ricercato, l’originale diffusione in questo genere del fischio modulato prodotto dal Theremin, strumento inventato nel 1919 dal fisico sovietico Lev Sergeevič Termen, in grado di tradurre il campo elettrico di due mani umane in una sorta di sussurro qualche volta meramente fastidioso, certe altre, a dir poco terrificante (non che manchino, nel vasto scenario musicale, persone in grado di usarlo per produrre un qualche cosa di più allineato con il bello in senso tradizionale). Mentre l’Ebow dal canto suo, abbreviazione di “archetto energetico” è il prodotto di un bisogno percepito per la prima volta dal musicista Greg Heet nel 1969, a Los Angeles, di un modo per prolungare e modulare all’infinito un qualsiasi suono della chitarra. Si tratta di quell’oggetto simile a una spillatrice che viene fatta camminare sulla sua prima coppia di corde, proprio accanto a quelle del sistema a manovella, non disdegnando d’impiegarlo anche direttamente sulla camera riverberante, alla ricerca di un boato che ricordi vagamente il grido di dolore del mondo stesso. Ausilio sfruttato con profitto per la prima volta dai Grateful Dead, ma anche da numerose altre band rock ed heavy metal, passando per cantautori e musicisti famosi della musica Pop. In Italia l’hanno usato, ad esempio, Carmen Consoli, Raf e Ligabue.
Sarà palese, a questo punto, il fatto di trovarci di fronte a uno strumento e un suonatore dall’intento decisamente sperimentale. Il che, analizzando la sua storia professionale, parrebbe fare da sfondo ad una specifica e continuativa visione d’artista. Mark Korven nasce a Winnipeg, in Canda, e si appassiona fin da bambino al creare musica finché nel 1977 si iscrive al Grant MacEwan Community College di Edmonton, con specializzazione in jazz e musica orchestrale. Nel 1987 succedono due cose: produce il suo primo album da solista, con un discreto successo, ed intraprende per la prima volta un sentiero che finirà per trovare estremamente congeniale: quello di comporre musica per i film. Dopo la sua prima partecipazione a I’ve Heard the Mermaids Singing di Patricia Rozema, cura per un lungo periodo la colonna sonora di decine pellicole e serie TV dei generi più diversi, finché nel 1997, quasi per caso, il regista americano-canadese Vincenzo Natali non lo coinvolge nel progetto del suo film sperimentale dell’orrore Cube, relativo ad un gruppo di persone all’interno di un pericoloso edificio sovrannaturale, intrappolate per ragioni e con modalità ignote. Una sorta di diabolica precursione del Grande Fratello? Ma il suo ritorno a questo genere sarebbe giunto solo nel ben più recente film del 2015 the Witch (o The VVitch, come è assurdamente scritto nella locandina) del regista debuttante Robert Eggers, film in costume ambientato nel XVII secolo in New England che verte sul problema difficilmente trascurabile di ospitare una praticante delle arti oscure in una piccola comunità rurale. Quando parla di tale produzione, Korven racconta come fosse rimasto quasi istantaneamente colpito dalla verve creativa del regista, che lui arriva a definire come “una sorta di giovane Ingmar Bergman.” Con una sua visione precisa ed uno stile estremamente coerente, in cui la musica è soltanto la parte di un tutto. Ed è proprio in tale aneddoto, sostanzialmente, che si può cogliere l’essenza della sua creatività.

Per il commento audio di the Witch, Korven non disponeva ancora dell’Apprehension Engine. Il principale strumento utilizzato, dunque, fu la Nyckelharpa della tradizione svedese (affine alla ghironda) che qui vediamo suonata in maniera eccelsa dal musicista Thomas Roth. A quanto pare fu proprio un’esecuzione simile, durante i provini, a colpire profondamente il regista del film.

C’è stato un momento, l’attimo di un importante rivelazione durante la creazione di questa pellicola, racconta il musicista in un’intervista rilasciata a FilmGamesEtc, in cui gli riuscì di comprendere finalmente qualcosa di fondamentale, in grado di eluderlo fino a quel momento della sua lunga carriera. Che non sempre il compositore per il cinema deve realizzare il suo stile personale: poiché egli ha in effetti, spazi differenti per farlo, ben lontani dalle partecipazioni a un qualche cosa che dovrebbe essere massimamente riconoscibile, in ogni suo aspetto, come il prodotto di una singola mente d’artista. E racconta di come Eggers, lavorando assiduamente con lui per giorni e giorni, l’abbia aiutato a trasformare il suono del suo astruso strumento a tasti svedese in un vero e proprio personaggio del film: essenzialmente, la presenza quasi tangibile, ma eternamente costante, del diavolo in persona. Niente trilli improvvisi, squilli allarmanti, ritmi sincopati nello stile de Lo Squalo spielbergiano, che tanto ha influenzato i film di suspense a partire da quel fatidico ’75. Soltanto un senso d’ansia latente, a far da sfondo allo svolgimento di una storia in grado di lasciare un segno profondo nella memoria.
E se questo è il risultato, direi che c’è decisamente da esserne più che soddisfatti. The Witch, con un budget di appena 3 milioni di dollari, è riuscito ad incassarne 40, ottenendo il plauso collettivo della critica internazionale. Che ne ha lodato in modo particolare, inevitabilmente, la strana colonna sonora, priva di un chiaro genere di appartenenza. Il che non può che aumentare l’aspettativa per la prossima collaborazione cinematografica di Korven, che pare sarà relativa all’imminente, ennesimo remake del grande classico del cinema muto, Nosferatu, in uscita ad ottobre con la regia David Lee Fisher. Questa volta, sfruttando un qualche cosa che mai prima d’ora, l’orecchio umano aveva neanche concepito, ovvero il sibilo nefando dell’Apprehension Engine. Comunque vada, sarà infernale. Ora se soltanto un maggior numero di case di produzione fossero disposte a correre un rischio oppure due, piuttosto che incoraggiare sempre le solite, dannate (è il caso di dirlo) soluzioni…

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