É possibile che una semplice automobile, mezzo per spostarsi da un luogo all’altro, possa giungere all’umanità in guisa di formidabile rivelazione, salvandola da se stessa e mutando il corso della Storia? Quasi certamente, no. Eppure, essa può salvare un uomo. Quando Richard Buckminster Fuller, colui che sarebbe diventato un grande filosofo, architetto ed inventore americano, si avvicinò nel 1927 alle sponde gelide del lago Michigan, trasferitosi a Chicago all’età di 32 anni, non aveva più nulla, neanche un dollaro a suo nome: reduce da un’ambiziosa business venture messa in piedi assieme al suocero, era andato in fallimento alla scoperta che dopotutto e nonostante la logica, il grande pubblico americano non era interessato ad acquistare case prefabbricate leggere, impermeabili e antincendio. Nel 1922 sua figlia di quattro anni, la beneamata Alexandra, era deceduta per complicazioni dovute alla poliomelite, un fatto per cui lui non aveva mai smesso d’incolparsi, fino al punto di sprofondare in una lieve forma d’alcolismo. Quello stesso anno, inoltre, aveva avuto con la moglie una seconda figlia, Allegra, aumentando le spese a cui la famiglia stava per andare incontro. La sua unica speranza, a quel punto, gli sembrava il suicidio, affinché la famiglia, in sempre maggiore difficoltà, potesse almeno incassare i soldi della sua assicurazione. Se non che nel giorno scelto per il gesto, secondo quanto lui stesso avrebbe raccontato successivamente sui palchi della scena internazionale, lui ebbe una sorta di catartica rivelazione: camminando verso la fatale riva nella foschia dell’inverno americano, si ritrovo all’improvviso a colloquiare con l’Universo; ed esso stesso gli parlò, dicendo: “Tu, essere umano, non appartieni a te stesso ma sei parte del grande Tutto. Per questa ragione, non hai il diritto di toglierti la vita. Da quest’oggi, dovrai applicarti nel tradurre la tua esperienza in un vantaggio per la collettività.” E già da quel momento, probabilmente, egli stava intravedendo quella forma oblunga dell’invenzione che sarebbe rimasta, nonostante i molti altri successi conseguiti nel corso degli anni successivi, la sua singola creazione più famosa: la Dymaxion Car (unione delle tre parole Dynamic, Maximum e Tension, termini che avrebbero costituito il filo conduttore della sua opera completa).
Nel 1928, Fuller pubblicò i disegni per un nuovo concetto di veicolo, da lui definito quadridimensionale. Un termine matematico che voleva riferirsi, per analogia, al concetto di questo etereo mezzo di trasporto in grado di spostarsi indifferentemente attraverso l’aria, l’acqua o lungo il suolo. L’idea era evidentemente idealizzata, ma non abbastanza da sembrare impossibile, al punto che nel 1930 il facoltoso investitore finanziario e socialita Philip Pearson decise di offrirgli 5.000 dollari (non pochi a quell’epoca) affinché si giungesse alla produzione di un prototipo funzionante dell’idea. Ma Fuller, che nel frattempo aveva ereditato i soldi della madre recentemente venuta a mancare, si era dato all’insegnamento universitario ed aveva acquistato una rivista d’architettura sulla quale pubblicare le proprie idee, si era già risollevato finanziariamente, e fu subito diffidente dell’entrata di denaro inaspettato. Così fece famosamente firmare a Pearson un’assurda clausola del loro accordo, definita “del gelato”, secondo la quale lui, se l’avesse voluto, avrebbe potuto sperperare l’intera somma nell’acquisto dei gusti cioccolata, vaniglia, etc. Ma questi, nonostante tutto, la firmò ed a quel punto, il futuro era segnato.
Chiamare un simile mezzo un prototipo stradale sarebbe come definire la Quinta di Beethoven una mera sinfonia, oppure il ponte di Brooklyn un tratto d’autostrada sopra il mare. Nel 1933 Fuller aprì uno stabilimento a Bridgeport, nel Connecticut, ed assunse il progettista navale Starling Burgess per assisterlo nelle questioni più tecniche dell’impresa. I due assunsero inoltre 27 operai, dopo averli scelti da un’enorme pool di candidati. Questo perché nel frattempo era iniziata una delle più gravi crisi economiche della storia, ed alle loro porte avevano bussato più di 1.000 persone, disperate esattamente quanto il loro potenziale capo lo era stato, soltanto pochi anni prossimo a cercare quella prematura fine di se stesso. Ciò che fuoriuscì dalla catena di montaggio, in tempo per la Fiera Mondiale di Chicago del 1933-1934, doveva rappresentare soltanto il primo passo verso il Veicolo Totale, una sorta di stato larvale di quella splendida farfalla che sarebbe nata di lì a poco.
Era sostanzialmente, soltanto la configurazione di terra di un simile apparato leggendario, ovvero il suo stato intermedio, in cui Fuller aveva pensato di mettere alla prova uno degli aspetti più problematici del sogno definitivo, ovvero far percorrere il suolo ad un veicolo leggero e aerodinamico, senza che le forze trasversali del vento lo portassero ad un prematuro cappottamento. L’inventore aveva più volte dichiarato che la Dymaxion era un veicolo incompleto, non pensato per la produzione in serie e finalizzato unicamente alla sperimentazione, quindi senza un particolare riguardo per la sicurezza di utilizzo. Nonostante questo, le case automobilistiche ne restarono colpite e lui ricevette ordini da alcune personalità famose, tra cui l’aviatrice Amelia Mary Earhart, di ritorno dalla sua storica trasvolata solitaria sull’Atlantico nel 1932. Ne furono costruiti, quindi, tre prototipi, di cui il primo era lungo ben 6 metri e poteva portare a bordo fino ad 11 persone. É importante notare che in quegli anni il concetto stesso di un minivan era del tutto nuovo, per non parlare della configurazione improbabile dell’automobile, del tutto diversa da quelle esistite fino a quel momento. La Dymaxion aveva infatti solamente tre ruote, due davanti ed una dietro sterzante, grazie alla quale poteva vantare un’arco di sterzata pressoché nullo. Sensazionali furono alcune dimostrazioni dell’epoca, in cui l’auto veniva fatta girare su stessa come una carriola imbizzarita. Aveva una forma aerodinamica estremamente bizzarra, simile a quella di uno Zeppelin, che offriva un campo visivo estremamente ampio sulla strada. Un periscopio specchiato, fatto passare attraverso la copertura in tela, permetteva di guardare indietro senza voltarsi. Era inoltre dotata di un motore ad alte prestazioni della Ford, che poteva permettergli, in determinate condizioni, di raggiungere la velocità notevole di 160 Km/h. Nonostante questo, al di sopra degli 80 il retro dell’automobile tendeva a staccarsi dal suolo nella sua parte posteriore, costringendo chiunque la guidasse a restare concentrato ed applicare un giusto grado di cautela. Ma l’incidente mortale che avrebbe condizionato il fato dell’automobile e dell’intero progetto non fu causato da colui che la guidava. Il 27 ottobre del 1933, all’ingresso della Fiera Mondiale, la Dymaxion fu colpita lateralmente dall’auto di un procuratore cittadino, ribaltandosi lateralmente. I due passeggeri a bordo, l’ambasciatore della Francia e William Sempill, pioniere del volo nonché nota spia, si salvarono, mentre il pilota dell’auto, Francis T. Turner, perse la vita. I giornali dell’epoca ne fecero una storia sensazionalistica, dando grande rilievo alla foggia inusuale del veicolo ed affermando, probabilmente con qualche misura di ragione, che un mezzo convenzionale non avrebbe subìto nelle stesse condizioni un tale tragico cappottamento. Lo stesso Fuller, anni dopo, si sarebbe del resto trovato in un simile incidente (quella volta fortunatamente senza gravi conseguenze) a bordo del secondo prototipo della Dymaxion Car.
Così l’ipotesi della produzione in serie e successivo potenziamento dell’insolito mezzo di trasporto naufragò, dovunque tranne che nella fervida mente dell’inventore, che continuò a coltivarlo e connotarlo nel campo della libera teoria. Continuando a costruire sopra quello che per lui era soltanto il primo passo di un progetto omnicomprensivo, Fuller creò l’ipotesi di un’umanità che sfruttasse le risorse limitate del suo pianeta con il massimo ritorno d’investimento, come fossero le provviste di una nave spaziale lanciata nell’esplorazione del cosmo, senza alcuna possibilità di ricevere rifornimenti. Si trattava in realtà di un concetto metaforico risalente al 1878, creato dal giornalista americano Henry George, che tuttavia lo scienziato e filosofo successivo portò alle estreme conseguenze materiali, giungendo ad un ricco ventaglio di soluzioni ingegneristiche, che l’avrebbero reso celebre nel corso dell’intera prima metà del XX secolo. Importante fu il suo lavoro nel campo delle cupole geodetiche, il concetto di un edificio di forma semi-sferica sorretto da una struttura intersecante poligonale, che sarebbe stato usato nel corso dell’intera guerra fredda per proteggere le cupole radar del NORAD, site in regioni artiche ed inospitali. Una di queste cupole fu anche donata all’Italia, nel corso di una sua conferenza tenutasi a Spoleto, dove tutt’ora rimane a costituire l’arena di occasionali spettacoli o presentazioni. Fuller, che era un vero polimata eclettico e totalmente scevro dal senso comune, fece anche un esperimento sulla sua stessa vita a partire dagli anni ‘20, che lo portò a dormire per un lungo periodo soltanto 30 minuti ogni 6 ore, come fatto da alcuni cani o gatti, un processo che lui definiva sonno Dymaxion, ovvero come dicevamo sopra, a “tensione dinamica massimizzata”. Nel 1943 ne consiglio l’adottamento da parte dell’intero popolo americano, dichiarandolo la via per vincere immediatamente la seconda guerra mondiale. Per un lungo periodo documentò inoltre ogni singolo evento della sua vita, annotandolo su un diario ad intervalli esatti di 15 minuti. Il titolo dell’opera, ritenuta l’autobiografia più completa di un’intera vicenda umana: Cronsitoria Dymaxion, naturalmente.
Tra le sue altre creazioni, va certamente citata la casa Dymaxion, il concetto per un prefabbricato di forma circolare sostenuto da un unico palo centrale, come una sorta di yurta mongola ma in lamiera di metallo, fornita di soluzioni tecniche particolari per la conservazione dell’acqua e dell’energia. Tra le personalità interessate al progetto, lo scrittore di fantascienza Robert A. Heinlein (l’autore di Fanteria dello spazio) il cui preordine, purtroppo, fu disatteso. Oggi l’unico prototipo ancora esistente della casa è conservato presso museo Henry Ford di Detroit.
Delle tre auto costruite originariamente da Fuller due sono andate perse, la prima a seguito dell’incidente del ’33, la seconda in un incendio del 1941 dovuto all’impropria manutenzione da parte della compagnia di bibite che l’aveva acquistata, come ausilio pubblicitario ai suoi prodotti. Pare che il tappo della benzina si fosse svitato durante la marcia, causando un’incendio che bruciò l’intera automobile, fortunatamente senza vittime. Il terzo protipo, venduto passato di mano in mano più volte, è stato ritrovato dal documentarista Noel Murphy, autore di The Last Dymaxion: Buckminster Fuller’s Dream Restored (2012) in un granaio ricoperto dalla ruggine e dal guano. Doversoamente restaurata presso una rinomata officina inglese, l’automobile si trova oggi presso National Automobile Museum di Reno, in Nevada. Le due auto moderne mostrate nei video in abbinamento all’articolo, per la cronaca, sono le ricostruzioni successive create rispettivamente nel 2010 da Sir Norman Foster, architetto ed ex studente di Fuller e quella del Lane Motor Museum, provata nel 2015 dagli inviati del Wall Street Journal, che la trovarono “Oggettivamente, piuttosto pericolosa da guidare.”
Un sogno trasversale ed interdisciplinare, sorto dalle acque di un lago come la spada leggendaria di Re Artù, ingegnere: che Fuller avrebbe cambiato il mondo, in quell’epoca di assoluta disperazione personale, era un proposito piuttosto remoto. E nella realtà dei fatti, per le lunghe e complesse tribolazioni del ‘900, un’utopia sostanziale, destinata a rimanere sogno di una pipa piena di speranza ed…Altre cose. Ma la filosofia di un uomo come questo, in grado di pensare fuori dagli schemi alla ricerca di una via coerente per la crescita collettiva e la rinascita del concetto stesso di utilità, era un terreno fertile che ancora sta dando i suoi frutti, verso il corso delle interminabili generazioni. Macchine volanti? Navi che percorrono lo spazio interstellare? Tutto è possibile, nei vertiginosi anni a venire. Ma il primo dirigibile su ruote ha già percorso queste strade all’epoca dei nostri nonni, mentre il mondo tratteneva il fiato, tra una guerra e l’altra.