Queste ineccepibili frittate giapponesi

Takanoyaki

Non hai davvero vissuto finché non affondi gli incisivi centrali e tutti i tuoi canini nella consistenza morbida di un giallo concentrato e sagomato, che cedendo dolcemente s’apre per lasciare fuoriuscire i liquidi, la salsa e qualche volta, addirittura l’essenza alcolica del sake leggero, l’imprescindibile mirin. Ehi, tu. Si, tu: sappi che nel tempio mistico della cuociologia applicata, sostenuto da colonne nella foggia di posate e con bacchette sovrapposte al posto di pantografi legnosi, ciascuna forma ha singolo significato, collegato al gusto ed al sapore di un qualcosa. Il dolce è romboidale chiaramente, il salato ha gli spioventi lati di un trapezio, l’umami d’amido incorporeo è triangolare. Mentre ciò che è sferico per sua prerogativa, non può che preannunciare la preparazione dell’involucro per eccellenza, il pegno nascituro dei pennuti di ogni foggia, forma e dimensione l’Uovo. Ma per te gallina, che non hai viaggiato con il becco e/o con la mente, coccodé non c’è davvero un modo di abbellirlo, che non sia basato sull’aggiunta di qualcosa. Giusto, chiricchì? Come la pizza che veniva lanciata l’altro giorno verso chi passava salutando, per le strade di una Napoli entusiasta e con su scritto W il Pàpa, la sostanza con il guscio fa da tela del possibile in cucina. O in alternativa, fondamenta per quello che serve all’occorrenza, giammai decorazione in grado d’autosostenersi. Tondi ellissoidali che in principio sono sempre uguali (salvo anomalie piuttosto rare, come doppio-rosso o tutta-chiara) trovano l’applicazione in molti campi: sbattute o riscaldate, sode, diluite. Quindi il vero nesso delle uova resta la purissima frittata.
Non c’è davvero un altro piatto, inteso come contenuto dello stesso e non ceramica disposta sulla tavola, metonimia ripetuta tutti i giorni, che sia al tempo stesso tanto conosciuto e chiaro nella sua purezza metodica d’intenti. Puro-uovo, tutto-tondo, solo-quello, cotto al punto giusto per gelificare le sue proteine, affinché ciò che era liquido diventi fluido non-esattamente newtoniano. Perché è proprio questa semplice stregoneria, sovvertite le primarie leggi della fisica, a donarci un gusto che è il momento più mirabile di molte colazioni, da un lato all’altro di uno strano viaggio delle alternative. Così negli Stati Uniti quella cosa, prende il nome di pancake, ricoperto di fluidifico sciroppo d’acero grondante calorie, lubrico e sporchevole rivolta al conformismo dei Corn Flakes; così in Europa Occidentale è l’omelette, tacciano gli amanti dell’italianismo quel primato e dei francesi. L’ormai internazionale gesto di disporre la gustosa polpa d’uovo su tondissime padelle, intrappolando l’aria sotto di esse perché possa generare bolle, approccio alchemico alla morbidezza.
Lo stesso Napoleone, si racconta, di passaggio con le sue schiere d’armigeri verso l’ennesima occasione di conquista, si fermò presso il paese di Bessières, Haute-Garonne nel sud della Francia, dove il locandiere ebbe ad offrirgli un piatto d’uova tanto perfetto ed appetibile che il condottiero dichiarò: “Sia fatto grande, per l’intero esercito” E così fu. Da allora ogni anno, nei giorni di Pasqua, la piazza del paese ospita pantagrueliche padelle benedette dall’arcivescovo di Tolosa in persona, entro le quali viene fatto palesare lo strumento giallo contro il demone temuto della fame. Chissà che avrebbe detto il grande Tokugawa. Frittatine, frittatone, che c’importa della dimensione. Quel che conta è la sublime…Precisione. Punto fermo del Giappone!

Takanoyaki, fa di nome, ed è fantastico a vedersi. In quella che viene definita “La pietanza più facile della cucina giapponese” ma che richiede pur sempre una certa dose imprescindibile d’agilità, l’uovo sbattuto e attentamente mescolato con zucchero, salsa di soia, mirin e/o katsuoboshi (filetti di tonno grattugiati) viene attentamente versato all’interno di un apposito tegame a pianta quadrata, ben oliato dal passaggio di una pezzettina untuosa. Quindi cotto a fuoco intenso. Già mentre l’impasto solidifica, il cuoco viene chiamato a compiere quel gesto che assomiglia stranamente a chi produce la katana, la spada mitica per tante volte ripiegata. Si prende, in sostanza, quella frittata e la si gira con solida presa di bacchette su se stessa, affinché ricopra solamente una metà del suo metallico luogo di sussistenza. Ciò affinché si realizzi un perfetto parallelepipedo, come una torta da tagliare a fette e poi portare sotto gli occhi appassionati di entusiasti commensali. Non a caso questo piatto viene spesso definito il sushi d’uovo, che ad esso si richiama per l’innata precisione, l’estetica attentamente calcolata e la praticità di consumazione, paragonabile a quella di un prodotto dell’industria di confezionamento moderna.
Ulteriore caratteristica del takanoyaki, rispetto alle innumerevoli alternative occidentali, è una cottura relativamente lunga, tale da privare l’uovo della sua naturale umidità. Tanto che il risultato sarebbe alquanto stolido e insapore, se non fosse per l’apporto delle salse e gli ingredienti aggiunti da principio. Ma non tema, chi ama le uova relativamente poco cotte (giusto quanto basta per uccidere la salmonella?) Ben descritte con quella graziosa espressione in lingua inglese che ricorre tra gli appassionati di pancake, FLUFFY. Proprio lì in Giappone c’è un cuoco che potrebbe diventare il vostro eroe:

Kyoto Omurice

Ecco Motokichi Yukimura, all’opera nel suo ristorante KichiKichi di Kyoto, mentre prepara la versione personalizzata di un grande classico della cucina del suo paese: l’omu-rice オムライス – ovvero l’omelette di riso. Tale nome curioso, scritto esclusivamente con l’alfabeto katakana tipico dei termini stranieri è in realtà uno di quei singolari agglomerati linguistici che vengono definiti wasei-eigo (l’unione di una parola giapponese con l’inglese) e non a caso tale commistione trae l’origine dalle modalità creative dell’incontro fra i princìpi del mangiare nazionale e ciò che viene da lontano. Consiste, essenzialmente e nella sua forma classica, di un’omelette che avvolge una porzione di riso fritto impreziosito con verdure miste, tra cui erba cipollina ed aglio, funghi e carne di vario tipo, soprattutto pollo. È un piatto particolarmente amato dai bambini, che durante la fase imperialista del Giappone dello scorso secolo costituì l’unica esportazione culturale duratura verso i paesi occupati a forza, come la Corea e Taiwan, dove è ancora preparato in ottime varianti locali. Ma la versione fatta da Motokichi nel suo ristorante, ecco: è tutta un’altra cosa.
La sua prassi operativa, ancor maggiormente influenzata dalla cucina francese, prevede la plasmazione del riso nella forma approssimativa di un ferro da stiro (ha uno stampino fatto a tale scopo) mentre una frittata pressocché cilindrica viene preparata a parte, nell’approssimazione di un giallissimo baco da seta, attentamente cotto in modo appena sufficiente perché il fuori sia solido, mentre l’interno semi-liquefatto. Tale astrusa creazione, quindi, viene accuratamente disposta in equilibrio sopra quanto di dovuto e proprio sul bancone, dinnanzi ha chi ha ordinato la pietanza. Affinché il cuoco-demiurgo, con un sorriso aperto e sincero, possa praticare un taglio chirurgico sopra la sommità e dunque…Aapoteosi! La frittata si apre esattamente in mezzo e ricade, con incedere vulcanico, ai lati del monticello fumigante di gustoso riso. Non ci sono parole. Completa la presentazione uno strato di quella salsa fatta con il brodo di carne che i francesi chiamano demi-glace, mentre noi italiani, molto più semplicemente, il fondo bruno.
Entrare. Da turisti, durante un giro nell’antica capitale del paese, in un ristorante dalle influenze marcatamente occidentali, dove ti aspetteresti di trovare un’atmosfera a metà tra il familiare e il misterioso, magari un sincretismo di cucine differenti. E invece si palesa, dinnanzi ad occhi spalancati, l’evidente metodo millenario di coloro che preparano pietanze con metodi estremamente giapponesi, nonostante fossero note ai loro predecessori da appena una breve manciata di generazioni. Dopo tutto davvero, l’incontro a tavola non è MAI un’occasione di compromesso. Ma la moltiplicazione delle parti coinvolte, fino al raggiungimento di nuove vette delle aspettative culinarie umane.

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