L’acqua che non poteva galleggiare

Cenote Angelita

Che strana sensazione. Sospeso silenziosamente a 4 metri dalla superficie, scruto verso la cupezza di un fiume abbandonato. Nessun pesce sembra muoversi tra le sue acque, ma rami secchi, alberi e sterpaglie putrescenti ne marcano la riva, freddamente. Pare quasi di volare. Dopo un breve attimo di confusione, rivolgo lo sguardo verso l’alto: 22 densi metri mi separano dall’aria respirabile. Sono dentro un lago, coperto da una grotta, sopra un corso d’acqua del tutto indipendente. Questa è la profonda cenote di Angelita, con il suo pozzo di brina turbinosa. L’assurda meraviglia liquefatta dello Yucatan, penisola del Messico sud-occidentale, che attira gli speleologi subacquei da ogni angolo del mondo, con quel suo fascino sinistro, l’emblema di un supremo luogo misterioso. Percepisco già il pericolo di un orrido veleno, l’idrogeno solforato; sarà meglio risalire. Dissolvenza… In blu.
Non è, tale resoconto, soltanto il soggetto di un quadro surreale, ma storia vera di un vasto e sorprendente mondo. Sarà, dunque, molto meglio approfondire. Il fatto è che nell’antichissima regione mesoamericana, resa prospera dagli ancestrali centri dell’Impero Maya, per ciascuna ziggurat che si protendeva dalla terra, c’era sempre stato un buco, grossomodo equivalente. L’antitesi del monte Purgatorio, girone dell’eterna conseguenza, timida trivella di un mantello lavico e perduto. Che poi si trattasse di un semplice cratere, come quello generato dal meteorite dei compianti dinosauri, di una voragine carsica, una caverna oppure un lago sotterraneo… Ce n’erano di ogni foggia e dimensione. Qualche volta, come nel caso specifico, dentro al foro c’era pure il mare. Che c’è ancora. Stiamo parlando, per l’appunto, dei cenote, ovvero le grotte sommerse risalenti al Pleistocene, simili a dei profondi laghi circolari. Come lagune segrete, le loro polle d’acqua dolce furono rese impermeabili da strati di calcare, residui delle vaste glaciazioni. E in alcuni casi, vista la vicinanza con la costa, ricevettero pure il dono di affluenti, fiumiciattoli con l’acqua salata dell’oceano. Un vero maelstrom d’opportunità.
La casta sacerdotale dei popoli pre-colombiani, che ben conosceva queste grotte, usava definirle ts’onot, oppure “un chiaro segno degli dei vendicativi”. Vi gettava dentro statue sacrificali, con finalità di offerta placatoria. Qualche volta, se ce n’era donde, le accompagnava con gustose teste umane. Del resto i luoghi di passaggio, da quando esiste la cultura umana, furono sempre collegati con la morte. Persino tra le sue simili, tuttavia, la cenote di Angelita fa eccezione.

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L’aracnide mostruoso sulla faccia

Vinegaroon

Questi enormi scorpioni non sono per niente come gli altri. Tanto per cominciare, non pungono; il che, va detto, può anche fare comodo. Specie quando te li metti sopra il naso. Ma che fantastica idea! Sarebbe quasi da imitare. Peccato che non siamo in Costa Rica. Felicemente paralizzati dal terrore, con sguardo fermo e distaccato, avremmo potuto scrutare dritti dentro la suprema fonte di un metodo di difesa strepitoso, tremendo ugello della dannazione… L’invertebrato dell’ordine thelyphonida ha tutte le carte in regola per fare concorrenza ai più (s)gradevoli tra i nostri animali domestici, comprese le robuste chele palpatorie, la lunga coda a forma di scudiscio e le due ghiandole in prossimità dell’ano. Ed è proprio in funzione di quest’ultime, che nei paesi a lingua spagnola lo chiamano amichevolmente vinegaron (pl. vingarones). La ragione sta tutta nell’odore. Pare infatti, ma non prendetemi in parola, che quando disturbato, l’animaletto abbia l’abitudine soave di rilasciare una sottile nube d’acido irritante, avente il caratteristico profumo dell’aceto (vinegar). Decisamente meglio questo, rispetto alla reazione di un comune gatto. Comunque, non c’è problema. Basta tenerlo ben lontano dagli occhi..Err, nevermind.
Dunque, si potrebbe ingenuamente dire, siamo giunti a questo. Tutto può valere, nella difficile ricerca della fama internettiana? Persino la tortura dell’angoscia? No. In realtà, l’origine di un gesto tanto alternativo, ferocemente fuori dal comune, va rintracciata da un diverso presupposto. Stare sulla faccia dell’umano, molto probabilmente, piace al vinegaron. Però così è pure per costui, che si è tanto allegramente offerto a tale scopo. Insieme sorridono per la telecamera, in quel momento di assoluta comunione, l’uomo e l’aracnide, come faremmo noi con Fido, tirando palle a un caro cane. L’amico di una vita. Perché il due-zampe protagonista dell’evento è Quaoar Power, alias memutic, titolare di una pagina Facebook ricca d’informazioni entomologiche, con la passione di tutto ciò che striscia, zampetta o svolazza in giro per il mondo. Protagonista su YouTube di affascinanti viaggi, doverosamente raccontati, fra il Sud America, l’Asia e l’Est Europa, ha ripreso farfalle, bruchi, ragni e scarafaggi di ogni tipo. Qualche volta si è pure fatto pungere, per il bene della scienza.
Cose come queste, comunque, neppure lui le ha fatte tanto spesso. Perché scatti questa molla dell’interconnessione, bisogna trovare l’animale giusto, sufficientemente flemmatico e tranquillo. Gertrude, si chiamava lei. “Ger-truuh-de, luce della mia vita, fuoco del mio cefalotorace…”

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Squali ninja negli abissi del Pacifico

Thresher Shark

Kusarigama, la falce a catena. Tokusho keiboil bastone nascosto che si allunga all’occorrenza. I guerrieri dell’ombra, fin dall’epoca dei samurai, combattono impiegando strumenti tutt’altro che usuali. Altrettanto avviene fra le pieghe occulte delle onde, miei cari amici marinai. Otto seghe se ne vanno con le pinne, per altrettanti parenti della razza, della manta e degli squali. Nove carnivori a martello, con grossi occhi azzurri sui lati contrapposti della testa, tripudio d’organi elettrici per la navigazione. E una spada. Può bastare. Xiphias gladius, l’ultimo pesce nella sua intrepida famiglia, ramingo dei mari tropicali. Perfetto portatore di un arguto soprannome, pronto per trafiggere chiunque osi sfidare la sua sopravvivenza. Come “loro”.
Le armi, a seconda dei paesi, variano di foggia e di misura. E con esse cambia chi le impugna, più o meno coraggiosamente, sul bagnato campo di battaglia: grossi guerrieri corazzati, dotati di asce bipenni, pesanti mazze; tartarughe nuotatrici? Oppure soldati elastici e flessuosi, con frecce dalla punta penetrante, cercatori di un punto debole scoperto. Gli squali lamniformi, dal canto loro, sanno bene adattarsi all’ambiente circostante. A un tale vasto, variegato ordine di pesci predatori appartengono diversi volti noti, antagonisti di documentari sensazionalistici e impossibili film dell’orrore: il temuto squalo bianco, ad esempio, e l’elegante mako (con pinne corte o pinne lunghe) gli squali salmone o coccodrillo. Campioni della catena alimentare, comunque minacciati, purtroppo, dall’inarrestabile mano dell’uomo. Dei loro prossimi parenti, si può ben dire, sappiamo quasi tutto. Tranne che… Sono, queste insolite creature, visitatori delle acque più orientali del Pacifico, fra l’arcipelago nipponico, quello delle Filippine e l’isola di Taiwan. Chiamiamoli, dunque, per nome. Alopias pelagicus, sarebbe il primo, l’altrimenti detto squalo volpe. Misura circa 3 metri di lunghezza, vive a 100 di profondità e il suo metodo di caccia può stupire: usando la stupefacente coda, spesso lunga quanto il resto dell’animale stesso, colpisce prede sventurate, come sgombri, ittiococchi e piccole barracudine.

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La sconfitta del trattore troppo nuovo

Steam Tractor

C’è ancora forza in queste vecchie ossa, sciocco agricoltore. Il potere dei secoli, degli anni e dell’acciaio antico, che si risveglia sotto il duro sole di un’insolita giornata. Fumando a perdifiato, da due pesanti ciminiere, verso il grigio cielo. CHOO, CHOO! Questo sorprendente video, comparso sul canale YouTube di una rivendita di pezzi di ricambio (MillarsTractor) dimostra come le cose di una volta, per quanto meno sofisticate rispetto a ciò che abbiamo adesso, possano talvolta primeggiare, persino nell’ambito imparziale della forza pura. Presentiamo, come prima cosa, i due possenti lottatori: da una parte, con la riconoscibile colorazione gialla e verdolina, il non-plus-ultra delle macchine agricole moderne. Un trattore diesel dell’iconico produttore John Deere, quattro-ruote proveniente dal fertile Illinois. 850 temibili cavalli di potenza, circa due tonnellate, o poco più, di stazza. Dall’altra, il torreggiante mostro. È molto difficile, persino per gli appassionati che ne preservano l’eterno mito, giungere a identificazione di un mezzo come questo. Ciascuno li adeguava al suo bisogno, senza criteri di rappresentanza. In Inghilterra li costruivano, a cavallo dell’anno 1900, e poco dopo pure lì, sulle frontiere d’oltreoceano, riciclando le competenze dei costruttori ferroviari, veri apripista del distante West.
La Rivoluzione Industriale non fu come un fulmine improvviso, in grado di cambiare tutto da un momento all’altro. Le sue molte implicazioni, figlie dell’ingegno, vennero esplorate gradualmente. Sulla spinta galvanizzante dell’inarrestabile vapore. Sostanza energizzante usata dapprima, timidamente, nelle fabbriche o per i telai dei tessitori, poi racchiusa dentro attrezzi ponderosi, su queste forti ruote. Motori portatili, amavano chiamarli, benché richiedessero un tiro completo di cavalli, terreno pianeggiante e un alto grado di pazienza. Li vendevano ai coltivatori, per far battere le motozappe, mettere in funzione pompe, magli spaccapietre; finché, un bel giorno, qualcuno non capì la straordinaria implicazione. Che una simile potenza, in grado di svolgere difficili mansioni, poteva pure muoversi senza l’aiuto delle bestie. Quell’uomo inquisitivo era Thomas Aveling, “L’esperto metallurgico ed ingegnere agricolo” che usava spesso dire: “Usare sei cavalli per trascinare in giro un motore è come trainare una vaporetto con sei barche a vela.” Così, sfruttando la scintilla d’utile anarchismo, andando contro tutto e tutti, lui prese una catena, la fece scorrere dall’albero di trasmissione fino ad un pignone, poi alle ruote. E andò felice, verso l’orizzonte.

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