Il volo del pilota addormentato

Trackmania PF

Le automobili di Trackmania sono prive di sostanza, come fossero fantasmi del concetto stesso di velocità. Non hanno leva del cambio, né volante, né cinture di sicurezza sui sedili. Il cofano è dipinto, il portabagagli non si apre. Sono definite, in fin dei conti, unicamente dal continuo movimento. E poiché i piloti non risiedono all’interno del veicolo, rischiando il proprio collo su ogni curva, hanno l’abitudine di scatenarsi presso pascoli spietati. Le piste virtuali più indimenticabili del mondo. Perché a farle sono loro, i giocatori. L’esperienza, in questi casi, è davvero galoppante solo quando guida i suoi partecipanti (piuttosto che il contrario). Guardate qui che roba! Dalla linea di partenza fino all’incredibile traguardo, 6 minuti di avventure, salti, voli e giri della morte. Con un singolo segreto, tuttavia: solo un tasto. Da premere con il dito medio, “W”. Tutto il resto va da se. E vivavivavivaviva-viva, tutto d’un fiato, si ode il canto del motore digitale, sulla pista tridimensionale e così via…Chi si ferma!
Originalità, virtù. La celebre serie di giochi di guida acrobatici della software house Nadeo presenta almeno due quantum di profonda distinzione. Il primo è quel suo essere pensato fin da subito per l’interazione tra perfetti sconosciuti, chiamati a correre sui server sparsi in giro per il mondo. Chiunque abbia provato a cimentarsi online con un simulatore semi-serio, vedi Gran Turismo, ben conosce la problematica di certi avversari scorretti o guidatori incapaci, che con due sportellate strategiche ti rovinano la gara. E poiché non c’è onore tra i ladri delle prime posizioni, il gioco da quel punto si trasforma in un terribile autoscontro, con rincorsa vendicativa e conseguente distruzione del fair play. Non qui, non ora. Come potrebbe mai succedere, con delle auto tanto trasparenti, intangibili e totalmente incapaci di scambiarsi la vernice… Un’idea davvero pratica e conveniente, soprattutto, perché semplifica notevolmente la programmazione della fisica di gioco. Questi francesi!
Il secondo merito, quello maggiormente celebrato dalle recensioni, resta sempre l’editor di piste. Cinque anni prima di Little Big Planet, lo zuccheroso pupazzetto senza-contesto della Sony, dalla Francia già ci avevano affidato gli strumenti per Creare. Le possibilità, fin da quel remoto 2003, furono letteralmente infinite. Liberi da considerazioni ingegneristiche come la consolidazione strutturale, poggiavamo le alte palafitte in fondo ai canyon dell’imprescindibile immaginazione. I nostri voli pindarici, stilisticamente simili alle avventure automobilistiche di Hard Drivin’ (1989) Stunts (1990) ci portavano a miglia di distanza dalle rigide imposizioni dell’asfalto troppo vero, noioso, a volte, quanto il traffico dell’ora di punta. Le migliori sottoculture nascono con un preciso manifesto, lo scopo dichiarato della loro sussistenza. Poi cambiano, perché decadono dall’epoca dell’oro. Ciò che viene dopo è sempre godibile, proprio perché imprevedibile.

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La cosa che divora i nostri cari pescecani

Smithsonian Channel Tag
Pubblicato da Smithsonian Channel

Chissà cosa avrà provato il ricercatore marino Dave Riggs, sulla bianca spiaggia di un’Australia incontaminata, nel momento fatidico in cui recuperava la targhetta usata per l’amica carcarodonte, la ruvida ragazza comunemente detta Grande Squalo(a) Bianco(a). Certamente avrà pensato a quanto saldamente l’aveva assicurato, quel dispositivo, sulla candida pinna dorsale della ricevente, mediante l’utilizzo dell’apposito bastone. La memoria di una fiocina pietosa, questa, che rimandava giustappunto lì vicino: a sole due miglia e mezzo di distanza. E poi l’uomo avrà iniziato, perché no, a congratularsi con se stesso per il successo della sua operazione etologica/marina, portata a termine proprio in quei preziosi giorni. Attività, questa, concepita per studiare i movimenti degli squali attorno alle isole dell’Oceania. Un altra scatola nera da scartare, miracolosamente ritrovata grazie al GPS! Il profilo termico, i movimenti verso il ripido fondale…Che meraviglia, wow, la tecnologia. Finché: ohibò, però, strano! Avrà esclamato strabuzzando gli occhi: “Lei dov’è?”
Una domanda veramente preoccupante.
Nelle paludi ristagnanti dell’isola di Sumatra, tra vegetazione putrida e arbusti marcescenti, nuotano i paedocypris progenetica. Non c’è alcun pesce, in tutto il mondo, dal profilo meno significativo. La femmina di questa specie misura meno di otto millimetri, mentre il maschio, al massimo, se vogliamo esagerare, una decina. Muovendosi all’ombra delle serpeggianti radici di mangrovia, le due piccole metà si nutrono di organismi microscopici, pseudo-plankton d’acqua dolce, gamberetti non più grandi di un pidocchio. O altri peduncoli invisibili, per noi bipedi quadrìmani, senza l’uso di una lente. Quindi, al culmine della loro breve vita, questi ciprinidi depongono le 20 uova trasparenti. E sono immortali per definizione, simili creature grame, proprio perché insignificanti, degne per un pelo solamente, d’essere eucariote. Se la loro membrana cellulare fosse stata un poco più sottile o la spina dorsale meno sviluppata, probabilmente, non li avremmo neanche detti “pesci”. Stanno a un passo prima dell’artropode ameboide. E questo è certamente il minimo comune denominatore, di un qualunque ipotetico contesto evolutivo. Anche extraterrestre. Mentre l’opposto, il culminare delle cose gigantesche, ebbene…Non lo conosciamo affatto! Ossa ponderose, lunghe quanto sommergibili, ci parlano di bestie titaniche, dimenticate. Al tempo del Devoniano, o ancora prima, sul finire del remoto Siluriano, i pesci avevano mascelle corazzate. Erano detti placodermi, simili possenti nuotatori, ed avevano la dentatura comparabile a quella di un futuro discendente operativo: il tirannosauro. Torniamo per un attimo a 370 milioni di anni fa, per dire, giusto l’altro ieri: presso le coste del neonato continente Nordamericano, come a largo dell’Europa, si aggirava un mostro marino lungo 10 metri, dal peso niente affatto trascurabile. Fino a 7 tonnellate. Era lento, l’impervio dunkleosteus, quanto inesorabile. Nessuna piovra delle origini, né affamato iper-carnivoro avrebbe mai potuto penetrare le sue placche ossee, mentre lui, tranquillamente, divorava il mondo intero. E lo fece, fino all’ultimo dei suoi perduti giorni. 

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Spararsi una birretta in senso letterale

Hey Pass Me a Beer

Vola, canzone dei Bee Gees, trasmetti la novella in giro per il mondo. Poesia mia, possa il dio Apollo trasportarti sul suo carro celeste verso le biblioteche e le magioni letterarie. Colomba della pace, imponi la tua candida presenza sulle moltitudini agitate. Stella cometa, triangola la posizione di Betlemme! È letteralmente fondamentale, del resto, che taluni messaggeri siano al di sopra dalla necessità di camminare. Angeli & Demoni & altre categorie…Dal grado variabile di ragionevolezza. Nella mitologia tratteggiata da Virgilio nell’Eneide, la Fama, quella risonanza delle gesta umane, sarebbe stata una creatura simile ad un mostro uccelliforme, che nascondeva sotto le sue piume centinaia d’occhi, orecchie e lingue per parlare. Che orrore! Già i Latini conoscevano il concetto d’Eteri, sostanze impalpabili attraverso cui si propagavano le soggettività. Mentre noi, oggi, letteralmente li mettiamo a frutto, per motivi largamente commerciali. Guardiamoci intorno, qualche volta, tanto per cambiare: proiezioni di onde radio che grondano messaggi pubblicitari. Servizi GPS che tracciano precise linee dai satelliti geostazionari. E poi gli ideali lanci di prodotti, fondamento stesso dell’economia di massa. Il marketing è fatto in questo modo: se vuoi trafiggere il bersaglio, dovrai cercare di far colpo. Proprio per questo, Internet è ricca di persone che si danno da fare con delle prove d’abilità assai particolari. Il loro campo è un’arte soave quanto antica: il tiro al bersaglio. Tutto ebbe inizio 2012 con due cugini del Milwaukee, Jake e Jack, alle prese con lattine straordinarie, per uno sketch del celebre provider d’intrattenimento Funny or Die.
Per la cultura popolare festaiola, assai probabilmente, non c’è Etere più significativo della birra. La troviamo celebrata nelle scene cinematografiche, nelle serie TV americane o in certi tipi di fumetti, come nettare che preannuncia l’ora della ricreazione. Agli adulti con la testa sulle spalle, appesantita da roboanti responsabilità, basta berne un sorso per ri-trasformarsi in ragazzi pieni d’entusiasmo, pronti per guardarsi la partita o mettersi di fronte all’ultimo bizzarro videogame venuto dal Giappone. Questa gloriosa, irreprensibile Fama della birra, si riflette dunque nello stile promozionale delle compagnie produttrici, un po’ epico e allo stesso tempo dotato di una fondamentale componente: il naïf, la teorica spontaneità.

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Musica di Lamborghini & Samurai

Perturbator She is Young, She is Beautiful

Il nuovo video musicale di Perturbator, tra gli autori della colonna sonora di Hotline Miami, è un concentrato di estetica e stilemi cyberpunk. Intitolato, assai appropriatamente, She is Young, She is Beautiful, vede la protagonista correre sulle autostrade di un’immaginifica località statunitense, con gli emblematici occhiali a specchio de La notte che bruciammo Chrome. Si tratta di uno scontro, ad un’analisi più approfondita, tra umani e macchine, la razza robotica degli incubi catastrofisti, qui generata, in qualche modo, dalle tenebre dell’iperspazio. Soltanto lei, come rappresentante del concetto di eroina fantastica dei primi anni ’90, guerriera con la katana molecolare e il giubbotto da motociclista, può evocare lo strumento salvifico della pantera cyborg trasformabile, uscito dritta dritta da un dischetto del Commodore Amiga. Ci sono nette corrispondenze visuali, tra questa sequenza in stile retrogaming e alcuni significativi titoli dell’epoca citata. La Countach con la strada ripresa in prospettiva, con il punto di fuga largo pochi pixel, come in Crazy Cars (1988) oppure Lotus Esprit Turbo Challenge (1990). La belva feroce, per niente dissimile dall’antagonista leonino della prima sequenza di Another World (1991), il capolavoro di Eric Chahi. Lo stile illustrativo ed i colori al neon delle sequenze d’intermezzo di Flashback (1992) ma con una protagonista al femminile che ricorda quella del manga Ghost in the Shell di Masamune Shirow, uscito giusto l’anno prima.
Erano, questi, momenti selvaggi tra le alterne maree dell’intrattenimento digitale: fuoriusciti finalmente dall’interminabile monopolio giapponese, voluto e fortemente sostenuto da Nintendo, l’Occidente riscopriva un settore ormai dimenticato. Fuoriuscendo dalla botola anti-atomica del Vault, lasciava correre lo sguardo verso nuove fantasie: laddove prima albergavano le astronavine di Asteroids, l’astrattismo fantascientifico di Tempest o le montagne vettoriali del vetusto Battlezone, ora c’era una distesa di potenti bytes, la landa vergine delle opportunità. Per la prima volta, oltre a far premere i bottoni, si potevano narrare delle storie. 16 bit non è soltanto un termine dal peso matematico, ne mai lo fu: quel mondo di tastiere beige, con mouse squadrati e joystick rumorosi, fu per molti un traghetto verso i pilastri letterari del fantastico, piuttosto che l’ambito creativo del fumetto. C’era un senso di costante futurismo che oggi, assai più vicini all’ideale grafico e tecnologico, anche intellettualmente, stiamo sempre più perdendo.
Seppure le ragioni sono molte, la principale a mio parere resta l’eccessiva disponibilità di potenza tecnologica, che facilmente trae in errore chi ricerca un facile guadagno. Finché ciascuna sequenza d’intermezzo, completa di colonna sonora, occupava un’alta percentuale spazio sui limitati supporti digitali, vigeva il regno del gameplay. Per ciascun gracchiare del drive, a seguito di ogni macchinoso swap di floppy disk, lo sviluppatore ben sapeva che doveva farti avere in cambio qualche cosa. Roba Memorabile. Gli automatismi portano all’indifferenza. Ci sono, ad oggi, giochi che pesano 30, 45, 60 gigabyte. Durano 200 ore, di cui forse, il 2% sono un film, con tanto di attori celebri e congrui investimenti nel motion capture. Tutto il resto è…

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