Fatine viventi? Anche un ologramma ha il suo perché

Holo Fairy Lights

L’alba in cui l’aria che vibra affascina l’occhio allarmato: luci nematiche, fate di fuoco. Pura magia tecnologica. Dice il racconto che un team di scienziati (ingegneri? Ottici? Druidi del cerchio ulteriore?) delle università di Tokyo, Utsunomiya, Nagoya e Tsukuba, abbian studiato un sentiero nuovo, di fumo e di specchi, per far della luce scintille, ed a queste donare una forma. Fin qui, niente di nuovo. Lo spettacolo volumetrico degli spiriti eterei si è visto talvolta, negli show laser delle disco e i teatri di questo mondo. Ma pur sempre lontano, per meglio stagliarsi su di un fondo nero, sfuggendo alle mani dei troppo curiosi. Perché in effetti focalizzare la luce in un punto preciso, all’interno di un gas che sia in grado d’illuminarsi, significa renderlo incandescente. E non tutti hanno la pelle d’acciaio incombustibile, anzi, diciamolo: quasi nessuno. In questo la nostra novella è speciale: come mostrato nel video, realizzato a sostegno della presentazione di questo assurdo fenomeno al SIGGRAPH, la grande conferenza sulla grafica computerizzata, questi spettri non sono soltanto tangibili, ma cambiano se li tocchi. Ciò grazie all’impiego di un diverso tipo di laser, che invece di pulsare al ritmo di un nanosecondo (sufficiente per ustionare) lo fa ad intervalli di un femtosecondo (un milionesimo di miliardesimo di…) Così: una fiammella volante di un centimetro cubo, in rotazione sull’asse del suo vagheggiare, non aspetta altro che il dito dell’uomo, per trasformarsi nella ragionevole approssimazione di Trilli, microscopica amica di Peter Pan. Facendo tuttavia a meno di quella personalità scoppiettante, l’insistenza didascalica, la voce stridula e petulante, ahimé?
E da quella leggiadra figura si sviluppa il crescendo, la visualizzazione virtuale del tutto: figure geometriche, lettere dell’alfabeto, cuoricini, piccoli loghi fluttuanti nel buio assoluto. Ciascuno, mirabilmente, in evoluzione sull’asse del tempo. Ma non soltanto per il semplice passaggio di quest’ultimo, bensì grazie all’interazione diretta di una possibile utenza. Né il video, né la documentazione del progetto (per il resto piuttosto completa) si dilungano eccessivamente nella spiegazione del come venga rilevato il “tocco magico” che da il via a tali mutamenti, benché non sia affatto difficile immaginare un sensore ad infrarossi passivo, per esempio, che riveli l’introduzione di un corpo estraneo nell’area del plasma eccitato dal loro complesso sistema. Applicazione tutto sommato quasi automatica, del concetto di un ologramma che non necessiti di struttura di contenimento, né alcun tipo di ostruzione solida costruita attorno. Un aspetto maggiormente interessante, semmai, è il fatto che poiché il rilascio dell’energia nei punti luminosi sia comunque relativamente significativa, questi ultimi diventino percettibili al tocco, offrendo una sorta di feedback haptico, o kynestetico, che dir si voglia, un pò come la vibrazione di un certi cellulari all’attivazione di opzioni sul loro touch screen. Così la virtualizzazione si guadagna una forma apparente, per una volta, non soltanto visuale, ma pure fisica ed immanente. Almeno finché c’è corrente.
Si tratta di un gioco, per ora, e in effetti è difficile immaginare applicazioni pratiche non legate all’intrattenimento di un simile meccanismo, benché il team di ricerca citi tra le altre cose dei segnali fluttuanti da usare in caso d’emergenza, come un incendio, che indichino la migliore via di fuga in base a quante siano le persone in corsa verso l’uscita. Aggiungerei, personalmente, un altro potenziale impiego di quel tipo per così dire responsabile, venendo in aiuto alle persone affette da disabilità visive, dato che l’immagine può essere percepita al tatto. La tecnologia potrebbe rivelarsi un valido modo per visualizzare col tocco concetti di vario tipo, anche notevolmente complessi. Certo, purché si riveli scalabile a misure ben maggiori: un centimetro cubo è decisamente un po’ poco, per fare ciò. Il che, del resto, è tutt’altro che impossibile almeno in teoria. Volete sapere come funziona un tale miracolo della scienza? Ecco…

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Pecorelle costruite senza il filo da cucito

Felt Sheep

Naturalmente il 2015 è l’anno della pecora e dunque non c’è niente di meglio, per finire il mese di Gennaio, che introdurre dentro casa propria un esemplare o tre di quelle classica tipologia di ruminante. Che non sarà buona da mangiare quanto il maiale né la mucca, ma del resto ha un ottimo vantaggio funzionale: può fornire quella lana, tutta quella lana calda e morbida e piacevole da includere nel proprio abbigliamento. Basta un prato ed una stalla, basta avere tempo per giocarci e fargli compagnia. Fino al giorno della tosatura. Svegliarsi una mattina, con l’uovo di gallina e un po’ di latte nella tazza, le forbici ed i ferri da cucito già perfettamente pronti ed affilati perché oggi, magari, un golf. Domani certamente il mondo (*del commercio digitalizzato grazie ad Etsy, Pinterest e tutti gli altri). Una pecora è un investimento, come l’assicurazione. Né si può soprassedere, del resto, sulla limpida soddisfazione di riuscire a far le cose da se; come i praticanti dell’antica arte dell’autosufficienza, per cui nulla importa, tranne il Sole, il mare, l’animale.  Il fiore, l’ago, il muro, il pane, il copricapo e lei, la pecora. Naturalmente. Calda, candida botte di vino.
Ma c’è un approccio nello specifico, quello praticato dalla scaltra ed abile creativa Maqaroon, al secolo Joanna Zhou, che potrebbe risultare maggiormente attraente agli aspiranti allevatori di Merino, Lacaune o similari; ha qualcosa a che vedere nella soluzione scelta per l’approccio produttivo, con le pratiche esteriori del Voodoo. In quanto consiste nell’approccio per creare in un effige l’animale in questione, usando il materiale frutto concettualmente imprescindibile di quella stessa creaturina: lana ben cardata, tutta aggrovigliata o per usare un termine dalla maggiore concisione, feltro, panno mobido e follato. Che non è proprio un tessuto e di sicuro non potevi trarne un pezzo d’abbigliamento, ma presenta i bei vantaggi di essere piuttosto malleabile, di riuscire a mantenere la sua forma. E soprattutto, di avere fibre tanto larghe da poter incorporare gli altri lembi di se stesso.
Così nasce questa idea piuttosto divertente, forse del tutto nuova (non saprei) per cui la praticante si procura una ricca serie di battufoli piuttosto colorati, li appallottola con cura, poi li unisce ed ecco come. Pugnalate, pungolate, infiocinate, l’una dopo l’altra e reiterate, lungo i punti maggiormente utili allo scopo. Finché alla fine, mirabile a vedersi, il tutto regge e resta insieme. È una forma di lavorazione tessile che sfiora il concetto della piccola scultura, eppure è semplice, nei suoi principi. Forse l’esempio più valido, proprio perché accessibile, resta questo delle tre pecorelle sovrapposte con il frutto sulla testa, che riprendono la forma del kagami-mochi, un popolare dolcetto giapponese per il nuovo anno, fatto con l’impasto di riso pressato, la cui duplice forma sferoidale rappresenterebbe, per la tradizione, l’incedere delle generazioni. Così, signora mia. Una pecora dopo l’altra, si perpetra la sequenza, direttamente dal prato, al consumatore, alla mensola della cucina. Dove alberga il sentimento di un secondo pupazzetto, parimenti rilevante alla gustosa situazione…

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Che succede se si forgia l’alluminio

Forgia di barattoli 1

Che c’è di meglio, per contrastare l’improvviso gelo di un finale d’anno all’insegna degli orsi polari, che la fiamma imperitura dell’industria? Mettersi a giocare, tra l’ora di pranzo e il primo pomeriggio, con un mucchio di carbone, qualche barattolo e un fuocherello da 1800 gradi Fahrenheit. I quali saranno pure, tanto per dire, meno della metà in Celsius. Questo è vero. Ma risultano comunque sufficienti: 1 – per scaldarsi un po’ le mani. 2 – Per forgiare l’alluminio, ma dai?! Una pratica nobile ed antica. Un passatempo per spericolati hobbisti, bevitori della quotidiana Coca-Cola e Fanta oppur Red Bull. Il primo passo nella costruzione autogestita di una fusoliera d’aeromobile, il primo strumento del moderno gentiluomo, assieme al bastone d’ebano e la pipa del Barone Rosso. Strani passatempi, questi di cui si ritrovano i tutorial, di un’epoca ancora più bizzarra: quando la limitazione della conoscenza, per effetto dell’onnipresente Internet, si è dileguata. Lasciando il posto solamente alla coscienza, ovvero quell’omino che ti fa: “Sarà veramente il caso che io prenda un gran barattolo di ferro, lo riempia di calce e pozzolana e poi ci faccia un fuoco dentro, tanto caldo da squagliare la struttura cristallina del metallo?” Rischiando di soccombere, irreparabilmente, alla potente tentazione di scoprire. Certo, è un esperimento potenzialmente periglioso, questo qui. Consigliato unicamente a chi capisce i rischi e le implicazioni di versare malamente il contenuto di un semplice crogiolo, anch’esso fatto in casa, puta caso pieno di fondant fuoriuscito dall’Inferno. Io personalmente, mi accontento di guardarlo online.
E quale miglior Virgilio, inoltrandosi fra tali valli del dolore fortunatamente solo potenziale, che Grant Thompson alias “The King of Random” (Il Re del Vagheggio) già inventore d’innumerevoli cerini-razzo, mini-balestre, torce-barattolo di tonno, catapulte per marshmallows et così via. Cose molto utili, talvolta, sempre divertenti, sia nella teoria che ad essere approntate, pregustando l’uso successivo. Ma mai così prima d’ora, mai su questa scala, di estrema baldanza e temerarietà. Il principio, in fondo, è molto semplice. Il punto di fusione dell’alluminio è di esattamente 660 gradi, appena il doppio, dunque, di quella di un forno elettrico di casa. Il che vuol dire che, anche senza manomettere costosi apparecchi da cucina, può bastare l’ingegno per tornare alla materia prima. Non come i nostri predecessori antichi romani, che scavata la bauxite, il minerale con maggiori componenti del prezioso allume, dovevano attentamente separarne polvere finissima, come l’oro dai ruscelli del Klondike. Perché non soltanto, oggi viviamo in una società industriale. Ma addirittura post-scarsità, in alcuni, significativi campi, come la chimica applicata ai materiali. Così ecco, che tutto quell’irraggiungibile materia (per inciso, l’alluminio è sempre stato il metallo più diffuso nella crosta terrestre) viene facilmente trasformata e resa utile, in diversi campi, incluso il duro e puro consumismo, l’usa e getta e così via. Tutte quelle lattine, che peccato! Poco importa del colore o del disegno sulla curvatura del cilindro, della marca e del logotipo che l’accompagna. Siamo sopra quella fase, ormai, nel misterioso e oscuro Dopo: alla Bat-rigenerazione, Zelda!
Dev’essere stato semplicemente emozionante. King ha preso quello che lui chiama un bucket (secchio) di acciaio galvanizzato ma a me sembra tanto una fioriera della nonna, e l’ha foderato nella parte interna di uno spesso strato di materiale isolante. Racconta, nella descrizione, di aver provato, nell’ordine: cemento, sabbia, perlite, acqua e persino la lettiera dei gatti. Trovando infine il mix ideale del 50% di intonaco parigino, 50% di sabbia da parco giochi per bambini. Quindi, in tale compatto pertugio, ha inserito la metà inferiore di un estintore faticosamente segato, perfetto crogiolo metallico, con giusto l’intercapedine lasciata libera per un generoso apporto di carbone. Vi lascio immaginare il seguito…

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Fabbrichiamo qualche punta con il vetro di ossidiana

ossidiana

Se soltanto potessi avere, come il cacciatore primitivo, un’invitante masso della pietra lavica effusiva, liscia e nera, frastagliata all’occorrenza…Ossidiana, oh si. Ne taglierei un corposo pezzettino, usando come cuneo l’ultima propaggine di un corno d’artiodattile, forse un cervo eppure non si sa. Magari un dinosauro! Lo percuoterei più volte con un piccolo sassetto, ricavandone un goccione dall’aspetto affascinante. Come l’orecchino di un gigante dignitoso. Quindi lentamente, accanendomi su quell’oggetto, lo renderei alla fine triangolare; ma con due tacche, per legarlo meglio ad un bastone. Poi lo lancerei…
I nostri antenati non erano di certo stupidi, anzi! Avevano soltanto meno mezzi ereditati dai progenitori. Anche noi, privati dei portali dell’e-Commerce di settore, dovremmo andare in giro per comprare gli strumenti della caccia. E magari senza i centri commerciali, invenzione anch’essa assai recente, finiremmo dentro a piccole botteghe di artigiani, dediti a quel campo da generazioni. O addirittura prima delle specializzazioni umane, un chiaro segno del progresso, saremmo andati in giro per i boschi, alla ricerca della pietra adatta al nostro anélito del giorno. Che avrebbe risposto, di volta in volta, ai bisogni di ciascuno: pensate a quegli ominidi Australopitechi, parecchio scimmieschi nell’aspetto, che si ritrovarono a scoprire l’uso degli attrezzi. Loro che per primi e soli, bipedi dominatori, decisero di stabilirsi in una Valle ormai Perduta. Non avevano una casa, né una valida misura d’umiltà. Ma il desiderio e soprattutto lo strumento, per trovare la ragione: l’antica pietra, palaios lithos, simbolo del Paleolitico di 2 milioni e mezzo di anni fa.
Fu probabilmente trascinante, addirittura epocale, l’attimo in cui la prima bestia cadde sotto il proiettile di una frana mai avvenuta. Bensì emulata, per mangiare, dalla mano lanciatrice di qualcuno; i cui figli, forse pronipoti (allora la tecnologia nasceva al giro di generazioni) arrivarono a capire che, si, non tutti i sassi sono uguali. Ce ne sono di pesanti, opachi, leggeri o trasparenti. E in rari casi, dotati della punta per trafiggere la dura scorza delle cose. Fossero anch’esse, metti caso, con gli zoccoli e gradevoli da consumare, sopra il fuoco di un primévo barbecue. Quindi perché non favorire l’occorrenza di una tale fortuita coincidenza? Anche se ci vuole olio di gomito ed applicazione, tanto vale trasformarle, tali pietre, verso il non-plus ultra della caccia. Era, questa in particolare, la Smith & Wesson degli antenati, un vantaggio nella vita vera. Si trovava esclusivamente nei dintorni dei vulcani. I primi strumenti fatti con un tale materiale, secondo gli studi archeologici più accreditati, risalgono soltanto a quel Neolitico di un intero milione d’anni successivo, quando già i cacciatori maggiormente coraggiosi si arrischiavano a sperimentare la fusione dei metalli. Un procedimento complesso e macchinoso. Niente a che vedere con la valida certezza, la perforazione di una freccia d’ossidiana.

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