Sopra i cieli della Russia, non chiedi via radio da che parte soffia il vento. Non ti preoccupi delle condizioni meteorologiche prima di cambiare rotta. Non eviti le basse pressioni, non guardi dal finestrino, non cerchi la via più sicura. Come per i 999.000 video su Internet in cui l’autista sembra avere uno strano senso d’orgoglio nel tentare il fato, accendi soltanto la telecamera sul cruscotto e… Fai quello che devi. È un’intera cultura fondata sulla risoluzione del problema, questa, in grado di produrre alcune delle figure tecniche più capaci del mondo. Ma anche persone che sono, per usare un eufemismo, poco inclini a rispettare il concetto di un codice comportamentale fondato su procedure di sicurezza dettate dal senso comune. L’aspetto più assurdo della faccenda qui mostrata dal misterioso canale di Ruslan Kristallovich, in effetti, non sembra provenire da uno show aereo, non è un’esercitazione estrema, né un prodotto dell’industria cinematografica del più grande paese al mondo. Quanto piuttosto uno di quei momenti in cui il pilota di un velivolo dal costo di circa 30-35 milioni di euro prende una posizione che potremmo definire alla Mario Kart, per finalità che esulano largamente dalla nostra percezione di una più logica e comprensibile realtà. Il luogo è incerto. Il contesto, non ne parliamo. Ma il susseguirsi di eventi non potrebbe essere più chiaro di così: siamo all’interno della stiva di un aereo da trasporto, molto probabilmente l’Ilyushin Il-76 da 46,5 metri di lunghezza, usato ormai da quasi cinque decadi per trasportare rifornimenti militari fino ad alcune delle zone più isolate dell’Eurasia, spesso in località prive di aeroporti sufficientemente grandi da permettere il suo ponderoso atterraggio. Ragione per cui è stato dotato di un portellone sul retro, dal quale gli avieri sono chiamati, volta per volta, a spingere fuori gli oggetti al centro della loro missione. In un primo momento, la situazione ha un solo personaggio: l’addetto allo scarico vestito con caratteristica maglietta a righe, niente meno che la telyshanka resa celebre a suo tempo dagli Specnaz, le leggendarie truppe speciali dell’ex-Unione Sovietica sul genere dei Berretti Verdi o del SAS britannico. Individuo talmente duro, costui, da non essersi dotato di alcun tipo di cavo di sicurezza, mentre si avvicina vertiginosamente al baratro per sganciare dei grandi pacchi di quelle che potrebbero essere munizioni, provviste… Scatole trascinate fuori dall’inerzia, una dopo l’altra, mentre il cavo di apertura automatica del paracadute svolge ogni volta il suo dovere agitandosi nel vento come una vipera tra l’erba della Siberia. “Nient’altro”, dunque, che una rischiosa operazione militare e la soddisfazione di un lavoro ben fatto, giusto? Se non che, giusto nell’attimo in cui si è conclusa l’operazione, qualcosa sembra entrare nell’inquadratura dal fondo della finestra offerta dal portellone dell’Il-76. Come due sciabole affiancate, le orecchie di un bianconiglio, subito seguite da una calotta semicircolare ed un gran paio di braccia aperte, cariche di missili aria-terra ed altri doni di Natale. A pochi metri di distanza. A circa un miglio di altitudine. A 600-700 Km/h di velocità. Se non fosse impossibile, diremmo proprio che si tratta di un Sukhoi Su-30, l’aereo ribattezzato dai paesi del patto NATO con l’appellativo di Flanker-C. Se non fosse…
Ma poi ci ricordiamo che si, siamo in Russia. Ed allora tutto è possibile! Siamo così di fronte, probabilmente, ad uno degli aerei di scorta dell’aerotrasporto, inviati a proteggerlo dal pericolo di intercettazioni, che si prende qualche attimo di svago a spese dei suoi commilitoni. Forse c’era di mezzo una scommessa. Magari, persino un sorso o due di vodka. La precisione dinamica con cui il grosso caccia multiruolo (14 metri di apertura alare) riesce ad avvicinarsi e quasi a toccare l’altro aereo, mentre le sue superfici di controllo lo equilibrano grazie al sistema computerizzato fly-by-wire, solleva ad ogni modo una serie di interrogativi piuttosto interessanti. Il primo fra tutti, in effetti, potrebbe dirsi il seguente: ma quanto diamine è manovrabile, effettivamente, il Sukhoi Su-30?
pericolo
L’aracnide che ha saputo terrorizzare l’esercito americano
Prima di Facebook, prima di Twitter e degli ubiqui smartphone, prima della Playstation 4 e persino del Wii U, la gente inorridiva in maniera decisamente più immediata. Poteva bastare una semplice e-mail. A patto che superasse i filtri antispam e il recipiente, in barba all’intrinseco senso di prudenza, fosse così ingenuo da aprire l’allegato. Si trattava di una shock image di primissima categoria: due soldati americani in uniforme, in uno scenario desertico, che osservano molto da vicino… Una creatura. Sollevata dal primo, mediante la canna del suo fucile, a una certa distanza da terra, benché le zampe da ragno fossero sufficientemente lunghe da riuscire toccargli quasi le caviglie. Il testo d’accompagnamento poteva variare, ma generalmente descriveva le caratteristiche de “l’essere più pericoloso dell’Iraq” in maniera terribilmente vivida e spaventosa. “Il camel spider” esordiva il mittente “Non lascia scampo. Questa creatura che può avere la dimensione di un piatto da portata, corre alla velocità di 40 Km/h e salta come un campione di basket, per aggrapparsi al pelo dei cammelli e deporre le sue uova nei loro stomaci. Il suo veleno paralizzante impedisce alle vittime di reagire, mentre le divora letteralmente un pezzetto alla volta. Se dovesse capitarvi di d’incontrarne uno, iniziate a correre più veloce che potete. Perché lui, senz’ombra di dubbio, cercherà di afferrarvi…” Seguiva l’inevitabile richiesta di soldi, magari per “Inviare l’insetticida ai nostri coraggiosi ragazzi al fronte.” Ben presto la voce iniziò a girare e una sorta di timore reverenziale prese a diffondersi lungo le vie traverse del primissimo social web. Era l’estate del 2008 dunque, quando un soldato inglese di ritorno dal Medio Oriente nella sua città di Londra, si ritrovò uno di questi esseri nascosto in valigia a sua insaputa. Così che sul tardi, nella giornata del glorioso rientro, l’animale saltò fuori ed andò a nascondersi sotto al letto del figlio di nome Ricky. Il quale, mentre apriva la cassettiera, se lo ritrovò camminare su una mano, gridando per il terrore. La madre accorse, assieme al barboncino di famiglia, che iniziò ad abbaiare disperatamente per difendere il suo padrone. I genitori chiamavano Ricky, il bambino correva, il ragno cammello era letteralmente sparito. L’intera famiglia, terrorizzata, abbandonò letteralmente la casa con l’intenzione di fare ritorno soltanto quando fosse stato possibile ritrovare l’aracnide, cosa che per inciso, non avvenne mai più. Qualche giorno dopo, all’apparenza inspiegabilmente, il cane morì. In quel preciso momento, il mondo iniziò a chiedersi se non ci fosse del vero anche nell’e-mail che voleva regalarti una macchina in qualità di visitatore n. 100.000, o quella sulle “donne singles nella tua area” che aspettano solo te.
Ora io non conosco la prognosi del malcapitato cagnolino, ma una cosa posso certamente assicurarvi: ad ucciderlo non fu l’aracnide clandestino. Poiché il ragno cammello (che non è un ragno, né un cammello) detto talvolta scorpione del vento (benché non sia neppure uno scorpione) semplicemente non possiede un veleno. Non avendo mai visto ragione di evolversi, nel corso della sua lunga storia, per possedere un simile ausilio alla cattura delle prede o l’autodifesa. Puntando piuttosto sulla sua superiorità fisica, la sveltezza e la rapidità negli spostamenti. Ma forse sarà meglio, a questo punto, applicare un distinguo. Poiché i Solifugae, secondo la tassonomia scientifica, non sono una singola specie e neppure una famiglia, bensì un intero ordine al di sotto della classe degli aracnidi, al pari degli Araneae, gli Scorpiones o gli Amblypygi. Pur essendo completamente diverso, per morfologia ed abitudini, da ciascuno degli altri citati. Ne esistono oltre 1.000 varietà distinte, diffuse nei deserti di tutto il pianeta, per i quali presentano una serie di efficaci adattamenti. Prima fra tutti quella che gli da il nome, o vero l’istinto a fuggire dal Sole, spostandosi nelle ore più calde soltanto se gli riesce a trovare l’ombra di una creatura più grande, ad esempio un cammello, che possa fargli scudo dal pericolo di surriscaldarsi. Ed è questa la ragione, incidentalmente, per cui più di un soldato di stanza in Afghanistan ritornò con la storia di “essere stato inseguito nel deserto da un ragno” giungendo comprensibilmente a temere per la sua vita. Simili creature sono in effetti piuttosto aggressive, pur non avendo neppure una forza sufficiente a perforare la pelle umana. E se messe alle strette sollevano minacciosamente i pedipalpi, spalancando le enormi zanne chelicerate non dissimili da chele di granchio e garantendo una dimostrazione guerriera d’indubbia efficacia. In quel momento, pur essendo tanto più piccolo, l’esserino è certo di poterti uccidere e potendo, lo farà. Ma qui finisce, assai probabilmente, la parte giustificata della sua cattiva reputazione.
Essere umano entra nel nido di vespe giganti
La sottile membrana tra l’esistenza e la non-esistenza si aprì, con un cigolìo determinato da anni d’incuria e non utilizzo. La maniglia bronzea del tipo rotante in senso antiorario sembrava più adatta alla porta di una stanza da letto che alla struttura di una piccola dependance, esposta quotidianamente alla furia degli elementi. Dall’interno del suo scafandro, l’esploratore ricordò quante volta aveva assistito a una simile scena. I soldati in equipaggiamento completo del film, e poi telefilm Stargate, pronti a combattere contro forze aliene mai neppure immaginate prima di quel momento. Gli operatori della simil-installazione Montauk tra le foreste del ben più recente Stranger Things, alle prese con il mostruoso regno del Sotto-Sopra. Nathan Drake nella serie ludica Uncharted, che fa rotolare da parte la porta di pietra prima di penetrare nell’ennesima versione di El Dorado o magnifica terra di Shangri-La. Ma così come non può esserci guadagno senza un certo grado di rischio, la realizzazione individuale è impossibile, senza la sofferenza. Allora con braccia aperte ad accoglierla, e un’espressione dura sul volto, egli ha varcato la soglia, determinato a osservare la Sofferenza che si alzava da terra, avvolgendolo col chiaro intento di soffocarlo.
Tutto è iniziato con un fantastico e inusuale rigoglio degli orti vegetali antistanti. I primi a sparire sono stati i dermatteri, anche detti le forbicine, subito seguiti dai vermi del legno, gli afidi e le altre creature fitofaghe nascoste sotto la corteccia degli alberi. Quindi se ne sono andati i bruchi, letteralmente sublimati nell’aria, con un senso di gratitudine diffuso tra gli agricoltori. Nessuno voleva porsi il problema, finché non hanno iniziato a scappare i bambini. Era l’usanza, qui a Patterson in Louisiana, come nel resto degli Stati Uniti, dire che quel particolare insetto non serve a nulla: la yellowjacket, o vespa dal dorso giallo. Un’entità (Vespula maculifrons) o gruppo di entità (aggiungere V. Squamosa e V. pensylvanica) nettamente distinte per il senso comune di questa nazione, rispetto ai calabroni o la Polistes dominula, vespa della carta europea. Intendiamoci, non che uno di noi, per strada, riuscirebbe a riconoscere l’una dalle altre. L’unica differenza esteriore del singolo insetto è infatti relativa alla disposizione delle macchie gialle e nere della loro livrea aposematica, quel giallo e nero concepito per spaventare i predatori. Ma chiunque noterebbe, dopo un certo tempo, la loro fantastica voracità. La differenza chiave tra l’una e l’altra genìa si rintraccia soprattutto nel loro senso di aggregazione comportamentale, che porta le vespe in questione, piuttosto che a costruire una pluralità di piccoli nidi all’interno del territorio da qualche dozzina d’esemplari ciascuno, verso l’urbanizzazione pesante di una vera e propria giganteggiante comunità. Migliaia, o persino decine di migliaia di individui, abituati a scavare per circa un metro in profondità del suolo, prima di iniziare a costruire i loro condomini segreti da difendere strenuamente col pungiglione. O ancora meglio, intenti a trovare un attico, un controsoffitto, una cantina abbandonata dove iniziare la propria nuova storia residenziale. Dodicimila cuori e una… Capanna. Immaginate dunque la prima reazione del proprietario responsabile di questo ambiente, quando alle reiterate segnalazioni dei vicini, ha finalmente deciso di recarsi in prossimità del vecchio ripostiglio, costruito sul proprio terreno secoli fa, per aprire lentamente la porta e vedere, come in un sogno, la spaventosa nube ronzante della Fine.
Nessuno vorrebbe affrontare un cane rabbioso, un lupo, un’orsa coi cuccioli determinata ad annientare la sagoma che si pone su suo cammino. Ma la realtà è che qualsiasi animale più o meno selvatico, per quanto arrabbiato, può in qualche modo essere tenuto a distanza se non addirittura sconfitto con l’uso di armi adeguate. Mentre non puoi difenderti attivamente da uno sciame. L’unica speranza è rendere più spessa la tua pelle, e candida e impenetrabile, grazie all’uso di una tuta protettiva dotata di casco integrale, guanti e calzature assicurate con generose dosi di nastro adesivo. E sarà meglio assicurarti che la tenuta sia sicura come quella di una tuta antiradiazioni, la cui funzione è assicurare all’operatore un’esistenza continuativa fino al giorno di domani. Perché in effetti, anche in questo caso, è davvero così. Lo dimostra, col suo coraggio e spirito del dovere, il “bug man” locale Jude Verret subito chiamato sulla scena, anche noto professionalmente col nome di STINGER Creations, che non è la boutique di un artista moderno, ma un allevamento di api e piccola casa produttrice di miele. Prodotto di API, non VESPE, s’intende. È da sempre difficile, tuttavia, capire per l’uomo comune la straordinariamente sottile differenza. Così quando si chiama l’esperto, ci si aspetta che risolva il problema, comunque. Negli anni, Jude ci si è abituato. Ha persino deciso di farne uno spettacolo, grazie all’impiego della sua telecamera portatile GoPro. Vespe permettendo…
La terribile sfida dei 100 dossi in autostrada
Tutti ricordiamo l’esistenza di un’Età dell’Oro, in cui le auto circolavano felicemente per le strade senza alcuna traccia di catene imposte alla normale viabilità urbana. Poi vennero gli irresponsabili, con la loro abitudine a percorrere determinate strade a una velocità eccessiva. Che cosa avrebbe mai potuto fare, a quel punto, la società civile? Furono installati semafori addizionali, posti vigili a controllare gli incroci. Ma nessuno può essere sempre attento, 24 ore su 24, per evitare infrazioni della legge da parte di chicchessia. In una notte priva di stelle, dunque, tra le fronde di un bosco antico, i progettisti stradali e i capi ingegneri si riunirono attorno ad una stele di pietra, con le mani protese in segno d’inimmaginabile preghiera. Intonando un’invocazione agli Dei del sottosuolo, ricevettero un’ispirazione diabolica, ma funzionale. “Steve, Steve, ascoltami. Ho avuto un’idea…” Disse il più anziano di loro, le rughe sul volto simili a una cartina stradale, il cappello a punta da stregone di un giallo paglierino un po’ come il casco da cantiere che avrebbe dovuto ricordare: “…E se noi mettessimo un qualcosa… D’irregolare, laddove l’automobilista si aspetta un manto stradale del tutto privo della benché minima asperità? Un DOSSO, per così dire…” Steve apparve pensieroso, quindi iniziò lentamente ad annuire. Un fulmine squarciò in quel momento il cielo notturno, dividendo le tenebre di un mondo addormentato. Ma il vero incubo doveva ancora incominciare….
Situazione allarmante a 130 Km/h: siete in marcia verso la vostra destinazione elettiva, come la spiaggia dove cogliere gli ultimi sprazzi d’estate, piuttosto che la convention internazionale degli appassionati della beneamata serie di Alf – Un alieno in famiglia. Il veicolo a quattro ruote di famiglia procede ad un ritmo sostenuto, mentre le sottili vibrazioni del volante trasmettono ordinatamente, alla parte più primitiva del vostro cervello da rettile, la benché minima asperità del terreno. Sotto ogni punto di vista, siete diventati l’automobile, e la strada appartiene a voi. Quando al volgere di un singolo secondo, lungo la linea dell’orizzonte, scorgete sulla striscia d’asfalto qualcosa d’inaspettato. Come un’escrescenza, la cresta di un dinosauro, il dorso del serpente sotterraneo che striscia sotto l’incoscienza dell’odierna collettività. “Se non fosse impossibile, direi che sembra…” Iniziate a sussurrare basiti. Ma il tempo raggiunge rapido l’epoca del suo esaurimento. Mentre il semiasse anteriore arriva in corrispondenza dell’inaspettato oggetto, il parafango corrispondente inizia immediatamente ad accartocciarsi. Il contraccolpo vi scaraventa contro il volante, mentre l’airbag si apre secondo il preciso copione subito seguìto da quelli laterali, e la poppa della vostra nave in tempesta inizia minacciosamente a sollevarsi. Quindi prendete il volo. Mentre il veicolo si dispone a 45 gradi, con il muso che punta verso il terreno ad un’altezza di circa due metri e mezzo, dal parabrezza è possibile scorgere l’orribile verità: non una, bensì altre 99 di questi pericolosi DOSSI, vi aspettano a seguito di un delicato, già sufficientemente pericoloso atterraggio. È esattamente in quel momento che suona l’orologio del forno. Il pranzo è pronto. Con un sospiro, premete il tasto di pausa e spegnete il monitor. Ancora una volta, la marcia inesorabile del tempo ha avuto la meglio sulle esigenze della Simulazione.
E. Che. Simulazione! Stiamo parlando, per inciso, di un software ludico che ha cinque anni di storia, così efficientemente messo alla prova e sfruttato dal canale specializzato di YouTube DestructionNation, che ha imparato a suonarlo letteralmente come fosse un violino di Stradivari (per milioni, e milioni di vi$ualizzazioni). Il suo nome è BeamNG.drive e proviene, come spesso è già capitato nell’ultima decade, non dal mondo dei grandi produttori internazionali d’intrattenimento digitale, bensì dall’universo degli sviluppatori indie, piccoli gruppi d’appassionati tipicamente riuniti nel garage di casa, in grado di mettere in codice la loro personale visione per il futuro dell’informatica di consumo. Ma piuttosto che farlo negli ambiti sempre più redditizi dei social networks, delle app per cellulari, del marketing online, il programmatore tedesco noto come Pricorde & co. fecero una semplice osservazione sulla realtà: di tutte le situazioni rappresentate nei videogiochi ad alto budget, ce n’era una che presentava qualità estetiche decisamente deludenti: l’incidente automobilistico. Rimboccando quindi le maniche delle loro camice, iniziarono a chiedersi che cosa potessero fare per migliorare sensibilmente le cose…



