La leggenda ritrovata del mais dai milleuno colori

Alla scomparsa mattutina della Luna, uscimmo a udire lo squillante canto proveniente dal pollaio, prima di avventurarci lungo i ripidi scalini che conducono alla piantagione di famiglia. Allargando le mie labbra in un sorriso, guardai verso una zona separata, il piccolo “esperimento” condotto all’insaputa di lei, attualmente assorta nel pensiero del raccolto che ci avrebbe coronato il mese, per non dire la stagione. Ma non prima che… Con il falcetto, presi in mano quel baccello verde oliva. Poi lo porsi alla compagna di simili avventure: “Oh, mio caro! Mi stai regalando… Il Mais?” Aprilo, non esitare. Guarda quello che c’è dentro (Spero). Le prime luci dell’alba superarono, esattamente in quel pregno istante, la linea terminale del distante orizzonte. Un prisma parve catturare misteriosamente i raggi traversali che filtravano tra le sue dita… Finché le foglie vennero, con forte senso d’aspettativa, spostate tutte quante da una parte. Arcobaleno!
Tra i molti tesori riportati in Europa durante il processo storico noto con l’eufemismo di scambio colombiano, la serie di commerci, recuperi e saccheggi immediatamente seguiti alla scoperta dell’America, nessuno fu accolto con maggiore titubanza che il dorato cereale proveniente dalla pianta Zea mais. Particolarmente amato dalle popolazioni indigene soprattutto dell’area messicana, ove un tale vegetale era stato per la prima volta asservito ai bisogni dell’uomo, all’altro lato dell’Oceano fu ritenuto inizialmente che il suo aspetto strano e il contenuto nutritivo sconosciuto potessero, in qualche maniera misteriosa, danneggiare “il carattere” o “l’identità” dell’uomo europeo. Soltanto attraverso il corso dell’intero XVI secolo, con la progressiva integrazione nelle cucine popolari di Spagna e Portogallo, subito seguite da Italia e Francia, simili superstizioni vennero progressivamente abbandonate, aprendo il passaggio verso quello che sarebbe diventato uno degli ingredienti più versatili e importanti a disposizione. Dovete d’altra parte comprendere come, a quei tempi, la divina pianta personificata da divinità fogliate dentro i templi in pietra di Palenque non avesse propriamente l’aspetto, o il gusto, dell’odierno contenuto dei barattoli per noi acquistabili al supermercato: essendo piuttosto costituita, in larga parte, di una particolare varietà descritta tradizionalmente come “mais di selce” proprio per la resistenza notevole del relativo involucro d’amido vegetativo, che assai difficilmente permetteva di consumarlo direttamente masticando la pannocchia dopo averla scaldata sul fuoco. E non molti avevano inventato, ancora, dei validi approcci per creare una farina da questa pianta misteriosa e piena di segreti. Il mais portato in Europa dalle Americhe poteva vantare, tuttavia, un aspetto particolarmente affascinante, anche rispetto alle moderne varietà che ne derivano: esso poteva vantare un’ampia varietà d’incredibili, straordinari colori. Che in larga parte, sarebbero andati perduti…

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Ostriche falliche con trivella, le misteriose termiti dei tronchi abissali

Nel silenzio che precorre l’arrivo di una tempesta alle prime luci dell’alba, un brontolio improvviso rimbomba nella foresta. Quindi un fulmine verticale, affilato come una freccia, colpisce dall’alto la cima di un vecchio faggio sulla riva di un torrente senza nome. Che immediatamente, prende fuoco. Le fronde annerite, i rami consumati, il tronco improvvisamente si spezza in due. Dapprima in maniera lenta e flemmatica, quindi con tutta la rapidità concessa dall’inerzia gravitazionale, svariati quintali di legno parzialmente carbonizzato s’inclinano e iniziano a scivolare lungo l’argine, fino ad inabissarsi al di sotto della superficie delle acque agitate. Sta piovendo, ormai, con tutta la furia di un acquazzone rimandato per lungo tempo, mentre il cielo elettrico lancia i suoi strali da una parte all’altra di quel mondo semi-addormentato. Tanto che il corso delle acque s’ingrossa, minacciando di fare lo sforzo ulteriore, necessario per straripare. Ma la natura, si sa, non vuole questo. In tal modo seguendo la via di minore resistenza, aumenta la velocità di quel flusso, trascinando il defunto legno verso il basso e in avanti, a un ritmo abbastanza sostenuto da discendere la collina, oltrepassare la pianura e sfociare, finalmente, in mare. Passano giorni, quindi settimane. Poiché la decomposizione del legno sott’acqua è notoriamente rapida, non avviene certo spontaneamente. Necessitando, piuttosto, l’intervento di QUALCUNO… O QUALCOSA.
Per quanto concerne la questione dei rari animali capaci di digerire la cellulosa, tra cui principalmente insetti, molluschi e qualche raro caso di mammifero (i.e, castori) si ama indifferentemente dire che essi: “Hanno stabilito una relazione simbiotica con batteri xilofagi presenti all’interno del proprio apparato di conversione dell’energia” il che lascia intendere come in ere preistoriche dimenticate, creature dal grado di sofisticazione maggiore abbiano in qualche modo “accolto” o scelto di “ospitare” microbi capaci di scorporare molecole lignee dall’impossibile digestione. Laddove la realtà, in effetti, può anche venire interpretata in maniera opposto: chi può realmente affermare, dal canto suo, che la suprema intelligenza che governa l’andamento dei processi di questo mondo non derivi principalmente dal molto piccolo verso il consorzio di coloro che credono, erroneamente, di avere il controllo supremo? Di certo non i molluschi bivalvi (alcuni li chiamerebbero ostriche, oppure vongole) dell’ordine Myida, che includono creature con conchiglia come la riconoscibile Pholadidae (anche detta piddock o Ali d’Angelo) o la temutissima famiglia dei Teredinidae (Vermi delle Navi) che per lunghi secoli fecero dei più possenti galeoni le loro abitazioni da trasformare, progressivamente, in segatura. Un consorzio decisamente eterogeneo, dunque, che dall’inizio di aprile potrà trovarsi arricchito di ulteriori tre categorie, grazie alla più recente ricerca portata a termine dalla biologa marina Janet Voight, curatrice del rinomato dipartimento zoologico del Chicago’s Field Museum. Un gesto di pura scienza consistente, essenzialmente, nel posizionare una serie di grossi tronchi a migliaia di metri sotto il mare (Quanti esattamente? Ecco un’altra risposta nascosta dietro il consueto paywall) in corrispondenza di specifiche coordinate a largo della California, nel Mar dei Caraibi e nell’Atlantico Meridionale. Per poi passare al recupero, mediante il poderoso sommergibile oceanografico statunitense DSC Alvin dopo un periodo di 10 o 24 mesi, allo scopo d’identificare esattamente le conseguenze possibili di un tale gesto. Immaginate dunque la sua sorpresa, per non dire vera e propria soddisfazione, quando gli oggetti in questione tornarono sotto la luce del Sole non soltanto macchiati, bensì letteralmente ricoperti da una quantità incalcolabile di brulicanti creature. Tutte assembrate, in un modo oppur l’altro concesso dai propri percorsi evolutivi, attorno all’opera delle più efficienti e specializzate tra loro. Buchi profondi e diritti, come quelli di un trapano da falegname, verso il nocciolo centrale dell’intera questione…

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Alcuni validi argomenti contro la separazione tra i pesci e il riso

Rosso e verde, rosso in mezzo al verde. Non potremmo affatto crederci, senza averlo visto in prima persona: forme indistinte che si muovono, nel bel mezzo delle ordinatissime piantine. Piccole o medie creature dalle scaglie iridescenti, largamente affini a quelle che ti vendono in sacchetto presso i banchi della fiera. Pesciolini…
Certamente avrete già sentito l’espressione “Ne uccide più la penna” Il che diventa particolarmente importante quando, come anche suggerito in un certo best-seller di fama internazionale, la gente di un popolo ha trasformato le proprie spade in vomeri d’aratro. Letterali o anche figurativi, come quelli idealmente interconnessi alla principale fonte di sostentamento dei popoli della Cina meridionale, dove l’influsso stagionale dei rovesci monsonici renderebbe assai difficile coltivare, con ragionevoli speranze di successo, un qualcosa d’affine ai prototipici campi di grano sottintesi dal biblico Isaia. D’altronde chiunque abbia mai avuto modo di conoscere direttamente l’ambiente tipico di una risaia, ben conosce il tipo di problemi che si accompagnano a questa particolare branca dell’agricoltura: ovvero la presenza di vaste distese d’acqua stagnante, focolai perfetti per lasciar diffondere quel letterale inferno di parassiti, zanzare, insetti più o meno voraci e in ogni caso, nel maggior numero dei casi, potenzialmente nocivi per l’uomo. A meno di voler ricorrere all’uso di pesticidi dunque, una cura molto spesso peggio del male di partenza, e per di più particolarmente onerosa in certi territori ancora in via di sviluppo, l’unica speranza che rimane agli agricoltori senza più risorse sembrerebbe fare affidamento al succitato implemento di scrittura, possibilmente ancora saldamente unito al resto dell’uccello. Ah, l’effetto benefico del popolo dei cieli! Che ogni cosa divora, inclusi vermi, bruchi, larve ed altre antropodi diavolerie. Sarebbe assai difficile, tuttavia, immaginare un volatile insettivoro che non sia anche propenso ad assaggiare, di tanto in tanto, il gusto gradevole di un seme o due. Il che non va per niente bene, quando ciascuno di essi potrebbe corrispondere, a distanza di qualche mese, al principale accompagnamento di un pranzo degli umani. Ed è tutt’altra storia rispetto all’altra punta del tridente animale, di quelle creature che nuotano grazie all’impiego delle pinne. Le quali, pur non figurando nel proverbio di partenza, uccidono anche loro, almeno quanto l’arma simbolo della cavalleria.
Ne parlava la FAO nel video del 2016, dedicato alla premiata GIAHS (Eredità Culturale Agricola d’Importanza Globale) del villaggio di Longxian, contea di Qintian, provincia di Zhejiang. Quest’antica tradizione, risalente a un’epoca di almeno 1.000 anni fa, relativa all’unire l’utile all’utile (nonché dilettevole) ovvero coltivare il riso ed allevare, allo stesso tempo, la carpa commestibile nelle sue più diverse tonalità, un altro importante punto fermo della cucina locale. Attraverso una metodologia capace, per quanto viene sommamente spiegato, di risolvere una vasta serie di problemi potenziali, incrementando in modo esponenziale i presupposti di guadagno di colui che ha ricevuto in gestione quei validi territori…

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Questo frutto delizioso non può uccidere nessuno. Se è maturo

Il battito irregolare della pioggia sul marciapiede del quartiere Ginza raggiungeva appena la sala principale del celebre ristorante specializzato in fugu Izumi, mentre nella cucina sul retro regnava il più assoluto silenzio. In uno spazio estremamente ben illuminato, assai distinto dall’atmosfera crepuscolare dedicata agli ospiti della serata, lo chef poneva il suo coltello di traverso sopra il pesce più temuto, e amato, del Giappone intero. Con uno sguardo lievemente accigliato per la concentrazione, mentre due dei suoi quattro apprendisti trattenevano udibilmente il fiato, iniziò quindi il preciso e ripetitivo movimento, avanti e indietro, avanti e indietro, per dividere la piccola creatura dal suo fegato, residenza della temibile neurotossina, 100 volte più letale del cianuro di potassio, in grado di uccidere con una dose di appena 25 milligrammi. “Ah, finitela! Non abbiamo avuto vittime per 30 anni” articolò con le sue labbra in una silenziosa reazione di stizza; “Non cominceremo certo stasera”.
Agli antipodi nello stesso esatto momento, il coltivatore di un frutteto dell’Honduras sale su una scala alta 4 metri, fino alle propaggini più alte di una pianta dall’aspetto alieno. Le foglie perforate in modo irregolare, come fosse rediviva da un’infestazione di bruchi; le infiorescenze a spadice del tutto simili a massaggiatori vibranti, con un’effetto complessivo che la gente è abituata ad associare a un certo tipo di piante altamente decorative spesso messe negli appartamenti. Ma per lui, pronto a guardare oltre, le spighe che risultano più interessanti hanno già perso la candida foglia avvolgente, nota come spata, indurendosi per somigliare vagamente a una pannocchia. Di un colore verde oliva, ricoperta da una serie inaspettata di scagliette, paragonabili alla pelle dell’armadillo. Per un lungo attimo, il proprietario della pianta resta immobile, tentando di capire quale sia la frutta pronta ad essere venduta. Sa bene che se commette un errore, ci saranno conseguenze. Forse non terribili quanto quelle del pesce palla, a causa di una dose letale per persona adulta che risulta essere 1.000 volte più grande. Eppure 25 grammi non sono una quantità poi tanto alta. Quando si considera che ci sono persone che mettono tutto il frutto in bocca, senza dare il tempo al suo sapore di avvisarti…
Frutto. Pegno della natura? Straordinario gusto ed esperienza: ciò che viene messo in tavola, senza nessun tipo di rammarico, due anni almeno dopo aver piantato una Monstera deliciosa, pianta epifita (rampicante su altri arbusti) che nonostante l’aspetto simile non è tecnicamente un Arum o un filodendro, bensì la rappresentante principale del suo genus d’appartenenza. Il cui nome fa riferimento alle alte dimensioni, nonché un insieme di caratteristiche che potrebbero ampiamente collocarla come arma del delitto in un fantasioso romanzo giallo. Piuttosto comune nei suoi luoghi d’origine, in bilico tra tutto il Centro America e la parte più meridionale del Messico, la cosiddetta ceriman o “costola di Adamo”, in funzione dell’aspetto traforato delle sue grosse foglie cuoriformi si è dimostrata nelle più recenti generazioni estremamente adattabile e capace di attecchire su scala internazionale, iniziando a popolare spontaneamente i giardini di Florida, Hawaii, Australia e i paesi che si affacciano sull’area occidentale del Mediterraneo. Fortuna vuole, dunque, che il suo frutto dal sapore descritto come “un caratteristico medley di banana, ananas e cocco” non abbia un aspetto particolarmente appetitoso, né tutto l’insieme risulti facile da consumare.
Altrimenti visto il suo elevato contenuto di acido ossalico, una sostanza usata con successo per sgrassare i tubi arrugginiti e presente anche (in quantità molto minori) negli spinaci, nel rabarbaro e in taluni cereali integrali, qualcuno avrebbe già finito per cadere malamente nella trappola. Con conseguenze, a dir poco, deleterie…

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