L’arma segreta dei pescatori di granchi americani

In qualunque modo si scelga di osservare la questione, c’è indubbiamente un certo fascino nel fare un’escursione in mezzo alla natura, attrezzati di tutto punto, foraggiare un qualche tipo di cibo e farne il protagonista principale della propria versione improvvisata di uno splendido picnic. Ciò che tuttavia non ci si aspetterebbe, in merito a una tale situazione, è che nel pentolino sopra il fuoco ci finisca un piatto insolito come gli spaghetti asiatici al granchio gigante, e con questo non intendo certamente “aromatizzati” tramite l’impiego di una qualche polverina, bensì materialmente impreziositi con la carne di quest’animale, uno dei crostacei più grandi, apprezzati ed economicamente rilevanti dell’intero Pacific Northwest americano. Strano, eppur vero? Per una creatura dalla grandezza media di 20 cm e in merito alla quale, generalmente, il mangiatore trae vantaggio dall’opera dei pescatori professionisti, con le loro trappole disposte sul fondale, poi tirate a bordo l’una dopo l’altra secondo un preciso programma iscritto sul calendario. Oppure la versione amatoriale della stessa cosa. Ecco invece, che l’autore video di YouTube noto Fishing Chef, durante una giornata plumbea di metà ottobre, si reca fino agli scogli di una sua località segreta (nessun pescatore può rivelare “tutta” la storia) e getta la sua lenza con il movimento convenzionale della canna di chi cerca trote, salmoni oppure il perciforme che dovesse, per sua sfortuna, essersi trovato a passare di lì; eppure due minuti dopo, sotto l’occhio attento della telecamera, ciò tira fuori da quei flutti è proprio lui, Metacarcinus magister, Cancer magister che dir si voglia, l’essere il cui nome comune fa riferimento alla cittadina di Dungeness, importante porto e destinazione turistica dello stato settentrionale di Washington, situata esattamente tra Seattle e la metropoli canadese di Vancouver, al di la dell’intricato sistema di canali marini noti come Salish Sea. E la ragione, nonché il metodo di tutto questo, trae l’origine dallo speciale attrezzo situato al termine del filo, che assomiglia vagamente a una gabbietta, del tipo usato anticamente in Cina per tenere le cicale.
Che differenza, con la tipica nassa utilizzata per intrappolare i granchi, oggetto ponderoso a forma di scatola o barile, che una volta posto a sul fondale deve rimanervi letterali ore, o giorni interi! Mentre l’opera di questo artista delle placide escursioni in spiaggia trova l’espressione di una semplice serie di gesti: lancia, aspetta qualche minuto, quindi tira fuori un granchio. Lancia e tira fuori. Ancora, ancora! In una splendida denuncia d’abbondanza, di cui l’eguale, a conti fatti, non sarebbe facile trovare altrove. Assolutamente fantastico: ciò che Internet ci ha chiamato ad osservare, questa volta, è il dispositivo noto negli Stati Uniti come crab loop o crab snare, ovvero la perfetta unione di semplicità, ingegno ed efficienza funzionale. Un qualcosa che può essere acquistato nei negozi specializzati, benché l’usanza caratteristica prevede che sia lo stesso utilizzatore a costruirselo, mediante una serie di gesti tramandati di genitore in figlio. È una tecnica raramente mostrata all’estero, fondamentalmente americana almeno quanto la prototipica ed irrinunciabile apple pie

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Nulla sfugge a questa trappola per pesci cambogiani

Alcuni dei migliori pescatori del suo villaggio erano soliti affermare, con espressione compunta e schiena rigida per l’ovvietà: “Il mattino è l’ora giusta per catturarsi la cena. Chi si sveglia tardi, troverà soltanto la fame.” Ma Samang non era un pescatore, con tanto di barca, canna e largo cappello per farsi scudo dal Sole. Lui che apparteneva, piuttosto, alla classe sociale dei contadini, avrebbe messo in campo l’energia di un diverso tipo di antica sapienza, uscendo verso la parte finale di un pomeriggio di questo caldo inverno tropicale. La luce a 45° penetrava, almeno in parte, tra le foglie delle canne da zucchero e i pandani, piante tradizionalmente collocate ai margini della risaia. Sotto i suoi piedi nudi, franava e si spalmava il terreno cedevole del bund. Un… Argine, avremmo potuto chiamarlo, l’accumulo di terra oltre il quale iniziava lo spazio deputato alla coltivazione del più nobile dei cereali, stagionalmente sommerso in uno strato d’acqua per proteggere la pianta dai parassiti.E adesso, nel pieno della stagione secca verso la metà di febbraio, era il momento perfetto per fare la sua mossa: quando i semi migliori dell’area rurale sita ad est di del grande lago di Tonle Sap stavano per dare il loro prezioso raccolto, e la carpa di prato (koan ikan) era pronta a dare sfogo alla sua indole maggiormente esplorativa, finendo dritta nella rete d’inganni creata dalla mente fervida del suo principale nemico, l’uomo.
Raggiunto il punto desiderato, Samang smise di camminare e depose a terra la parte più pesante della sua attrezzatura, dall’alto grado di specificità: nella mano sinistra, portava infatti una busta di plastica riempita da 10 sezioni di un tronco di bambù, dal diametro di circa 25 cm, tagliati ad arte con la sega manuale conservata nella sua abitazione galleggiante lungo il corso del grande Mekong. Nella destra, aveva una pratica paletta di metallo, con cui senza particolari esitazioni si mise a scavare il friabile suolo del bund. Un poco alla volta, il suo progetto iniziò a prendere forma: non una piscina per lillipuziani, bensì una buca profonda all’incirca 45 cm, dai bordi perpendicolari e gli argini perfettamente ben compattati. Apparentemente soddisfatto del suo lavoro, passò quindi alla parte successiva del progetto: uno alla volta, inserì i tubi di origine vegetale nella barriera argillosa, avendo cura che fossero situati l’uno a ridosso dell’altro, come in una sorta d’insensato sistema d’irrigazione. Così che, da una parte, le condotte sfociassero sul fondo fangoso dei margini della risaia, e dall’altra finissero a strapiombo sulla fossetta da lui scavata. Per buona misura, il bambù non era perfettamente orizzontale, bensì inclinato in salita: questo per evitare l’allagamento, e conseguente inutilità della trappola da lui costruita. Dallo zainetto sulle sue spalle, quindi, il costruttore tirò fuori un recipiente con il coperchio, nel quale erano presenti alcuni granchi vivi ed un piccolo sasso appuntito. Usando il secondo sui primi, ne fece ben presto una pappa simile a un pureé, che venne disposta ad arte all’interno del bambù, sopra e tutto intorno all’ingresso della sua personale applicazione del simpel jebak, il “semplice trucco” tramandato in via diretta dal popolo degli Khmer. Per nascondere l’effetto del suo lavoro, quindi, Samang prese dei rami caduti attorno al teatro della sua opera, e li dispose con cura a fare da tetto alla piccola voragine che per lui, avrebbe sostituito il supermercato.
Le ore passano, verso l’ora del rosseggiante tramonto, mentre gli agricoltori e i pescatori del villaggio fanno ciascuno ritorno alla propria casa-barca, per un atteso convivio con la famiglia e il riposo meritato dei lavoratori. Mentre i loro occhi si chiudono, senza un suono, letterali dozzine di misteriose forme nerastre iniziano a strisciare dagli smunti rigagnoli dei torrenti. Sotto la luce riflessa di un Luna a metà, le bestie serpentiformi chiudono le loro branchie ed iniziano, finalmente, a respirare.

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Come il formicaleone sazia la sua grande fame

Anche se non lo ricordate, l’avete sperimentato più volte. Ogni mattina in cui vi svegliate e siete già stanchi, come se aveste corso affannosamente per una notte intera. Quando il Sole splende senza scaldare la vostra anima, e un senso d’ansia grava ai confini della vostra personalità. Una profonda voragine nel cuore, specchio del foro sul sentiero che conduce all’annichilimento. Se in altri termini, siete già sicuri che si tratti di uno di “quei” giorni, non è detto che sia del tutto un caso. Potreste aver fatto l’esperienza del formicaleone. Non l’insetto in quanto tale, s’intende. In effetti è piuttosto raro che questo càpiti durante la fase R.E.M. (non impossibile) bensì quel drammatico concetto che lui ha introdotto nel mondo, ovvero l’inesorabile destino che lentamente, immancabilmente, condanna ogni cosa che gli riesca da catturare. Nient’altro che una buchetta, osservata dall’uomo fin dal tempo dei greci e dei latini, dal diametro di fino a una decina di centimetri. E una pinza seghettata sul fondo. Che non è, nonostante le apparenze, un’oggetto, bensì la mandibola di un insetto. Uno dei più malefici che la scienza abbia mai descritto. Gobbuto, dalla forma simile a quella di una zecca. Talmente ingordo da non avere neppure l’ano. Affinché ogni micron di ciò che fagocita, non venga defecato fino alla costituzione del bozzolo finale. Avete mai sentito niente di più mostruoso?
In effetti, è piuttosto raro che si presenti l’occasione di vederne l’intera, orribile forma. Esso non ha interesse alcuno ad uscire dalla sua tana, dove si è specializzato, piuttosto, nel far scivolare giù il cibo. Pensate al Sarlacc di Tatooine, mostrato all’inizio del terzo film di Guerre Stellari: nient’altro che denti nel sottosuolo, ed un paio di tentacoli che sbucano ad agguantare gli sfortunati nemici dei protagonisti. Eppure strano a dirsi, ma un simile comportamento è assolutamente coerente col vero animale che l’ha ispirato. Un ottimo esempio di rappresentazione della natura per fini d’intrattenimento, appendici raptoriali escluse. Ma ce ne sono molti altri, sopratutto nei videogiochi: il Devalant di Zelda, che può essere colpito solamente quando fa emergere la testa dalla sabbia; lo Snipper di Kirby, dalle enormi mandibole animate; il Pokémon delle sabbie Trapinch, in grado di evolversi in un vero e proprio insetto-drago; per non parlare degli innumerevoli giochi d’avventura a scorrimento bidimensionale, tra cui Super Mario, Sonic, Mega-Man, Srider, Cave Story…. Non c’è niente di più facile da rappresentare su una visione di profilo dello scenario, che una trappola con pareti diagonali abitata da una pericolosa creatura in agguato. L’unico comportamento possibile per la forma pre-adulta delle circa 2.000 specie che compongono la famiglia cosmopolita dei mirmeleontidi, piccoli predatori che giacciono in agguato, come i ragni nella loro costruzione di tela. A ben pensarci, non è così strano che l’aspetto volante del formicaleone sia molto più noto della sua forma larvale: dopo tutto, esso può rimanere in tale stato per diversi anni. Mentre una volta sfarfallato e trovata la sua compagna, vivrà appena una ventina di giorni, nutrendosi del nettare e del polline che gli riuscirà di trovare, nella specifica regione della sua provenienza. Ma qualche volta l’insetto abita nel pieno deserto, come nell’esempio della scena qui mostrata dalla BBC Earth, dove fonti di alimentazione vegetale risultano tutt’altro che abbondanti. A differenza di quelle fornite involontariamente da un’altro abitante di questo clima estremo, la formica del genus Ocymyrmex. La quale ben conosce il rischio di surriscaldamento che comporterebbe fermarsi sulla sabbia cotta dal Sole, e proprio per questo, deve fare dei sogni del tutto simili a quelli degli umani: l’incapacità di fuggire, nonostante lo sforzo, dalle profondità miserabili, mentre corri e corri, non fai che ritrovarti sempre allo stesso punto. Ed anzi, scivoli lentamente, sempre più giù.
Non è possibile sfuggire alla trappola del formicaleone, perché lui l’ha perfezionata di padre in figlio, attraverso innumerevoli generazioni. Attraverso al sapienza biologica che noi definiamo “istinto” ha quindi raggiunto il punto dell’assoluta perfezione, in cui ogni singolo granello sostiene quello immediatamente soprastante ma non potrebbe mai farlo con due. Così all’ingresso di una presenza estranea, come la zampettante formica separata dal gruppo, inizia una reazione a catena, che lentamente, progressivamente, la porterà a cadere sul fondo dell’intera questione. Certo, qualche volta può capitare che l’insetto catturato sia sufficientemente agile, o fortunato, da rallentare e potenzialmente invertire il processo. Ma anche per quello, il divoratore ha un piano: la sua testa piatta, con la forma esatta di una pala, può infatti essere impiegata per sollevare la sabbia e lanciarla con precisione verso i margini della fossa. Gesto a seguito del quale, persino il più equilibrato dei visitatori non potrà far altro che rassegnarsi a venir trascinato giù dalla frana. Dove il padrone di casa, senza un’attimo di esitazione, lo morderà, iniettando una micidiale sostanza paralizzante. Seguìta dai succhi gastrici dell’animale, che inizieranno a corrodere la preda dall’interno. A quel punto, tutto quello che resta da fare sarà succhiarne le gustose interiora, trasformate per l’occasione in un delicato purée.

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2 cm per 25 metri: l’abitante della ragnatela più grande al mondo

Mostri, dei veri e propri mostri. Si arrampicano sopra le cose, alla ricerca di cibo. Piccoli e operosi, perennemente attivi, gli occhi grandi quanto o addirittura più dello stesso cervello. Le manine simili a quelle di una scimmia, ma ancora più piccole, per afferrare tutto e conseguentemente, mangiare tutto. C’è un vero e proprio gremlin col dito medio particolarmente lungo, per meglio insinuarlo nei buchi degli alberi e ghermire le formiche. C’è n’è un altro che agisce in gruppo, spazzolando totalmente un territorio tra i 10 e 14 ettari comunitari. Agiscono di giorno. In altri casi, si muovono la notte. Pur non essendo delle creature a tutti gli effetti onnivore, vista la loro preferenza endemica per frutti e radici, non c’è un solo lemure in tutto il Madagascar che disdegnerebbe di fagocitare un ragno ogni tanto, possibilmente completo della sua casa e tutto quello che vi si era impigliato. Non c’è troppo da meravigliarsi, quindi, se nel parco naturale di Ranomafana esiste la marcata tendenza evolutiva ad occupare nicchie ambientali del tutto nuove. Anche questo è un aspetto che deriva dalla biodiversità. Parlare del ragno della corteccia di Darwin, oggi, significa inevitabilmente approcciarsi agli svariati studi sull’argomento di Matjaz Gregoric, Matjaz Kuntner e colleghi, biologi di diverse istituzioni universitarie slovene, che nel 2009 hanno descritto scientificamente per primi un qualcosa che in effetti, era sempre stato lì, sospeso sopra i fiumi e i laghetti della quarta isola più grande al mondo. Scegliendo incidentalmente, in occasione del 150° anniversario dalla pubblicazione de L’origine delle specie da parte del naturalista più grande di tutti i tempi, di dare alla nuova creatura il suo nome già noto. Il Caerostris darwini, dunque, è questo ragno della lunghezza di 2 cm per la femmina, appena mezzo per il maschio, appartenente alla famiglia degli Araneidae, ovvero la stessa di tutti gli altri tessitori di tipiche ragnatele dalla forma circolare, detti per l’appunto nei paesi anglosassoni “orb spider” (ragni del cerchio). Che percorrendo gli alterni rami dell’albero della vita, sono giunti in questi luoghi in una profusione di forme e colori straordinariamente vari. Inclusi quelli appartenenti a questo specifico genus, classificati per la prima volta dallo svedese Tamerlan Thorell, nel 1868. Eppure persino tra questi, la nuova aggiunta al catalogo risulta molto sorprendente. Si potrebbe persino affermare che il suo stile e metodo di caccia risulti tra i più efficaci e incredibili al mondo.
Tutto inizia con un’esemplare, generalmente la femmina, che attende pazientemente una giornata di vento a favore. Quindi ella si dispone su un ramo sufficientemente alto e distante dalla chioma centrale, in bilico sopra l’acqua, iniziando a liberare le lunghe fibre della sua personale interpretazione ultra-appiccicosa della seta. È una visione quasi surreale, con le propaggini leggerissime, ma straordinariamente resistenti, che iniziano ad estendersi verso il campo aperto, fluttuando leggere nell’aria. Mentre i fili continuano ad allungarsi, quindi, ella li avvolge con le zampe anteriori, manipolandoli per creare un qualcosa di singolo e quasi permanente, piuttosto che numerose ragnatele incomplete. Trascorso un tempo medio, inevitabilmente, la sua creazione raggiunge l’altra sponda tra i 10 ed i 25 metri di distanza, attaccandosi spontaneamente ad un albero, il più possibile alto quanto il suo. A quel punto, recisa ed assicurata adeguatamente la propria estremità, il ragno inizia la sua lunga camminata. Una delle particolarità del darwini tra tutti gli orb spider è il modo in cui esso integra il suo primo filo ancora al resto della ragnatela, che non lo finirà per averlo in mezzo, ma piuttosto penderà verticalmente al di sotto di essa, prima di essere adeguatamente assicurata con altri fili quasi altrettanto lunghi. Questo ha lo scopo, ritengono Gregoric et al, di incrementare l’area disponibile per la cattura, favorendo l’eventuale banchetto nel caso del passaggio di uno sciamo o altro tipo di nugolo, potenzialmente ronzante. Ma la vera scoperta sarebbe giunta soltanto successivamente quando gli scienziati, per prelevare un campione, toccarono la ragnatela. Soltanto per scoprire che essa in effetti, era talmente solida da poter intrappolare persino un uccello o un piccolo pipistrello. Proprio così: essa era, a parità di spessore, il singolo composto biologico più forte del mondo. Superiore, da determinati punti di vista, persino alle proverbiali doti del kevlar o dell’acciaio…

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