L’insetto succhiatore con la nocciolina sulla testa

“Animali del diavolo” li avevano chiamati. Mentre lei da bambina, che sotto la guida del suo padrino accudiva i bachi da seta ed altri bruchi col solo scopo di vederli trasformati in farfalla, veniva guardata dai suoi contemporanei con grande sospetto ed anche un certo grado di diffidenza. Maria Sibylla dei Merian, facoltosa famiglia di banchieri a Basel, in Svizzera, sistemò il cappuccio sulla sua testa, mentre si faceva strada tra le fronde seguendo le sue due guide, un indio delle tribù locali e un africano. Soltanto lievemente impacciata nei movimenti dalla lunga gonna, unico vestiario considerato accettabile per una signora, scostava sistematicamente i rami superstiti e le liane. I colpi sordi di machete, assestati dai suoi accompagnatori, accompagnavano i singoli passi posati sopra l’intreccio di radici, rami caduti e materia marcescente del sottobosco. Qualcuno avrebbe potuto affermare, guardandola da lontano in quei primi anni del XVIII secolo, che una dama europea di 52 anni non aveva assolutamente luogo ad essere nell’oscura giungla del Sudamericana, tra i remoti recessi del Suriname. Ma quel qualcuno, presumibilmente, non aveva ancora avuto modo di conoscere il suo lavoro. “Signora, signora!” Sentì chiamare poco più avanti, mentre nella distanza lo squittente verso di un pipistrello accompagnava il lieve fruscìo del vento “Venga qui, c’è qualcosa.” Aprendo con rapide mosse la borsa a tracolla, la pittrice estrasse quindi il suo taccuino e la piccola scatola con le tempere, sperando che non si trattasse di un’altra tarantola. Quelle piccoline avevano l’abitudine di sfrecciare via velocissime, ancor prima che potesse farsi un’idea della loro forma. Svoltato il tronco dell’albero del Guava, con un lieve sorriso d’aspettativa, trovò l’uomo che indicava una forma verde sul ramo. In prima battuta, non ebbe il benché minimo dubbio: doveva trattarsi di una lucertola col collare, quella che i locali chiamavano wakanama, riconoscibile dalla colorazione mimetica puntinata, il dorso crestato e le bande chiare sulle zampe. Quindi, avvicinandosi, iniziò a notare qualcosa di strano: l’animale sembrava in effetti del tutto privo di coda. Inoltre, contrariamente all’abitudine tipica dei rettili, che tendono a immobilizzarsi se minacciati, sembrava oscillare nervosamente, tentando di scrutare in tutte le direzioni contemporaneamente. L’africano che teneva abbassato il ramo teneva ben serrate le labbra, come se temesse che il benché minimo rumore potesse spaventare l’animale. Nel frattempo l’amerindio invece, che si era spostato di lato, guardava dritto verso l’alto. Sibylla seguì la direzione degli occhi, prendendo atto di quello che gli pendeva sopra la testa. Letterali decine, e decine dello stesso animale. Che non era affatto, a guardarlo bene, un rettile. Come per un segnale non udibile, in quel preciso istante qualcosa mutò nell’aria. Ogni singola “lucertola” percepito il pericolo, aveva spalancato il più aerodinamico paio d’ali. Lucidi cerchi colorati riflettevano la luce penetrata tra le fronde distanti, dipinti a coppie sotto le elitre delle bizzarre creature. Una di esse, volando lieve, le si posò sulla spalla. Era lunga quasi 10 cm. “Mia cara” sussurrò la più importante naturalista donna del suo intero secolo (e tutti quelli precedenti) “Adesso puoi anche andare. So già che stasera, tra il sonno e la veglia, tornerai da me.”
E lei le avrebbe sognate, perfettamente visualizzate, simili bizzarre creature, prima di ritrarle accuratamente nel catalogo di libri illustrati che sarebbero stati definiti, dai posteri, come “i più belli mai dipinti in America”. Quelle che oggi si chiamano Fulgora laternaria (in molti dicono laNternaria) a partire da quando, niente meno che Carl Nilsson Linnaeus, gli aveva attribuito questo nome a partire dai resoconti della sua collega di quasi mezzo secolo prima. Il che può essere, ragionevolmente, considerato un errore. Sibylla fu infatti sicura, forse per un’identificazione avventata di altri artropodi avvistati dopo il tramonto, che i grossi treehopper (succhiatori di linfa degli alberi) del Suriname avessero anche la capacità di accendersi come le lucciole, presumibilmente come ausilio all’accoppiamento. Nessuno, nei secoli a venire, sarebbe mai riuscito a confermare una simile idea. Mentre le loro caratteristiche dominanti, nei fatti, erano altre. Prima tra tutte la particolare forma della testa, concepita dall’evoluzione con la finalità di riprendere quella di un serpente o altro tipo di rettile, con la finalità specifica di proteggersi dai predatori. E sarebbe proprio quest’ultima, nell’idea popolare, a riprendere la forma dell’arachide comune, assai spesso chiamata la nocciolina. Essendo tra l’altro una simile escrescenza del tutto cava, nel caso di aggressori particolarmente determinati, l’insetto poteva anche lasciarla in pasto al suo nemico, per spiccare il volo e poter vivere un altro giorno. Ma non si può certo affermare che questo sia il suo unico meccanismo di difesa!

Leggi tutto

Un gatto demone sotto la cupola del Campidoglio americano

Lo stato dei fatti e l’atmosfera che era possibile respirare nella capitale in quegli anni immediatamente successivi allo scoppio della guerra civile, nel 1861, si trovano riassunti nella famosa citazione dell’avvocato della città di Washington, George Templeton Strong: “Di tutti i luoghi detestabili, questo è certamente il primo. Sovraffollamento, caldo eccessivo, aria e odori cattivi, zanzare e una piaga di mosche in grado di trascendere qualsiasi mio ricordo… Di certo, Belzebù regna tra noi, e nell’Hotel di Willard si trova il suo tempio.” Oggi non sappiamo, esattamente, quale terribile esperienza di soggiorno portò il diarista ad attribuire una simile qualifica a uno dei più vecchi e rinomati luoghi di soggiorno nel Distretto della Columbia, che avrebbe ospitato in futuro personaggi del calibro del vice presidente Calvin Coolidge, diversi senatori degli Stati Uniti, il produttore cinematografico Adolph Zukor e il compositore John Philip Sousa. Ma possiamo facilmente presumere che i proprietari, per qualche ragione, non si fossero ancora dotati di un gatto. Il problema di quegli anni era di certo, piuttosto grave: con l’istituzione dell’esercito delle colonie confederate, fermamente intenzionate a fermare con le armi l’opera degli abolizionisti della schiavitù, l’importante città fu immediatamente scelta come primo obiettivo di guerra, costringendo Abramo Lincoln a radunare, tra le eleganti strade e i monumenti progettati dall’architetto Pierre L’Enfant, tutti i volontari dell’Unione per difenderla e iniziare la progettazione di un campagna di guerra. Uomini convinti, uomini obbligati dalle circostanze, gente trascinata dagli eventi, ma soprattutto folle senza fine di una moltitudine vociante, inizialmente disorganizzata e come nella maggior parte dei casi storici, piuttosto irrispettosa dell’ambiente. Il che non fece che peggiorare le cose, benché in simili frangenti, l’esperienza c’insegna che la folla sotto il cielo tenda a trascinarne dietro un’altra, ben più subdola e pericolosa: quella zampettante e baffuta del temibile ratto nero.
Ben presto, i roditori furono ovunque. Disturbati dal soggiorno nelle loro tane per via dei molti cantieri, fortemente voluti dal 16° presidente in quanto “Il paese non deve fermarsi in tempo di guerra” essi si spostavano agilmente nel complesso sottosuolo di Washington, sfruttando gli accessi del sistema fognario per spuntare, nei momenti meno opportuni, all’interno delle case e gli edifici pubblici della città. Andare al bagno diventò ben presto un’avventura nel corso della quale, orribilmente, nessuno poteva avere certa l’incolumità. I coraggiosi statisti ed amministratori dell’epoca, dunque, diedero l’ordine che chiunque, viste le circostanze, si sarebbe aspettato: che tutti i gatti delle campagne vicine fossero trasportati tra i palazzi, e liberati affinché facessero quello che gli riusciva meglio. Un vero e proprio genocidio ebbe inizio, con un banchetto delle anime feline rese nobili, e potenti, nell’ora lungamente attesa delle umane preoccupazioni e necessità. Con il proseguire del conflitto, quindi, l’ipotesi di un’invasione successiva di gattini venne gradualmente scongiurata, mentre i felini gradualmente scomparivano uno ad uno dalle strade. Qualcuno con uno spirito d’osservazione particolarmente attento ai dettagli, come l’avvocato Templeton Strong, avrebbe potuto annotare come stranamente, i soldati di ritorno dalle campagne di Manassas e Bull Run fossero più in forma e ben pasciuti dei loro colleghi appena giunti nella capitale. Quasi come se avessero ricevuto delle razioni extra durante la marcia condotta al ritmo incalzante dell’inno battagliero di Julia Ward Howe (“♪Glory, glory, hallelujah! His truth is marching on…” ) Detto questo, oggi non siamo per parlare dei gatti che svanirono nel nulla. Bensì di quello che, contrariamente ai presupposti e ben oltre i limiti della natura, decise di restare molto a lungo. Per quanto possiamo desumere, l’eternità.
Il primo avvistamento del gatto demone di cui abbiamo notizia ebbe a verificarsi nel 1862, quando alcune guardie notturne del vecchio e scricchiolante edificio del Campidoglio, costruito in evidente stile neoclassico, raccontarono di aver incontrato in un corridoio la strana figura di un felino domestico nero. Il quale, mano a mano che si avvicinava sembrava assumere dimensioni sempre maggiori, mentre i suoi occhi deviavano dal colore giallo paglierino a un rosso intenso, e le zampe poggiavano sul pavimento marmoreo senza produrre il benché minimo suono. Raggiunta la distanza di 10 metri, la creatura sembrò assumere le dimensioni di un puma, quindi quelle di un orso, e infine l’impossibile svettante forma di un elefante. Fu a quel punto, secondo la leggenda, che uno dei militari fece fuoco col fucile, inducendo la bestia sovrannaturale a un rapida quanto imprevista ritirata. Ma i felini, si sa, conoscono il segreto della persistenza. E tale inusitata storia, di certo, non poteva certo finire in una maniera tanto facile e repentina.

Leggi tutto

Il ghiaccio shintoista che si spezza sotto il peso di un dio

Facevano all’incirca -3 gradi alle 8:35 di mattina dello scorso 4 febbraio, quando l’intero comitato di sacerdoti, funzionari pubblici e abitanti delle vicine cittadine di Chino e Suwa, si stava preparando all’ennesima giornata di freddo intenso, nell’attesa di poter testimoniare non tanto l’occorrenza di un evento, quanto la sua prevista e reiterata mancanza dal calendario. Le acque ghiacciate del lago Suwa giacevano immobili ed opache, impedendo di capire se fosse possibile poggiarvi sopra i piedi senza affondarvi dentro. Anche quest’anno, tutti pensavano che le divine strade dell’omiwatari avrebbero mancato di formarsi, lasciando presagire altri 12 mesi di raccolti deludenti, sfortuna e mancanza di progressi economici e sociali. D’altra parte, in un’epoca di mutamenti climatici in cui l’uomo aveva perso il contatto diretto con la natura, questa era la vita. E sempre meno persone credevano nelle antiche storie. Se non che, qualcuno all’improvviso gridò “Silenzio! Ascoltate, gente…” Persino il vento sembrò smettere di soffiare. E proprio mentre il capannello di persone iniziava a cedere alla tentazione, sussurrando le ragioni della propria incertezza, un sibilo profondo inizia a diffondersi attraverso l’aria tersa della prefettura di Nagano, prima di aumentare di tono, assomigliando al tuono distante di un temporale estivo. Ed è allora, sotto gli occhi increduli dei più giovani, i quali non ricordavano una simile occorrenza dal 2006, che sopra la superficie piatta iniziò a formarsi una singolare increspatura. Proprio mentre il ghiaccio prendeva ad incrinarsi, quindi, il brusìo diffuso iniziò a spegnersi, per essere sostituito dall’enunciazione chiara, quanto spontanea, di un bambino: “Irasshaimase! (Benvenuto) Irasshaimaseee Takeminakatatomi-no-Mikoto!”
Secondo quanto scritto negli annali della fisica quantistica, l’assoluta totalità dei fenomeni studiati nel comportamento delle particelle subatomiche è impossibile da osservare direttamente. È per questo che una simile branca dello scibile costituisce in primo luogo una costellazione di teorie, conclusioni empiriche, corrispondenze causali intraviste dietro l’orizzonte degli eventi. Eppure non esiste una singola persona che, prendendo in considerazione i confini di una tale scienza, oserebbe definirla un vero e proprio atto di fede. La ragione è nel metodo scientifico. Ovvero trarre conclusioni sulla base di cognizioni certe, facilmente dimostrabili per chi ha lo sguardo attento verso simili dettagli. Il che del resto, è un po’ come la religione shintoista giapponese. Che potrebbe definirsi al tempo stesso la più incorporea, eppure anche la più materialista, di tutte le discipline filosofiche orientali. All’origine della quale ritroviamo la fantastica serie di gesti, guerre e scontri tra divinità superiori (Kami) e il contributo che esse diedero alla formazione dell’originaria civiltà di Yamato. Eppure, fatta eccezione per alcuni dei più importanti, ci troviamo di fronte ad entità del tutto prive di un aspetto umano. Ovvero spiriti invisibili, resi manifesti solamente per i ricettacoli in cui vivono, tronchi degli alberi, pietre, antichi oggetti e qualche volta, il passo lieve di un animale del bosco. Per questo, si usa dire che nello shintoismo non sia praticato in effetti alcun atto di fede. Trattandosi piuttosto di scrutare il mondo, attraverso una particolare lente che molti di noi possiedono. Soprattutto se hanno la fortuna di esser nati nella terra degli Dei.
Manca invece, quasi totalmente, il culto delle immagini che caratterizza la religione buddhista o quella monoteista cristiana: non vi sono santi, bodhisattva, dipinti o altre raffigurazioni sacre. Ogni stanza del jinja (santuario) ha una funzione specifica. Così come ciascun oggetto usato per gli atti di venerazione, le ricorrenze o le preghiere portate innanzi dai comuni cittadini, sempre bene accetti al di là dell’alto portale ligneo all’ingresso del suolo purificato (il torii). Ed è per questo che, come la stragrande maggioranza delle altre religioni animiste, il culto dei Kami prevede un’ampio catalogo di interpretazioni dei segni e dei presagi, dimostratosi capaci di influenzare, attraverso la storia antica e recente, il corso d’opera e le scelte dei potenti. Nessuno dei quali è comparabile, per il prestigio, la risonanza mediatica e l’effetto sulla morale pubblica, di quello dell’omiwatari (passaggio divino) del grande lago, sacro secondo gli antropologi ben prima della formazione di un sistema di credenze uniformate al resto del paese. Per la presenze di un particolare tipo di spiriti, chiamati Mishaguji…

Leggi tutto

Da dove ha origine la pesca coi cormorani?

Mentre la canoa procede lentamente sulle basse acque del fiume Li, nella regione autonoma del Guangxi, il pescatore rivolge una breve invocazione agli spiriti dei suoi antenati familiari. Quindi estende la sua preghiera, mentalmente, al Buddha e alla dea Longmu, madre dei cinque draghi che dominano su tutte le creature pinnute d’acqua dolce. Con il tramonto ormai inoltrato ed un cupo crepuscolo, che pesa come una cappa sulla sua imbarcazione solitaria. “È il momento” sussurra a quel punto tra se e se, prima di accendere la lanterna montata a prua che, come lui ben sa, avrà l’effetto di attrarre indifferentemente tutte le specie di ciprinidi e le più rare e succulente carpe rimaste nei pressi del caratteristico villaggio di Yangshuo. Per non parlare dell’occasionale serpente. “Un mero spettacolo per turisti” affermerebbe con cinismo qualcuno. Ma per lui, come lo era stato per suo padre e suo nonno prima di allora, tutto questo è la vita, nient’altro che il mestiere della sopravvivenza applicato alle risorse ittiche fluviali.
Così l’uomo si china verso l’agitato e starnazzante carico della propria imbarcazione: cinque grandi uccelli neri, dal collo lungo e ripiegato come quello degli aironi. Ciascuno di essi, legato con un lungo cordino, che gli parte dal collo ed arriva fino alla struttura della canoa. Ma in pochi attimi, il nodo è sciolto. Conoscendo fin troppo bene le regole del gioco, gli splendidi rappresentanti della specie Phalacrocorax carbo, il grande cormorano o cormorano comune, si gettano a quel punto in acqua, con una formidabile economia di movimenti. Chiunque abbia visto uno di questi uccelli nuotare, in effetti, raramente ha pescato tra i suoi ricordi la visione di una qualsivoglia anatra, gabbiano o martin pescatore, pensando piuttosto all’agilità e le spontanee movenze di una lontra o un castoro. Tutto, nella loro famiglia di esseri, è finalizzato a facilitare la pesca subacquea nelle particolari nicchie ecologiche da loro occupate nel sistema della natura: una notevole flessibilità delle articolazioni, ali sottili che offrono poca resistenza all’acqua e una limitata secrezione di olii da parte della ghiandola dell’uropigio, presente in quasi tutti i volatili, appena sufficiente ad impermeabilizzare lo strato inferiore lasciando invece le piume esterne libere di scivolare in maniera perfettamente idrodinamica e senza fatica. Perciò il pescatore di turno, che avrà addestrato i suoi uccelli a partire dal giorno in cui questi ultimi sono venuti al mondo, saprà con assoluta certezza che essi, una volta in acqua, avranno una capacità di manovra superiore a quella di tutte le possibili prede, iniziando a cercarle con tutta la precisione di un missile a ricerca di calore per il combattimento aereo. O se vogliamo usare una similitudine più pertinente, un siluro guidato a distanza. Cosa che puntualmente accade. Così come puntualmente, ad ogni preda catturata, gli uccelli faranno il loro ritorno sulla canoa, affinché il padrone possa prelevare il pesce direttamente dai loro becchi e deporlo nell’apposita cesta in vimini saldamente assicurata allo scafo. Già, ma come è possibile, in effetti, che gli uccelli non trangugino le loro stesse prede? Il tutto assomiglia al paradosso del cane che deve custodire un panino al prosciutto per il suo padrone. Per quanto una bestia possa essere educata e precisa, dinnanzi ad un cibo altamente desiderabile, sarà sempre l’istinto ad avere il sopravvento. Ed è proprio in questo, che ha origine il fondamentale segreto e l’apparente crudeltà della pesca col cormorano: ciascuno degli uccelli incaricati di una simile mansione, al momento in cui si tuffa, mantiene legata al collo la corda che gli impedisce di ingoiare pesci al di sopra di una determinata grandezza. Ovvero quelli, guarda caso, facilmente vendibili presso il mercato di Yangshuo. È soltanto al termine della sessione, che il dominatore del fiume, una volta recuperati i suoi servitori animali, li slega del tutto, ricompensandoli della fatica con un pesce di medie dimensioni ciascuno. Esattamente come vuole la tradizione.
La pesca col cormorano è una prassi a cui diverse popolazioni del mondo sembrano essere arrivate di propria spontanea iniziativa. A tal punto, è efficiente questo volatile nel praticare la sua attività innata, risultando nel contempo un poco agile volatore, e per questo molto più facile da addestrare. Esistono testimonianze scritte di una pesca simile praticata in Perù attorno al V secolo, tuttavia priva di una sua versione contemporanea. Essa fu praticata anche, per un breve periodo, in Grecia e Macedonia in epoca rinascimentale, soprattutto presso il lago Doiran, da dove la prassi venne importata anche in Francia ed Inghilterra. Ma nell’immaginario comune, così come nell’analisi statistica dei successi ottenuti, stiamo parlando di un’attività prettamente appartenente al contesto estremo orientale, che oltre a diversi villaggi disseminati lungo i fiumi dell’entroterra cinese, trova un’importante espressione ancora più a est, presso le isole dell’arcipelago giapponese.

Leggi tutto