Diabolica è l’astuzia delle piante che hanno accolto il dono di Prometeo

Secondo il paradosso metafisico della nave di Teseo, una volta che l’antico eroe fece ritorno ad Atene, il popolo decise di onorarlo conservando in un museo gli oggetti che lo avevano accompagnato nelle sue mitiche avventure. Principale tra questi, la maestosa trireme con vele quadrate, costruita col migliore legno della Grecia. Ma persino un tale materiale ineccepibile, col trascorrere dei secoli e poi quello dei millenni a seguire, può essere attaccato dai parassiti, l’umidità, le radiazioni luminose, l’escursione delle gelide notti dell’Egeo. Così i suoi successori, di volta in volta, sostituivano le parti danneggiate utilizzando altre identiche del tutto nuove, affinché il ricordo delle gesta di quei giorni non venisse trascinato via dall’inarrestabile volgere delle Ere. Finché un giorno, con il cambio necessario dell’ennesimo elemento, nulla di quanto aveva fatto parte originariamente dell’imbarcazione figurava ancora nell’augusta sala, benché gli ateniesi continuassero a chiamare quella cosa “nave di Teseo”. Giusto? Sbagliato? Una mera contingenza collegata allo stesso intrinseco funzionamento della mente umana? Di sicuro, attribuibile a diverse circostanze della storia e della natura. Dopo tutto un simile sentiero razionale può essere applicabile a qualsiasi agglomerato o comunità di esseri viventi. Pensate, ad esempio, a una foresta. Che per un colpo del tutto inaspettato del divino fulmine di Zeus, piuttosto che la momentanea distrazione di un tabagista, può essere rapidamente trasformata in un oceano fiammeggiante condannato alla totale devastazione. Eppure 5, 10 anni dopo, non appare poi così diversa da com’era prima di un simile evento. Allora dovremmo forse dire che la collettività vegetativa è “rinata dalle sue stesse ceneri” oppure ha dato a tutti noi, molto più semplicemente, una prova inconfutabile della sua resilienza?
Come spesso capita in simili ambiti oggetto della discussione, la risposta è rintracciabile attraverso uno studio dell’intento delle dirette interessate, intesse come quelle stesse piante che, abbattute, segate e lucidate, avevano permesso di creare più e più volte la miracolosa nave di Teseo. Facilmente desumibile, nonostante l’assenza di sinapsi cogitative o altri aspetti che rientrano tra i villi di un’ideale cervello pensante, grazie alla disposizione degli elementi in gioco, da un lato all’altro della Terra, come frutto imprescindibile di un lungo procedimento d’evoluzione. Prendiamo, ad esempio, la prateria semi-arida californiana nota con il termine geografico di chaparral. Ove principe tra gli alti e onnipresenti cespugli, regna la rosacea (rosa) dell’Adenostoma fasciculatum, più comunemente detta chamise o greasewood. E la ragione presto detta di quest’ultimo soprannome è la presenza, per l’appunto, di una resina oleosa sui suoi rami, foglie e fiori, responsabile di un piacevole aroma al pari di qualcosa di assai più sinistro: la tendenza a prendere improvvisamente fuoco, ogni qualvolta la temperatura supera i 35 gradi Celsius. Il che, nello stato più popoloso del Nordamerica è solito avvenire con acclarata frequenza, e conseguenze che conosciamo fin troppo bene grazie al racconto dei telegiornali. Siamo perciò di fronte ad un tipo di essere vegetativo che, più di ogni altra cosa, è stato creato per bruciare. Parte di un piano ben preciso secondo cui un simile passaggio possa essere tutt’altro che la fine, anzi, tutt’altro…

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L’oggetto volante più vistoso che cattura mosche in mezzo ai giunchi sudamericani

Mira! El Para-piri! Visione egualmente cara ai primi esploratori della foresta atlantica o quelli delle zone paludose ai margini della pampas argentina, l’incontro con un simile volatile poteva modificare profondamente il tono e il sentimento di un’intera giornata. Come un familiare passero della distante Europa, ma colorato e appariscente quanto un pappagallo dei Caraibi a settentrione del suo areale: scientificamente nominato Tachuris rubrigastra (ventre rosso) un termine molto diverso da quello idiomatico impiegato dagli spagnoli, nonché onomatopea derivante dalla lingua guaraní come adattamento di “tachurí, tarichú“. Con il numero di colori, a dire e il vero, che si troverebbero contestualmente a loro agio nel gibboso sesto di un arcobaleno: sette, come i giorni della settimana, le meraviglie del mondo antico e moderno, i chakra caratteristici del corpo umano. Il verde cangiante del dorso, il giallo del ventre, il nero delle piume sulla superficie delle ali e vari ornamenti d’intermezzo tra i diversi settori della sua livrea, così come il bianco, il rosso della cresta erettile e la parte e inferiore della coda, il blu e celeste nella sfumatura attorno agli occhi, l’iride degli occhi attenti di un insolito color crema. Tutto questo in una creatura non più lunga di 11 centimetri, battendo per varietà cromatica persino molte varietà di rinomati pappagalli, popolari in qualità di animali domestici proprio in funzione della loro spettacolare livrea variopinta. Il che colpisce ulteriormente l’immaginazione, quando si prende atto di quale sia esattamente la famiglia e categoria d’appartenenza per associazione del saettante pennuto in questione: nient’altro che un Tyrannidae o tyrant fly-catcher in lingua inglese (letteralmente “acchiappamosche tiranno”) ovvero il tipo di predatore insettivoro, esteriormente affine ai passeri dei nostri prati verdeggianti se non che in media ancor più ridotto nelle dimensioni, noto per la semplicità ed il mimetismo ricercato dal proprio piumaggio, che ne rende la stragrande maggioranza delle specie ragionevolmente indistinguibili tra loro. Il che costituisce la ragione per cui in base ad un revisione della tassonomia originariamente data per buona, a partire dal 2013 diversi biologi hanno usato l’analisi del DNA come ragione valida per spostare l’uccellino nella sua propria famiglia monotipica dei Tachurididae (o secondo altri, Tachurisidae) per meglio chiarire la sua unicità nel panorama dei volatili sudamericani, il cui antenato di collegamento potrebbe risalire addirittura a 25 milioni di anni fà. Il che, vale la pena specificarlo, trova riscontro unicamente dall’aspetto esteriore di questa creatura, visto come il comportamento e l’ecologia siano perfettamente in linea con quelli dei sopracitati tiranni. Il cui nome lascia sottintendere, in effetti, un tipo di comportamento ragionevolmente aggressivo, come quello notoriamente adottato dai suddetti passeriformi ogni qualvolta un potenziale predatore si avvicina al loro nido, per non parlare della maniera in cui sembrano letteralmente dominare il sottobosco, piombando come falchi all’indirizzo d’insetti come mosche, libellule o lepidotteri, che prendono direttamente con il becco alla velocità di un drone da combattimento ben collaudato. Un’utile metafora dei tempi che corrono, se vogliamo…

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Ombre oltre lo stipite del barbo gigante, la carpa che nuota sul trono fluviale del mondo

La forma tondeggiante del frutto di mangostano era sospesa a metà strada tra la terra e il cielo, in mezzo ai tronchi svettanti dell’antica foresta asiatica meridionale. Come altrettante spose prossime alla cerimonia nuziale, le forme degli arbusti dipterocarpacei ricoperti dal velo intricato del fico strangolatore presenziavano alla scena inumidita, illuminata dalla luce obliqua dei pochi raggi solari capaci di oltrepassare la fitta barriera della canopia. Come una creatura leggendaria, quindi, il grande pesce giunse a sovrastare la radura, vestito di un elegante abito grigio e bianco, punteggiato dalle scaglie iridescenti simbolo della propria eminenza, con sfumature blu, arancione e color del bronzo. Occhi tondi e pinne striate simili alle ali di un insetto, nonostante l’assenza di barbigli più che sufficienti ad identificarlo come un qualche tipo di carpa. Eppure qualche cosa non dev’essere conforme, viene da pensare, nel momento in cui la splendida creatura fluttua nelle immediate vicinanze di quel pomo e apre la sua bocca. Quindi senza nessun tipo di esitazione, spalanca la sua bocca e lo trangugia al volgere di pochi attimi sul grande cerchio delle ore. Tempo, luogo, circostanze: l’epoca è quella corrente, nonostante le apparenze facciano pensare alla Preistoria; siamo in Thailandia, nei dintorni del bacino idrico del fiume Mae Klong; dove per qualche settimana, la pioggia è caduta copiosa, allagando avvallamenti interi nella configurazione topografica della foresta. Come avviene certe volte e con magnifico guadagno del Catlocarpio siamensis, uno dei pesci maggiormente distintivi, nonché minacciati al corso attuale delle generazioni, tra le plurime entità e specie del consorzio acquatico locale. Ed è difficile non ritornare con la mente, al suo cospetto, attorno alla tematica del beneamato pesce koi, ciprinide d’allevamento giapponese, le cui dimensioni talvolta notevoli possono corrispondere a un valore materiale pari a quello di un’automobile sportiva, o un piccolo appartamento. Eppur senza raggiungere in alcun caso l’inimmaginabile portata del qui presente cugino, i cui esemplari più notevoli sono stati registrati al conteggio di circa 300 Kg x 3 metri di lunghezza sotto il gancio di pesatura dei pescatori locali. Sebbene, sia importante specificarlo, mai successivamente all’anno 1994 dopo il quale la media misurabile si è assestata attorno ai 50-60 Kg per esemplare, quando si riesce ad essere davvero (s)fortunati. Questo perché il pesce in questione, nominato animale nazionale della Cambogia nel 2005 per decreto reale ed inserito in diversi programmi di conservazione dei paesi limitrofi, tra cui Vietnam, Siam e Thailandia, dovrebbe idealmente venire subito liberato, pena l’accumulo di sventura su colui o colei che è stato abbastanza folle da andare contro il volere del Dio del fiume. Una notazione che purtroppo non parrebbe valida per i turisti, mentalmente condizionati a trarre significativa soddisfazione dall’aver preso visioni di programmi televisivi come la serie spettacolarizzata di River Monsters, Benché nessuno, presumibilmente, dovrebbe giungere a definire questi pacifici giganti come dei “mostri”…

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Nuovi archi micidiali creati dal guerriero post-apocalittico della Cambogia

La differenza tra colui che pratica una disciplina di tiro per sport e tutti quelli che ne richiedono l’impiego per semplice sopravvivenza, è che i secondi cercheranno ogni possibile vantaggio a loro possibile disposizione, per incrementare la probabile riuscita di ogni singolo colpo vibrato, ciascuna freccia scagliata all’indirizzo dell’obiettivo di turno. Il che include, oltre alla preparazione fisica e mentale, la ricerca di strumenti figli del contesto ma non propriamente “legittimi” per quanto concerne la loro collocazione tra il novero dell’arcieria contemporanea o proveniente da qualsiasi tradizione pregressa. Contesto come quello del distante meridione asiatico, dove l’utilizzo delle due ruote costituisce un pilastro letterale degli spostamenti umani da un luogo all’altro, con conseguente produzione collaterale di una grande quantità di biciclette vecchie, abbandonate o dismesse. Veicoli giunti ormai ben oltre l’ultima stagione della propria vita operativa, costituendo unicamente un cumulo di materiali che potrebbero in teoria, un giorno, andare incontro al riutilizzo frutto delle istituzioni civili. Eppure, nel frattempo, c’è qualcuno che parrebbe aver già dato inizio a un tale fuoco dell’ingegneria applicata. E il nome d’arte di costui è Cambo, chiaramente adattato da quello del suo paese di provenienza, benché un doppio richiamo sia possibilmente intenzionale al più bellicoso ed attrezzato dei personaggi portati al cinema da Sylvester Stallone. Con un gusto estetico espresso dai suoi video che potremmo idealmente ricondurre a quel tipo di cinematografia anni ’80 e ’90, in cui l’ingegno del protagonista tendeva ad andare di pari passo con un fisico atletico e l’assoluta mancanza di prudenza quando ci si trova in situazioni a dir poco distanti dal nostro vivere quotidiano. Come alle prese con mostri alieni, robot venuti dal futuro e perché no la necessità di procacciarsi il cibo, in un luogo in cui la porta del supermercato non è necessariamente facile da raggiungere per tutti, né dal punto di logistico che quello concettuale. Ma come c’insegnavano già l’Iliade e l’Odissea, ci sono almeno due modi per affrontare le possibili difficoltà che si dipanano lungo il corso dell’esistenza. Ed è soltanto il secondo, a permettere la creazione di un cavallo di legno abbastanza capiente da contenere una mezza dozzina di eroi!
Equino d’ebano piuttosto che, volendo, anche un tipico implemento d’offesa ricavato dall’alluminio, laddove l’offesa prevede di trafiggere creature acquatiche con dardi acuminati, grazie all’impiego di un sistema particolarmente innovativo e personalizzato. Che il titolo dei video sull’argomento non esita a definire double bow (arco doppio) benché si tratti di un’espressione piuttosto rara nel settore, in genere riferita unicamente a un’arma piuttosto rara del tardo Medioevo, consistente in una versione ad X dotata di doppia coppia di flettenti piatti, concepita al fine di lanciare una coppia di frecce in rapida successione. Laddove il tipo di strumenti impiegati dal nostro amico d’Oriente appaiono piuttosto simili ad un’altrettanto rara concezione di uno degli attrezzi più antichi della Terra, collocabile potenzialmente in un contesto di tipo nord-americano e tra i nativi delle tribù della confederazione Wabanaki, situati principalmente nel territorio dell’attuale stato del Maine e parte del Canada meridionale. I quali, non potendo disporre di legno sufficientemente flessibile in tali territori al fine di creare archi del tipo a noi maggiormente familiare, avevano pensato ad un approccio molto pratico per la risoluzione di quel problema…

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