A passeggio per la terra dei ponti di vetro

Tianmen walkway

Nell’entroterra-centro meridionale della Cina, presso il medio corso del fiume Yangtze, si trova una regione d’aspri dirupi ed alti massicci montuosi, le cui forme variegate ricordano quelle di torri, monumenti e dita gigantesche tese verso il cielo. Secondo le note di produzione cinematografiche di James Cameron, sarebbe stata proprio la provincia dello Hunan (letteralmente: Terra a Sud del Lago, nello specifico il Dongting) ad aver ispirato l’incredibile scenario naturale del film Avatar, con gli archi di roccia, le isole galleggianti nell’aria e i draghi sfarfallanti in ogni direzione. Il che è facilmente verificabile solamente nel primo dei tre casi citati, visto come qui a volare siano più che altro le ali degli uccelli, accompagnate dall’occasionale aeromobile o deltaplano. Per non parlare di… giusto! Quasi dimenticavo: centinaia di migliaia di turisti che qui giungono ogni anno, ma che dico per ciascuna singola stagione, con l’obiettivo di sperimentare sulla propria pelle le virtù di un luogo che potrebbe essere del tutto definito, in virtù del mero spirito d’osservazione, un moderno luna park della vertigine, una giostra dell’acrofobia. Cosa che da un certo punto di vista, benché in misura assai minore, era stato fin dall’epoca della dinastia Tang (618-907) quando una comunità di monaci buddhisti aveva scelto proprio la sommità del monte Tianmen per costruire il proprio grande tempio, ad una distanza di circa 1500 metri dal livello del mare. Una scelta che avrebbe forse dovuto, nell’idea dei costruttori, scoraggiare la venuta di un numero eccessivo di pellegrini, ma che almeno a giudicare l’attuale fama guadagnata, potrebbe anche aver sortito l’effetto diametralmente opposto. È una vecchia e celebre usanza locale, del resto, quella di scolpire lunghe scalinate direttamente nella pietra della montagna, ed una volta giunti in alto, lì infiggere paletti. L’uno dopo l’altro, con disposizione grosso modo orizzontale. Perché di lì a poco, tutti lo sapevano, sarebbero diventati una passerella. Con sotto un baratro di un chilometro e più.
Adrenalina, adrenalina, chi ce l’ha fatto fare? “Ma almeno, in cima, si mangia?” Pare di si. C’è un ristorante vegetariano, affiliato al vecchio e grande tempio che fu più volte ricostruito, all’interno del quale i devoti in pellegrinaggio possono provare il gusto di una cucina al tempo stesso antica e non-violenta verso le creature vive. Ma giunti a metà strada, ecco la sorpresa: non tutto lo spaventevole passaggio sopra lo strapiombo ha un pavimento. Che si veda. È infatti stata fatta di recente la scoperta, più o meno empirica, che il turista desideri più d’ogni cosa ritrovarsi con il niente sotto, e all’apparenza far procedere i suoi piedi, l’uno dopo l’altro, sopra il “saldo” appoggio di un sottile refolo di nubi. Così la montagna è notoriamente stata dotata, nell’epoca di Internet sui cellulari, di ben tre sezioni con passerelle del tutto trasparenti, di cui la più recente e lunga (100 metri) è stata completata giusto all’inizio del mese scorso, guadagnandosi l’appellativo altisonante di: “Passaggio del drago sinuoso”. Difficile immaginare un miglior luogo in cui cercare i Pokèmon, o scattarsi straordinari selfie da postare sopra i propri muri virtuali di portali o di profili d’espressione del proprio sentire. Anche se ovviamente, riesco ad immaginare almeno un paio di casi in cui la gente, giunta presso l’esclusivo luogo, non possa che voltarsi e ritornare indietro, con il volto congelato da una smorfia di terrore. Per dirigersi verso le altre attrattive locali, generalmente concepite per essere visitabili da chiunque. *Quasi, sempre….

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Il significato delle rocce eternamente equilibrate

Kyaiktiyo Pagoda

C’è un luogo in Birmania, sotto la montagna di Kyaiktiyo, ove sorge un piccolo villaggio di nome Kinpun, con abitazioni tradizionali ed orti tipici, ma anche ristoranti, negozi di souvenir… Poiché nessun turista che dovesse passare da queste parti, pur non essendo un fervente religioso, potrà mai fare a meno di salire per assistere al miracolo del Macigno d’Oro. Che da millenni sembra pronto per cadere, lievemente in bilico sul ciglio del burrone. Ma che giorno dopo giorno, resta lì. 611,5 tonnellate di granito! È una visione niente meno che paradisiaca: tra la foschia proveniente dal remoto golfo del Bengala, spunta questa forma spigolosa, circondata da terrazzamenti ed edifici riccamente ornati, secondo lo stile delle opere d’arte del buddhismo Theravada eppure con l’aggiunta di elementi locali, quale le statue degli spiriti dei Nat, personificazioni delle forze naturali. Ma non c’è niente, tra le cose costruite dagli umani, che possa competere con una simile imponente presenza, in grado di focalizzare e catturare lo sguardo di ognuno. Sopra il macigno, c’è uno stupa, inteso come il monumento dell’intero sub-continente indiano e dei paesi confinanti, generalmente impiegato con il fine di rendere visitabile una sacra reliquia. Il quale, in questo caso, non riesce neanche lontanamente a contenere l’oggetto all’attenzione dei suoi progettisti, che stolidamente svetta, giace, domina il paesaggio. Sembra quasi che qualcuno, se dovesse scegliere di spingere con forza, potrebbe farlo cadere con facilità. Le apparenze ingannano: niente, nessuno potrebbe contare su una forza sufficientemente significativa da rimuovere una tale grande cosa. E qualora qualcuno, per volontà del Caos o del Fato, dovesse aver successo nell’impresa, allora saremmo di certo tutti quanti nei guai. La stessa fine del mondo, d’improvviso, apparirebbe più vicina!
E la ragione di una tale apparente esagerazione va cercata, se vogliamo, nella storia che è all’origine di questo antico luogo di culto, parte di un pellegrinaggio considerato assolutamente fondamentale per chiunque desideri raggiungere la buddhità. Per chi davvero crede nel significato della meditazione tramite preghiera, dopo tutto, rendere onore a un simile significante senza tempo vuole dirlo farlo all’indirizzo di colui che rese possibile posizionarlo fin lassù: niente meno che Śakro devānām indraḥ, anche detto Thagyamin, signore degli Dei e degli Asura, l’essere supremo che agisce da pacere nelle eterne guerre fri queste ultimi due gruppi d’individui sovrannaturali, che da tempi sempiterni scuotono con le loro armi magiche i confini del cielo. Ma il potere di un alto sovrano e difensore del Buddha stesso, dopo tutto, agisce totalmente su di un’altra scala. Un fatto che talvolta, occorre ricordare ad entrambe le regioni del cosmo. E fu così che Śakra, una volta contattato dal re Tissa del popolo terrestre dei Mon, decise di ascoltare la sua storia: “Oh, grande governante in armi del cielo! Ascolta quanto ho da dirti. Alla mia indegna corte, in questo dì di festa, è giunto un eremita che si fa chiamare Taik Tha. Egli recava in dono, secondo il volere del Buddha Gautama stesso, una ciocca dei capelli di Costui, capace di assisterci nel tentativo di assomigliare il più possibile alla Sua perfetta consapevolezza di ogni cosa. Ma per farcene dono, ci ha richiesto in cambio l’impossibile: che la reliquia venga custodita sotto il peso di un enorme macigno con la forma della sua testa, affinché tutti potessero ricordare, attraverso i secoli, il nome dell’insignificante Taik Tha. Oh, personificazione terrena di Indra! Oh, Imperatore di Giada delle terre sconfinate del Nord… In nome del potere di mio padre, stregone ed alchimista, e di mia madre, principessa dei Naga dalla coda di serpente, io ti chiedo assistenza. Mostrami la via…” Così ebbe a verificarsi, sotto gli occhi dell’intero popolo riunito, un grande e maestoso prodigio: un fulmine divise il cielo, la terra tremò per qualche attimo, l’acqua delle cascate cessò brevemente di scorrere…. E alla fine di un simile disturbo, dentro al fiume, v’era l’ombra lieve di una nave magica, fluttuante in forza delle sue speranze. Pronta a dirigersi tra i flutti dell’Oceano sconfinato!

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Viaggiatore sperimenta 10 giorni di meditazione thailandese

Living with the Monks

In molti l’hanno sperimentato senza conoscerne il nome. Mentre si fa ritorno a casa da un luogo lontano, sopra l’autobus o il treno, in automobile, mentre si percorre il tratto a piedi verso l’ultimo traguardo dello spostamento: si usa dire sonder, in lingua inglese contemporanea, facendo affidamento allo strumento del neologismo per rispondere al bisogno molto umano di trovare un nome ad ogni cosa. Si tratta di un sentimento assai specifico, eppure contenuto in linea teorica nella struttura basilare della nostra mente: l’improvvisa, e qualche volta niente meno che shockante, presa di coscienza che tra tutte le persone che ci circondano hanno una storia, complessa e stratificata almeno quanto la nostra, con innumerevoli elementi, amici, luoghi e punti d’interesse. Che noi dal canto nostro, non conosceremo mai. In altri termini, è la comprensione della nostra assoluta assenza di significato nello schema generale delle cose, per una semplice questione di rapporto tra le grandezze in gioco. Esiste quindi una versione urbana della sonder, che deriva non più dall’osservazione diretta dei nostri simili, ma degli usci delle loro case. Dietro ogni porta o ingresso di un palazzo, quanti sogni, quante speranze, quali oscuri ed incomunicabili segreti… Occasionali volte, camminando, ci si immagina dall’altra parte di quella membrana. Senza più un briciolo della propria pregressa identità. E se invece, dietro una particolare porta, non ci fosse altro che il Nulla? Che ne sarebbe, allora, di colui che molto coraggiosamente decidesse di varcarla, alla ricerca di qualcosa di perduto? È un gesto atipico che nasce da un atavico bisogno. Quello compiuto da Dave Hakkens, il travel blogger  dalle inclinazioni ambientaliste, inventore tra le altre cose dell’encomiabile progetto Precious Plastic, che si propone d’insegnare alle popolazioni disagiate come costruire macchine per il riciclo. Colui che durante il suo attuale itinerario in giro per l’Asia (a giudicare dagli ultimi video, le tappe sono state diverse) piuttosto che abbandonarsi alla malinconia che nasce da un simile senso dell’identità perduta, si è diretto verso uno di questi ingressi misteriosi, favolosamente ornati con bassorilievi lignei d’altri tempi, ha bussato e quindi fatto un passo avanti, dentro a uno di questi mondi ben distinti dalla strada comunitaria. Per trovare al suo interno, come da copione, il più totale ed assoluto…
Chi l’avrebbe mai pensato? Siamo a Chiang Mai, una città di 148.000 abitanti sita nell’omonimo distretto del nord della Thailandia, presso il Wat (tempio) di Ram Poeng, costruito per la prima volta, stando quanto riesce a desumere dal breve paragrafo in doppia lingua (tradotto non benissimo) offerto sul sito ufficiale dell’istituzione, attorno al III secolo d.C, quando Chao Yod Chiang Rai, decimo sovrano della dinastia di Mengrai, salì sopra il trono dopo l’assassinio di suo padre. Scoperta quindi l’identità dei cospiratori colpevoli di tale gesto, egli li fece subito mettere a morte, ma poiché era un fervente buddhista dedito alla non-violenza, decise quindi di fare ammenda finanziando la costruzione di un nuovo luogo di culto presso la sua vasta capitale. Quello stesso tempio che oggi si ritrova come protagonista del presente video, dedicato all’attività contemporanea dei suoi monaci, appartenenti alla scuola del buddhismo Theravāda, una corrente identificata con la natura più antica di una tale religione, diffusa soprattutto nel Sud-Est asiatico, mentre l’India e l’Estremo Oriente vedono il suo superamento da parte della scuola di matrice tibetana del Mahāyāna, il Grande Veicolo che si trova perfettamente, e brevemente espresso nella divina natura del Sutra del Loto, l’antichissima espressione di assoluta Verità. Accettato come assoluto e imprescindibile fondamento della propria stessa dottrina dalle scuole cinesi Tiāntái e da quelle giapponesi Tendai e Nichiren. Ma non qui. Dove il significato dello studio dell’insegnamento del Buddha nasce dall’analisi di ciò che abbiamo intorno, ed all’interno della nostra stessa mente, verso un raggiungimento di uno stato superiore di coscienza. Di certo, accettare l’offerta sempre presente di varcare una tale soglia, per passare un tempo di poco superiore a una settimana assieme ai monaci, conoscendo il loro stile di vita…Deve aver costituito un’esperienza…Indimenticabile, nevvero?!

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Quest’albero può ucciderti in almeno quattro modi differenti

Mancinella

Il famoso bucaniere e probabile ugonotto di nazionalità incerta Alexandre Olivier Exquemelin, autore del più importante testo coévo sulla pirateria americana, scriveva 1678 di essere venuto a conoscenza di questo problema nel peggiore, e più diretto dei modi. Sbarcato presso una qualche spiaggia assolata della Florida, infatti, egli si trovò assediato da zanzare e moscerini. Al punto che, stanco di sopportarli, si diresse verso l’arbusto più vicino e ne staccò un ramo, allo scopo di farne un ventaglio, per farsi aria e scacciare gli sgraditi insetti da tutto attorno al suo volto. Operazione che sembrò, in un primo momento, perfettamente logica e funzionale. Se non che nel giro di pochi minuti dopo aver intrapreso il gesto, il prurito peggiorò in maniera esponenziale, la sua gola prese a gonfiarsi e un intero lato della testa iniziò immediatamente a ricoprirsi di vesciche. Affetto da difficoltà respiratorie, lo sfortunato capitano prese quindi a tossire con enfasi e la vista gli si annebbiò, al punto che egli narra di essere rimasto “praticamente cieco” per un periodo di tre giorni esatti. Che fortuna! Perché, intendo, poteva andare molto peggio, visto quello che sappiamo, oggi, sulla pianta che fu antagonista in questa sgradevole avventura, detto il melo delle spiagge o manzanilla (piccola mela) de la muerte. Nome scientifico: Hippomane mancinella, dalla sua presunta capacità di far impazzire i cavalli. Il vegetale che si qualifica come una delle piante più tossiche del pianeta Terra, se non la più potenzialmente letale in assoluto, ed il cui contenuto chimico rimane ad oggi parzialmente ignoto. Il cui fusto è ricoperto della tossina 12-deoxy-5-hydroxyphorbol-6-gamma-7-alpha-oxide, mentre le foglie sono a base di sapogenina e phloracetophenone-2,4-dimethylether, un composto essenzialmente paragonabile per i suoi effetti a quello contenuto in molti gas nervini. Mentre uno solo dei suoi frutti, nell’opinione del colono e scrittore Nicholas Cresswell (1750-1804) contiene veleno sufficiente ad uccidere 20 persone. Ecco una teoria che non vorremmo mai mettere alla prova. Nel frattempo gli Indios, membri dei popoli indigeni che condividevano la residenza con questa terribile per quanto immobile creatura, tra il sud-est degli attuali Stati Uniti, i Caraibi, il Messico e l’America centrale e meridionale, erano soliti sfruttare l’albero nel corso delle loro guerre primitive: per intingere nella sua resina la punta di crudeli frecce, come quella che ebbe l’occasione di condurre, nel 1521, a lenta morte il celebrato esploratore spagnolo Ponce de Leòn, personaggio legato alla leggendaria ricerca della Fonte della Giovinezza. Oppure legavano i loro nemici al tronco stesso della pianta, in quella che potrebbe considerarsi una delle torture più terribili note all’uomo, perché portava ad una progressiva irritazione delle mucose, alla chiusura della gola e prima o poi, al soffocamento. Purché non sopraggiungesse, prima, la pioggia… Se necessario, inoltre, una sola di queste minuscole mele gettata nel pozzo di un villaggio bastava a renderlo invivibile per anni ed anni, facendo essenzialmente terra bruciata di un intero territorio. E questo non fu che un assaggio della forza terribile della temuta mancinella.
Chiunque abbia mai frequentato assiduamente un parco pubblico da bambino, avrà probabilmente avuto modo di essere messo in guardia dagli adulti in merito al pericolo dell’oleandro, una pianta la cui ingestione potrebbe portare a problemi nervosi, tachicardia ed altri disturbi anche piuttosto gravi. Ma i fattori in gioco sono differenti: perché mai, persino un incauto d’età scolare, dovrebbe correre a mettersi in bocca le rischiose foglie a punta di una mera pianta ornamentale? Mentre il problema della mancinella, è che non soltanto i suoi frutti sono belli, ma tremendamente deliziosi. C’è in effetti un breve resoconto, su Internet, scritto dal radiologo Nicola H Strickland successivamente ad una sua vacanza del 2000 presso l’isola di Tobago, dell’esperienza da lui fatta quando molto stupidamente, fagocitò assieme ad un amico alcuni dei piccoli frutti ritrovati sulla spiaggia (l’alcol potrebbe essere stato un fattore). Egli racconta di aver dato solamente un morso al frutto, che si era rivelato molto dolce, per iniziare a sperimentare dopo alcuni minuti un vago formicolìo alla gola, presto sostituito da un dolore lancinante. I linfonodi dei due presero quindi a gonfiarsi, diventando teneri e palpabili, e impedendogli sostanzialmente di mandare giù un qualsiasi tipo di di cibo solido. I sintomi durarono per un periodo di 8 ore, ma si ritiene che in determinati casi, possa sopraggiungere la morte. E se questo è il secondo degli scenari esiziali promessi nel mio titolo, dunque, proseguiamo…

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