Uscendo dal bar d’angolo della via principale, ci fermammo un attimo a guardare il panorama. Alla mia destra, stagliandosi nettamente contro il cielo di azzurro tendente al blu, svettava il vecchio castello di Rushen, roccaforte usata nel corso del Medioevo in alternanza da scozzesi ed inglesi, durante i lunghi conflitti per il controllo di quest’isola strategicamente assai rilevante. Fu allora che con la coda dell’occhio vidi il mio amico Angus, di cui soltanto l’anno prima ero stato l’anfitrione durante un viaggio a Roma, che apriva il sacchetto di carta per passarmi un pezzo di bonnag, la caratteristica torta gaelica ripiena di frutta secca: “Vedi, qui da noi facciamo tutto in modo differente. Tu hai per caso avuto modo di guardare per un attimo la moneta che ti hanno dato come resto in cambio del tuo sfavillante conio londinese? E il mostro orribile che vi figura sopra?” Combattuto per un attimo tra le contrastanti priorità dell’appetito e la curiosità innata dell’uomo, infilai la mano nella tasca della giacca a vento e tirai fuori un pezzo da 50 pence, facilmente riconoscibile per la forma eptagonale. Con un gesto magniloquente, lo alzai in controluce, mentre già un ampio sorriso mi appariva in volto: “Mi prendi in giro? Qui c’è soltanto un ritratto della regina Elisabet..” “Giralo.” Soltanto un attimo d’esitazione, un gesto rapido delle mie dita. E fu allora che vidi, chiaramente incisa nel metallo, quello che poteva solamente essere un esempio d’iconografia infernale. Forse Belzebù, Asmod, Ulderig, Legione. Oppure Bafometto, Hurielh, Ugradan. Con la testa di una capra ma non due, bensì quattro corna simmetricamente distribuite attorno al cranio, in sovrapposizione a una ghirlanda celtica sormontata dal trinacria con le gambe in configurazione araldica, antico stemma vagamente pentacolare dell’Isola di Man. “Beeeh!” Fece Angus innanzi all’espressione lievemente shockata che, ne ero del tutto certo, doveva essermi apparsa in volto. “Che ne dici se adesso, ti porto a conoscerne qualcuna di persona?”
Manx Loaghtan le chiamano da queste parti, che è un composto dell’aggettivo relativo all’isola combinato con le due parole lugh e dhoan, ovverosia letteralmente: [color] marrone-topo. Una definizione alquanto mondana per coloro che potrebbero rappresentare, alquanto semplicemente, la migliore manifestazione quadrupede del maligno in Terra. Nonché assai probabilmente, nelle forme originarie della loro razza, uno dei principali ispiratori iconografici a disposizione. Non di natura caprina, come si potrebbe tendere a pensare per l’aspetto ed il colore, bensì rappresentanti a pieno titolo della specie Ovis aries, comunemente detta pecora che viene popolarmente associata a un certo tipo di tonalità candide ed un pelo folto e soffice, da cui filare grandi quantità di lana. Laddove nell’allevare un simile animale, assieme alle sue più prossime cugine del gruppo delle pecore nordiche a coda corta, si tende a favorire più che altro la produzione di carne, considerata una vera prelibatezza oltre ad essere salutare per l’assenza di grassi e colesterolo. Ma ciò che resta maggiormente impresso in merito a simili eccezionali creature, come dato ad intendere poco sopra, non è tanto il manto corto e ispido, né la loro taglia relativamente piccola, quanto l’incredibile configurazione policerata (“molte corna”) della loro testa, capace d’incutere timore persino al più feroce cervo in assetto in assetto da guerra. Sopratutto nei (rari e quasi mai fotografati) casi in cui la dotazione aumenta ulteriormente, raggiungendo la cifra certamente suggestiva del 6…Perché voi sapete, certamente, a cosa può portare una multipla ripetizione del numero 6…
razze
Il significato di un cane a pelo lungo in Corea del Sud
Verso la fine del turbolento periodo storico noto come “I tre regni di Corea”, corrispondente al settimo secolo d.C. secondo la nostra datazione, l’egemonia sulla nazione venne garantita dalle manovre politiche degli aristocratici di Silla e le vittorie sul campo di battaglia di un singolo personaggio, probabilmente uno dei più grandi generali ricordati nella storia della penisola d’Oriente. Gim Yu-sin (595-673) era un grande stratega, in grado di applicare il profondo razionalismo del pensiero taoista importato dalla Cina, ma secondo l’opera letteraria scritta quattro secoli dopo del Samguk sagi la misura della sua rilevanza fu anche data dalla capacità d’interpretare e sfruttare a suo vantaggio le credenze folkloristiche di un’Era in cui ogni evento, persino il più insignificante poteva rappresentare un presagio, in grado di decretare la riuscita o il fallimento di un’intera campagna militare. Si narra di un particolare frangente in cui i suoi uomini, che avevano visto una stella cadente in cielo, si fossero rifiutati di combattere contro le truppe dei ribelli. Allora egli fece preparare una palla di combustibile fiammeggiante, assicurata saldamente a un aquilone, che ingannandoli e sovrascrivendo il precedente prodigio permise all’esercito di riguadagnare il morale necessario a vincere sul campo di battaglia. Ma forse la sua misura più famosa resta l’abitudine di farsi accompagnare nella marcia, secondo un precetto irrinunciabile della sua dottrina di comando, da un’intera schiera di particolari cani, descritti dalle fonti storiografiche come “grandi e forti, dal folto manto e i piedi larghi come quelli di un leone” nonché validi guardiani contro ogni tipo di spirito, fantasma o entità maligna. Tali animali, secondo quanto desumibile dei bassorilievi nelle tombe coéve, potevano essere soltanto degli antichi rappresentanti della razza Sapsali/Sapsaree (삽살이).
È significativo che nell’elenco delle svariate centinaia di Tesori Nazionali designati dal governo coreano figuri, al numero 368, non l’ennesimo ritrovamento archeologico o reperto di un’epoca trascorsa, bensì un’intera genealogia d’animali selezionati artificialmente, assolutamente vividi e in trasformazione nel procedere della propria esistenza. Ciò permette di comprendere come simili elenchi, diffusi nell’intera area geografica dell’Estremo Oriente, siano qualcosa di profondamente diverso da una mera “lista della spesa” culturale, rappresentando piuttosto un’espressione sincera d’interesse dei popoli nei confronti della propria storia, e del modo in cui quest’ultima può migliorare ed aggiungere connotazioni alla propria vita di tutti i giorni. Ragione per cui oggi questa razza, in effetti appartenente al genere della taglia media secondo i canoni internazionali (il Sapsaree misura 50-60 cm al garrese) trova un posto d’onore all’interno delle case sufficientemente fortunate da potersene permettere un esemplare, considerato immancabilmente piuttosto raro a causa dei difficili trascorsi dell’intera specie canina lungo l’estendersi della vasta penisola ad est dell’Asia.
Secondo le cronache ufficiali tutto ebbe inizio attorno all’anno mille, quando un’afflusso significativo ed improvviso delle genti nomadi Khitan, in fuga dai potenti eserciti dell’impero Mongolo, fece il proprio ingresso in Corea nel corso della dinastia Goryeo (918-1392) facendo conoscere a un popolo storicamente buddhista il piacere del consumo di carne bovina e quasi incidentalmente, anche quella di altri animali. Sembra quindi che successivamente allo spostamento della capitale a Seul, con la fondazione della successiva dinastia Joseon, l’alta concentrazione di abitanti nel contesto urbano dovesse si trovò a fare i conti con un’eccessiva presenza di cani randagi. Al che, nonostante la protesta di alcuni letterati, venne decretato che la loro carne fosse data in pasto alla parte più povera della popolazione. In breve tempo, attorno alla consumazione di carne di cane nacque un’intera sottocultura, completa di ricette tramandate orgogliosamente attraverso le generazioni di ciascuna famiglia. E molte delle antiche storie vennero dimenticate, nonostante continuassero ad esistere delle specifiche razze, come il Sapsaree, considerate semplicemente troppo preziose per essere sacrificate a scopo alimentare. Il vero colpo di grazia sarebbe dunque giunto molto successivamente, nel periodo tra la guerra russo-giapponese e il primo conflitto mondiale, quando le truppe d’occupazione nipponiche videro nel lungo pelo di questa razza il materiale ideale per fabbricare le giacche d’ordinanza da utilizzare durante le proprie campagne in Manciuria. Il che portò, entro un ventennio, a una drastica riduzione della popolazione di questi cani, fatta eccezione per alcune enclavi isolate o paesi remoti dell’entroterra, dove simili compagni d’esistenza venivano gelosamente custoditi dalla popolazione. Il Sapsaree ricompare quindi nella cronache ufficiali soltanto verso l’inizio degli anni ’70, quando un gruppo di professori dell’università di Kyungpook, appartenente al distretto della città di Taegu, si occupò di raccogliere ogni esemplare superstite che gli riuscisse di trovare, portandone circa 50 in un singolo istituto in mezzo alle montagne meridionali del paese. Ma le tribolazioni di questi cani erano lungi dall’essere terminate…
Xolo per gli amici, antico cane senza peli degli Aztechi
Tra tutti gli esseri canini ad essere stati condizionati dalla selezione artificiale, i depositari di un’eredità consanguinea imperfetta e quindi prona ad ammalarsi, vivere una vita grama, sperimentare la più vasta serie di problemi, la convenzione non esiterebbe ad indicare due particolari razze: il chinese crested dog ed il chihuahua. Rappresentanti dell’esistenza canina “ai due poli estremi del pianeta Terra” l’uno costretto a vivere senza nessuna protezione pilifera dalle intemperie o la luce ultravioletta, tranne la criniera cavallina, tanto da necessitare di un generoso impiego di crema solare da parte dei suoi padroni; l’altro piccolo, gracile, con gli occhi sporgenti da pesce palla eternamente spalancati a causa del continuo nervosismo. Ma poiché conoscere davvero gli animali, talvolta, significa sfidare la convenzione, cominciamo con il dire che la discendenza di almeno il primo tra i due amici a quattro zampe risulta essere profondamente incerta, tanto da permettere la significativa fondatezza di teorie che lo vedrebbe provenire dagli stessi territori del Nuovo Mondo. E la ragione di questo è una, sopra ogni altra: l’aspetto e le caratteristiche genetiche dello Xoloitzcuintli, nome spesso abbreviato per semplicità, o sostituito con l’espressione maggiormente descrittiva di “cane nudo messicano”.
C’è molto da dire sul passato e il presente di questa creatura dai molti aspetti, di cui quello maggiormente rappresentativo risulta essere cupo come il carbone, con grandi orecchie da pipistrello ed occhi gialli demoniaci, caratteristiche capaci di ricondurlo a rappresentazioni prototipiche del Dio della Morte. Ma sia chiaro che non è Anubi, l’essere a cui mi sto riferendo, bensì il suo analogo mesoamericano Xolotl, che oltre a guidare i morti lungo i nove difficili gironi del Mictlan (l’Oltretomba) era il sovrano di ogni deformità e creatura mostruosa, nonché accompagnatore del Sole durante il reiterato terrore delle ore notturne. Ora la leggenda vuole, e ciò si riflette nell’appellativo stesso della razza composto dal nome della divinità e la parola itzcuīntli, il cui significato è cane, che tale surreale creatura fosse stata il dono di quell’essere ai suoi amici umani, creati da un diverso pezzo dello stesso Osso della Vita. Affinché potesse proteggerli da ogni sorta di malattia, una capacità che il pensiero popolare messicano, ancora adesso, tende ad attribuire al proprio animale nazionale.
L’associazione a un mito simile, d’altra parte, tende a evidenziare un qualcosa di molto significativo. Ovvero, che il concetto di un cane privo di peli è molto più antico di quanto si possa pensare. Almeno 3.000 anni, come è stato possibile desumere dai ritrovamenti di alcune antiche statuette delle culture Tolteca e Zapoteca, in cui l’artista si era premurato di rappresentare la pelle grinzosa dell’essere sacro a uno psicopompo che forse, a quei tempi, portava un diverso nome. Nell’epoca dell’Impero Azteco quindi, nato nel 1325 d.C. con il sovrano Acamapichtli, il ruolo dello Xolo iniziò ad acquisire una duplicità inquietante, con la propensione a venerarlo e al tempo stesso considerarlo cibo, da cucinare assieme al tacchino nel corso di particolari ricorrenze e banchetti dall’importante significato religioso. Ma questa creatura fantastica, così diversa dal concetto di un generico abitante di cucce o lettini, aveva ancora molto da dire nei confronti dei suoi talvolta irriconoscenti padroni…
Questo gatto non è un lupo mannaro
Che cosa ha molto pelo alla nascita, poco pelo una volta raggiunta l’età adulta, e di nuovo un folto manto color roano per tutto il corso della propria vecchiaia? Orecchie morbide e flosce. Piedi lunghi e talvolta, palmati. Con un muso parzialmente glabro in grado d’incrementare, con la giusta luce, l’impressione della profondità. Di sicuro, non è uno Sphynx. Il nobile e famoso gatto anallergico, la cui caratteristica principale è la presenza di un gene che impedisce la keratinizzazione, prevenendo di fatto il funzionamento dei follicoli e producendo di fatto un animale del tutto glabro. E neanche un topo-lupo-gatto-creatura-misteriosa, come sembrano voler affermare innumerevoli testate di curiosità, articoli semi-seri o disquisizioni relativamente disinformate sui principali hub memetici del web. Bensì un gatto vero, celebre per la sua intelligenza e l’indole giocosa ma possessiva, stranamente simile a quella di molte tipologie di cani. E a partire dal maggio del 2017, una razza effettivamente riconosciuta dal TICA (l’Associazione Nazionale Felini) qualificata per questo a competere nei concorsi di fama internazionale, a patto di possedere l’appropriato pool di caratteristiche, conformi a quelle della stirpe originaria. Un importante punto di distinzione, quest’ultimo, poiché il termine identificativo Lykoi (parola greca per il termine “lupo”) sembra essere usato ad oggi dagli amanti dei gatti in due contesti simili ma diversi: uno è l’esemplare, di qualsiasi aspetto, forma o dimensione, caratterizzato dall’assenza topica di sottopelo e che piuttosto che seguire una muta stagionale, sembra perderlo e riguadagnarlo durante fasi diverse della propria esistenza. L’altro è la discendenza dell’incrocio creato a partire da due specifiche cucciolate di quelli che vengono convenzionalmente definiti Domestic Shorthair, ovvero gatti privi di pedigree, venute entrambe in possesso della coppia di allevatori Johnny e Brittney Gobble nello stato del Tennessee durante il mese di luglio dell’anno 2010, con la collaborazione di Patti Thomas. Che contribuì a trovare un nome per quella particolare collezione di geni che tutte le personalità citate, pressoché subito, ritennero meritasse di essere preservata.
Nonostante l’opinione del pubblico. Contro le aspettative del senso comune. Il problema affrontato spesso dagli allevatori è che essi vengono ritenuti, fin troppo spesso, completamente responsabili delle loro supposte “creazioni” come se essi, lavorando in una sorta di laboratorio del Dr. Frankenstein, s’industriassero per garantirsi i maggiori e più proficui presupposti di guadagno. Una concezione questa che sembra trovare la massima espressione nella corrente di pensiero, assai popolare al giorno d’oggi, secondo cui l’unico modo legittimo di procurarsi un animale domestico sia sceglierlo presso un canile, sulla base della propria preferenza estetica o senso d’altruismo innato. Il che in effetti, non può che generare alcuni significativi problemi: perché chi mai adotterebbe un gatto o una gatta che pur godendo di ottima salute, al primo, secondo e terzo sguardo sembrano effettivamente malati di rogna? Proprio questa potrebbe essere la domanda che si posero i Gobble all’epoca, o forse si trattò semplicemente dell’occhio esperto di due sinceri amanti degli animali, che seppero intravedere nei loro nuovi beniamini un diverso tipo di bellezza, del tipo che molti dei cosiddetti benpensanti sarebbero stati pronti a giudicare in tutt’altro modo. Di certo, i cinque capostipiti elencati sul sito ufficiale Silver Lining Wolfie, Ray of Hope, Hillbilly Moonshine, Eve Havah e Opossum Roadkill (mai nome fu maggiormente carico di sottintesi) non assomigliavano ad alcun altro gatto che fosse stato fotografato o mostrato con orgoglio prima di allora, risultando piuttosto conformi ad un certo tipo di stereotipo, che potremmo avvicinare, come vuole la convenzione, all’interpretazione cinematografica classica dell’uomo lupo.
Una creatura sovrannaturale e composita, imprevedibile, soggetta alla furia trasformativa, nonché sanguinaria, della luna piena. Lo sterminatore di cacciatori impreparati, indipendentemente dalla quantità di munizioni argentee che questi ultimi abbiano portato con se all’avventura. Non proprio il tipo di suggestioni considerate desiderabili in un gatto, se è vero che ancora esistono persone che cambiano strada, qualora un felino di colore nero dovesse azzardargli a transitargli davanti in senso perpendicolare alla marcia. Eppure non è forse vero che qualsiasi animale, indipendentemente dal suo aspetto o caratteristiche ereditarie, dovrebbe avere diritto a una seconda possibilità? E chi ha detto che il brutto anatroccolo debba necessariamente diventare un cigno, per assumere un ruolo di primo piano tra il consorzio più o meno pennuto del vasto stagno attraverso il procedere delle Ere…