La strategia militare del gommone che striscia come un gambero sul bagnasciuga

Nella scena culmine di un film di spie iper-tecnologico, l’agente con licenza di uccidere insegue il cattivo della storia sulla spaziosa via del lungomare californiano. Fino al punto in cui quest’ultimo, impugnando la fidata ricetrasmittente, chiede al gruppo dei suoi sgherri d’intervenire, rallentando l’uomo al servizio di Sua Maestà con una raffica di colpi, provenienti dal sito dell’imboscata preparata proprio al fine di salvarsi da una simile situazione. Giusto il tempo necessario perché il loro capo, frenando bruscamente la sua tedesca decappottabile, possa avere il tempo di saltare oltre la fiancata, correre fino in fondo al molo e salire a bordo del suo fido motoscafo dalla linea aerodinamica prevedibilmente aggressiva. Proprio mentre l’uomo con il doppio zero, lungi dal perdersi d’animo, drifta la sua Aston Martin su due ruote in uno spazio aperto preventivamente nel guard rail, grazie ai lanciamissili nascosti sotto i fari, e mentre ancora si dirada il fumo causato da una simile manovra, punta dritto verso il punto in cui la sabbia lascia il campo all’acqua salmastra di un oceano Pacifico in realtà piuttosto agitato. Con un mezzo sorriso, l’agente preme quindi un tasto sporgente sul suo cruscotto, tale da causare un’immediata trasformazione nel suo veicolo: le ruote girano a 90 gradi evengono ritratte dentro la carrozzeria; il portabagagli, apertosi di scatto, vede fuoriuscire la sagoma riconoscibile di un motore fuoribordo. I finestrini si sollevano per quanto possibile formando una barriera impenetrabile per gli schizzi ed i proiettili allo stesso tempo. Mentre procedendo per inerzia, l’auto viola quell’impenetrabile confine, corre, fluttua, s’inabissa almeno in parte ed… Inizia agevolmente a navigare. Ma la situazione appare fin da subito più complicata del previsto: perché il fuggitivo è già soltanto un piccolo puntino all’orizzonte. Ed un mezzo anfibio non è MAI veloce quanto un sistema di trasporto concepito esclusivamente per l’acquatico elemento…
Costituisce, in un certo senso, l’unica risposta possibile nei confronti di un simile problema, spesso trascurato dagli sceneggiatori cinematografici di quei frangenti estremi. Perché la maggior parte dei veicoli su ruote dotati della capacità secondaria di galleggiare, fino a questo momento, erano stati concepiti in primo luogo come tali e soltanto secondariamente al fine di riuscire a spingersi a velocità davvero soddisfacenti una volta lasciata la sicurezza della terraferma. Semplicemente perché risultava essere tutt’altra, la loro circostanza pratica d’impiego ideale. Ed avrete qui notato il mio utilizzo del tempo passato, potenzialmente in aggiunta all’ausilio esplicativo della foto a supporto, raffigurante l’approccio inverso alla questione di una RIB (Rigid Inflatable Boat) posta sopra l’approssimazione idraulica di quattro trampoli. Al termine dei quali sono collocati, con evidente funzionalità pratica, un paio di cingoli dall’aspetto vagamente sottodimensionato. Ma perfettamente funzionati, come esemplificato dalle effettive circostanze della scena, che vedono lo scafo totalmente al di sopra della sua ipotetica linea di galleggiamento. Ed in effetti esposto totalmente all’aria fino al vertice del suo accenno di chiglia triangolare, perché configurato nella sua modalità terrigena di spostamento veicolare motorizzato. Pratica, efficiente, (di nuovo) non propriamente velocissima quando fuori del suo ambiente preferito, la nuova Iguana Pro dell’eponima compagnia francese dimostra il conseguimento a pieno titolo di tutti gli obiettivi del suo creatore. Poiché proprio qui l’imprenditore francese Antoine Brugidou, già produttore dal 2008 di una lunga serie di barche dotate della capacità di muoversi ben oltre i confini della terraferma, ha scelto di realizzare i massimi livelli della sua idea di partenza con un paio di possenti motori da 450 cavalli l’uno, facendolo a vantaggio di quel campo in cui comunemente finiscono per decadere i compromessi: l’utilizzo nel corso d’ipotetiche missioni militari. Presumibilmente gestite da un gruppo di soldati estremamente silenziosi e spietati…

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L’isola di pietre dov’è stata disegnata l’impronta digitale del mondo

Giganti che abitavano codesto mare; oppure, se vogliamo essere precisi, dei veri e propri titani. Esseri i cui piedi misuravano l’ampiezza delle strade, ed i capelli sconfinavano tra le propaggini biancastre delle nubi. Per cui tempeste, o terremoti, altro non erano che timidi sussulti delle circostanze. Ed il cui approccio funzionale alla risoluzione dei problemi, consisteva solamente nell’avvicinarsi ad un qualcosa, e toccarlo. Qualche volta in modo filosofico, attraverso l’elaborazione della volontà. Certe altre, premendo a fondo per plasmare queste forme a propria guisa ed aspetto, imitando l’approssimazione esistenziale degli Dei. Altrimenti, come mai potremmo avvicinarsi a dare un senso a tutto questo? Con la forma di un’ellissoide vagamente somigliante a una patata, l’isola di Bagnevaz (o Bavljenac in lingua locale, o ancora per gli anglofoni Bagnevaz) si trova collocata ad ovest di Sebenico, nell’omonimo arcipelago presso i confini mediani dell’Adriatico croato. Appena 0,14 Km quadrati, circondati da una spiaggia sottile ed occupati da una vegetazione piuttosto rada e separata da una serie di barriere. Che non avrebbe invero alcuna caratteristica degna di nota, se non fosse per il piccolo “dettaglio” dei 1430 metri di muri a secco che ne circondano e percorrono l’entroterra, delimitando una grandissima serie d’ambienti, capaci di avvicinarsi esteriormente all’aspetto presumibile di un labirinto. Il che, aggiungendo all’equazione l’effettivo aspetto dell’intero paesaggio visto dall’alto, finisce per ricordare a sua volta l’aspetto di un’impronta digitale dalle proporzioni niente meno che monumentali. La cui presenza, tralasciando transitorie ipotesi di tipo folkloristico, avrebbe potuto sconcertare particolarmente gli scienziati alla ricerca di antiche civiltà o studiosi degli eventi fuori dal contesto, se non fosse stato per l’apprezzabile dislocazione nell’intero territorio di un’ampia serie di luoghi similari, sebbene dalla forma meno suggestiva d’ipotetiche presenze spropositate. Trattasi, nello specifico, di esempi del cosiddetto dalmatinski suhozid o “muro a secco dalmata” importante linea guida architettonica funzionale alla delimitazione, protezione e consolidamento dei terreni agricoli, talvolta capace di prendere la forma di veri e propri terrazzamenti, utili a massimizzare l’area coltivabile di un paese non sempre fertile in maniera sufficiente a favorire gli interessi dei suoi abitanti. Ma che in casi come questo, letteralmente privi di un’elevazione al di sopra di pochi metri dal livello del mare, finisce piuttosto per assumere la funzionalità di una barriera nei confronti del vento, oltre all’unico sistema attraverso cui la letterale copertura di pietre che caratterizzano il paesaggio può essere impiegata con un fine utile, conseguente dall’appropriato accumulo poco prima di sotterrare i semi delle proprie piante.
Chi ha costruito Bagnevaz, dunque, e perché? La risposta breve è che nonostante la memoria storica dei locali appaia avere delle idee piuttosto chiare in merito, l’informazione non parrebbe aver trovato una casa sicura su Internet, dove il “mistero inspiegabile” e “l’eccezionale aspetto” dell’antico territorio agricolo croato parrebbero aver sovrascritto nel tempo ogni approccio razionale all’intera faccenda. Raccogliere e confrontare le fonti, oltre all’uso della logica in merito alla vicenda umana di questa regione, può permettere il parziale accesso ad un sentiero esplicativo piuttosto valido. Quello che vedrebbe la piccola terra emersa come uno spazio di sostentamento per le molte comunità costiere nate in bilico tra il XIX e il XX secolo, quando il dominio e la tassazione dell’Impero Ottomano, ancor prima dello scoppio della prima guerra mondiale, aveva spinto molti abitanti dell’entroterra a trasferirsi in località il più possibile remote. Praticando in questo sito specifico, a quanto sembra, la coltivazione particolarmente redditizia della vite vinicola, in un periodo durante il quale varie pandemie agricole avevano creato un vuoto nel vasto mercato enogastronomico dell’Impero Austro-Ungarico al di là dello stretto mare. Almeno finché qualcosa d’inaspettato e imprevedibile, ancor peggiore di qualsiasi guerra, non avrebbe finito per costare molto caro ai possessori di questi campi. L’arrivo, sulle disabitate coste, dei conigli…

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L’anatomia policroma del delta dello Yukon, polmone dell’America boreale

Nelle oscure profondità dell’edificio di medicina, alcune delle più influenti personalità dell’Università di Heidelberg erano giunte per assistere all’esperimento. Il giovane ricercatore Gunter von Hagens, nel corso dell’intero 1977, aveva redatto testi, e pubblicato articoli, in merito a una sua speciale invenzione tecnica, capace di lasciare molti senza parole. Ma in quel giorno, in quel momento, era finalmente giunto il momento della verità. Spettatore silenzioso sopra la barella al centro del teatro anatomico, il corpo ormai privo di vita di uno dei molti senzatetto della Germania Est, volontariamente “donato” alla scienza nel momento estremo della sua dipartita. Ora il promettente anatomopatologo, già detentore di svariate pubblicazioni di fama internazionale, descriveva ancora una volta i passaggi successivi della sua invenzione, attraverso cui avrebbe creato il più impeccabile modello di studio del sistema venoso umano. Terminato il breve discorso, girando attorno alla pompa della resina, impugnò il pesante tubo a Y, che con procedette quindi ad inserire rispettivamente nell’esofago e nella trachea del paziente. Senza troppa gentilezza, né forza eccessiva, avendo fatto pratica per più e più volte, prima di procedere all’accensione così lungamente attesa del suo meccanismo. Tecnologia, magia, qual è la differenza? Pensò sommessamente tra se e se, mentre il processo di plastinazione raggiungeva l’apice di quel momento straordinariamente significativo. Ora sarebbero dovute trascorrere ore, o giorni, prima di poter procedere al passaggio successivo. Ma come in un programma di cucina per la Tv, Hagens aveva già preparato un secondo cadavere, posizionato su di una barella accanto al suo malcapitato collega. Con un gesto magniloquente, dunque, tirò la leva per attivare il sistema elevatore che l’avrebbe immerso all’interno di una grande bacinella in fibra di vetro. Ricolma, per l’occasione specifica, di una copiosa quantità della sua speciale miscela d’acetone. Ora i minuti trascorsero lunghi minuti e quasi un’ora, mentre il processo di corrosione chimica si svolgeva secondo il copione attentamente prefissato. Hagens utilizzò il tempo per spiegare nuovamente come fosse giunto a quel processo, finché non seppe che si era arrivati ormai al suo miracoloso compimento. Ecce homo, sussurrò trionfale, tirando su con estrema cautela il soggetto finale della procedura. Con la sua testa ormai priva di bulbi oculari (un paio di biglie di vetro sarebbero servite allo scopo) la muscolatura pienamente visibile, ma soprattutto, ogni singolo canale venoso ed arteria perfettamente messo in evidenza, grazie a una vera e propria ragnatela di colori scelti per il massimo contrasto visuale. Mentre i presenti osservano con attenzione il risultato, già un mormorio diffuso cominciò a diffondersi tra i capannelli di esperti al vertice dei rispettivi settori. Ma fu quando la prospettiva permise finalmente di scorgere il risultato ottenuto sui polmoni del cadavere, che un applauso si concretizzò spontaneamente tra gli spalti: esofago, bronchi e bronchioli, fino ai più infinitesimali capillari ed alveoli di quelle sacche d’aria, gloriosamente spalancate innanzi allo sguardo indagatore dei viventi. Qualcosa di straordinariamente ordinario come la morte, oggi, aveva finalmente dato i suoi frutti eccezionali, che sarebbero durati per lungo, lunghissimo tempo.
Che la Terra sia essenzialmente condannata a deperire, scolorendosi fino alla sua imperterrita ed inevitabile dipartita, è un concetto largamente dato per inevitabile dalla cultura della nostra epoca post-moderna. Mentre rassegnati a un simile destino, sfruttiamo fino all’ultima risorsa di cui possiamo ancora disporre, nella speranza di riuscire un giorno a sviluppare il viaggio interstellare. Il che del resto non preclude, a questa umanità così drammaticamente simile a un’infezione virale, di compiacersi di ciò che ancora riesce a possedere, tramite l’inquadratura di una telecamera lanciata a molti metri al secondo, molte migliaia di chilometri sopra la linea dell’orizzonte. Landsat 8, questo il nome dell’artista, se tale può essere davvero definito uno strumento senza nessun tipo di cervello come la scatola lanciata dalla Nasa, nel corso di un’utile missione, a unirsi alla moltitudine di oggetti in orbita terrestre asincrona, con la finalità di realizzare il più alto numero possibile di panorami utili a commemorare la già sofferente natura. E farlo questa volta, rispetto all’opera dei suoi sette predecessori (non tutti altrettanto destinati al successo) tramite l’impiego dello speciale sensore Operational Land Imager (OLI) dotato di 7.000 sensori per ciascuna banda dello spettro cromatico, anche al di là della parte osservabile dell’occhio umano. Qualcosa che permette di mettere in evidenza, volta per volta, immagini capaci di mettere in evidenza la Vera Realtà, senza passare per il filtro spesso soggettivista del cosiddetto senso comune. In casi come quello sperimentato lo scorso maggio, quando l’apparecchio venne puntato, in una serie di passaggi successivi, presso il maggiore e più importante delta dell’intera America settentrionale. Nonché uno dei più vasti, ed atipici, dell’intero pianeta…

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Florilegio di luci che si affollano nel fiordo: un milione di meduse con la forma di un fungo

Creature tanto diverse dalle linee guida indicative conosciute dall’uomo, da potersi meritare a pieno titolo l’aggettivo “aliene” che non significa per forza extra-terrestre, bensì privo delle doti che comunemente servirebbero a identificare… Un terrestre. Tutto questo e molto altro, una volta tratte fuori dal contesto, finiscono per diventare le meduse, prive di occhi e di cervello, ma anche di radici o cellule pensate per trarre nutrimento dalla pura e semplice luce del Sole. Facendone per forza di cose dei veri e propri predatori, capaci di attraversare le distese subacquee trasportate dalle correnti oceaniche, lasciando dietro di se una letterale scia di morte e distruzione. Cobepodi. Krill. Ostracodi. Chetognati. Tutte forme di vita piccolissime, ma sottoposte ad un eccidio d’entità terrificante, mentre quotidianamente vengono agguantati da un lungo tentacolo, trasportati fino a quelli circostanti l’apertura boccale. E senza un minimo d’esitazione, inglobati in quello stomaco molte migliaia di volte più capiente del loro. Eppur potremmo scegliere di definire, persino nelle vaste moltitudini marine, precise graduatorie in merito a una simile faccenda, di cosa appaia degno a pieno titolo di tale planetario agnosticismo, inteso come una natura che parrebbe appartenere e Venere, Plutone o una qualche inospitale luna di Giove. E se così fosse davvero, non ci sono molti dubbi in merito: la Periphylla periphylla, o medusa elmetto/cappello di Babbo Natale, avrebbe il chiaro merito di venire tra i più alti membri di tale classifica creata dal pensiero umano. Essendo non a caso l’unica rappresentante del suo genere, come desumibile dal nome specifico ripetuto ripetuto per ben due volte.
Ogni anno, verso giugno-luglio, tende a succedere la stessa cosa; sebbene non si tenda a farci caso sempre per la stessa conseguenza tra causa ed effetto. Così talvolta è l’esperienza di un pescatore solitario, che ne scorge il rosso abito impigliato all’interno della propria rete. Qualche altra, appaiono degli esemplari morti sulle anguste spiagge, troppo lenti o incauti per tornare a nascondersi dalla luce diurna, per loro pari a una condanna senz’alcuna possibilità d’appello. E certe altre, semplicemente se ne nota la presenza, per il calo di numero del pescato, causa fagocitazione sistematica delle fondamentali larve fuoriuscite dalle uova di pesce. Siamo a Trondheimsfjord, tanto per fare un esempio, benché situazioni analoghe abbiano ragione di verificarsi lungo l’intera costa della Norvegia; e alquanto inaspettatamente, anche dentro varie insenature e luoghi dei distanti oceani meridionali, fino all’Antartide, luogo più gelido del nostro intero pianeta. Il che risulta tanto più incredibile, quando si considera come stiamo parlando di un tipo di creatura da circa 30 cm e 540 grammi di peso, che normalmente sopravvive solo a temperature situate tra i quattro e gli undici gradi celsius, con punte massime di venti sopra lo zero. Ma naturalmente, l’escursione termica tende a pesare in modo molto meno significativo quando si parla di esseri che vivono a una media di 2000-2500 metri sotto il livello del mare, benché tendano a concedersi regolari escursioni notturne fino alle acque maggiormente nutrienti (per il loro metodo di filtratura) che si trovano ad appena qualche decina di metri dai confini dell’aria. Il tutto, sempre premurandosi di fare la propria mossa tra l’alba ed il tramonto, a causa della già citata debolezza simile a quella di un troll o un vampiro. Un’avversione fotofobica che trova la sua unica ragione per il vermiglio pigmento che ne ricopre l’epidermide, chiamato porfirina, che tende a danneggiarsi non appena viene inibito dall’effetto della luce solare. Per un’insolita condizione chimica, che poteva appartenere solo a simili creature abissali, ulteriormente riconfermata dalla grande quantità di L-lattato deidrogenasi (LDH) all’interno del loro organismo, un’enzima incaricato di far funzionare il metabolismo nell’assenza pressoché totale di ossigeno. Una dote degna di essere chiamata niente meno che fondamentale, per riuscire a definire una creatura che potrebbe provenire da un’antica diaspora di mondi lontani…

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