Le targhe incendio e la nascita delle assicurazioni inglesi

Molte parole sono state spese contro la percepita inefficienza del sistema pubblico dei servizi, la difficile attribuzione della responsabilità negli uffici, la generale incuria delle amministrazioni dei moderni comuni e regioni. “Stavamo meglio quando la gente gestiva autonomamente i propri interessi” è solito esclamare qualcuno; quando… I pompieri accorrevano sul luogo di un incendio. E prima di aprire le pompe, controllavano la presenza di un’apposito simbolo sopra la porta d’ingresso! Se tutto era in ordine, quindi, spegnevano il fuoco. Altrimenti aspettavano, prima, di essere pagati. Oppure tornavano a casa. Un metodo… Non propriamente altruistico, se vogliamo, eppure temprato nella furia del singolo maggior disastro che la città di Londra avesse mai conosciuto. Stiamo parlando del XVII secolo per essere più precisi, quando la principale risposta civica all’improvvida combustione di una casa, un quartiere, una città, altro non era che la classica catena di secchi a partire dal corso o lo specchio d’acqua più vicino, coadiuvata da qualche rudimentale e piccola pompa manuale. Null’altro che questo e soprattutto, niente che potesse davvero risolvere il problema. Così il 2 settembre del 1666, l’anno della “profezia finale” (dopotutto, chi non conosce il significato di quel triplo 6?) accadde che il fornaio Thomas Farriner di Pudding Lane dimenticasse di spegnere il forno prima di andare a dormire. E nel profondo dell’oscurità notturna, si diffondesse la luce della deflagrazione, seguita da fuoco vivo sempre più vasto e diffuso nelle quattro direzioni cardinali. Dovete considerare che in quel periodo, per una sfortunata contingenza del clima, c’era stato un susseguirsi di giorni straordinariamente caldi e secchi. Inoltre, il sindaco di Londra Sir Thomas Bloodworth,  per la sfortuna di tutti, tardò nel far implementare l’unica strategia davvero funzionale che ci fosse a disposizione contro la distruzione indiscriminata della città, ovvero la demolizione degli edifici circostanti al vortice di fiamme. Così l’inferno si manifestò sulla Terra, continuando nella sua opera di procura di anime sfortunate o stolte. Ci vollero tre giorni e mezzo perché la furia che lambiva il mondo venisse arrestata, prima che l’ultimo dei malcapitati coinvolti potesse iniziare a riposare le stanche membra, sdraiandosi nel mezzo di una strada o sopra le rovine di ciò che era rimasto di casa di sua. 430 ettari di città erano andati distrutti: 13.200 case ed 87 chiese, tra cui la cattedrale anglicana di Saint Paul. Le conseguenze a livello sociale ed economico furono drammatiche, con ripercussioni fino alla terza generazione. La gente cercava sicurezza, un modo per proteggersi da eventuali episodi simili successivi. Un uomo, in cerca di nuovi margini di guadagno, si fece avanti con un’idea.
Quell’uomo fu il Dr. Nicholas Barbon, figlio di un noto predicatore puritano, che aveva studiato come medico ma desiderava, sopra ogni altra cosa, diventare un uomo d’affari. Era dunque soltanto il 1668, quando in un minuscolo ufficio in un punto imprecisato della city, nacque la prima compagnia di assicurazioni antincendio della storia. Un azzardo che si rivelò vincente, a tal punto che gli introiti gli permisero di fondare anche una banca a suo nome ed iniziare la scalata del successo economico, coltivando la sua dottrina del populazionismo, secondo cui la ricchezza di una nazione sarebbe cresciuta solamente attraverso quella dei suoi singoli abitanti. Ben presto, tuttavia, il suo campo operativo principale diventarono i prestiti personali. Nel 1680, quindi, arrivò un secondo imprenditore, un certo Newbold appartenente alla nutrita schiera dei fanatici religiosi, che istituì il servizio noto come “The Fire Office” con finalità simili a quelle del predecessore. Egli non ebbe grande fortuna, anche per una mancanza d’empatia e l’incapacità di lavorare con altri, e morì in stato di povertà nel 1698. Prima di quel momento, tuttavia, aveva accidentalmente avuto un’idea destinata a cambiare le regole del suo campo: l’istituzione di una brigata antincendio e del relativo marchio, una fenice in fiamme. Il ragionamento era tutt’altro che ingenuo, poiché nel momento in cui una compagnia si assume il compito di ripagare i danni causati dal fuoco, non sarebbe forse nel suo interesse operare in ogni maniera possibile per ridurre il pericolo di un simile disastro? Assieme alle polizze, dunque, Newbold iniziò a distribuire l’uccello in questione, realizzato in metallo, ai suoi assicurati, affinché essi potessero affiggerlo come marchio di riconoscimento sui propri edifici. A partire dalla decade successiva, la vasta proliferazione di compagnie concorrenti iniziarono a fare lo stesso.

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È neozelandese il più innovativo concetto di mezzo anfibio

La linea inizia in alto a sinistra, prendendo una piega ellissoidale. Quindi, raggiungendo l’apice all’altro capo del diagramma, torna indietro in maniera piuttosto brusca, creando un perimetro inferiore dalla forma verticalmente speculare. Al ritorno verso il punto di partenza, poi non si ferma, ma crea un incrocio e prosegue per la sua via. Gli estremi non si sono incontrati. Sotto la figura, due piedi rivolti in avanti completano il ritratto stilizzato. Avete capito di che cosa stiamo parlando? È il pesce di Darwin, simbolo degli evoluzionisti americani. Che per quanto possa mancare dell’immediatezza e semplicità dell’ichthys, il graffito che identificava segretamente le chiese e le tombe cristiane all’epoca dell’Impero Romano, presenta indubbiamente una marcia in più rispetto all’alternativa: in quanto gli risulta possibile, in caso di necessità, emergere dall’Oceano e mettersi a camminare. Qualcuno giura che proprio questo deve essere successo in un preciso momento del nostro più remoto passato. Altri affermano che assolutamente* non può essere andata così, perché nella Bibbia c’è scritto che fummo creati a Sua immagine e somiglianza. Tutto ciò non si applica, d’altra parte, per quanto concerne le barche. “Ehi, ehi, attento! Non fare così…” In un attimo, l’intero pubblico della spiaggia delle Cannelle volta lo sguardo verso il piccolo dramma, di un bagnante che sta vedendo passare, a una ragionevole distanza di sicurezza, la forma scura di un grosso gommone. Il quale sembra puntato, senza la benché minima attenzione per il futuro, dritto verso la riva: “T’incaglierai!” Madri richiamano i figli, preoccupate. Cani abbaiano verso l’orizzonte. Qualcun’altro si avvicina, per meglio assistere alla catastrofe imminente. Man mano che si avvicina, diventa più facile riconoscere l’imbarcazione: Thunderbee ES-1, enuncia la scritta sul fianco. Il che la identifica come il battello di supporto del mega-yacht approdato ieri presso il porticciolo dell’Isola del Giglio. Le due persone a bordo, dalla provenienza probabilmente americana, non mostrano alcun tipo di rimorso apparente per il disastro che stanno per causare. D’un tratto, come a un segnale non visto, lei solleva il motore fuoribordo, mentre lui si dispone lateralmente ai comandi, quasi volesse attivare un sistema ausiliario di qualche tipo. Il gommone, inesplicabilmente, continua la sua marcia verso la perdizione. Raggiunta la riva, si solleva continuando a grondare acqua e dimostra l’ineccepibile verità: tre zampe poste in corrispondenza dei vertici lo mantengono separato dal suolo. Al termine di tali arti, ci sono altrettante ruote. Senza rallentare eccessivamente, il vascello fuoriesce completamente dal mare, proseguendo felicemente per la sua strada.
Può sembrare ovvio ma in realtà non lo è, affatto: aggiungi le ruote a una barca e quella acquisirà l’abilità di spostarsi fuori dall’acqua. Altrimenti, perché nessuno ci avrebbe pensato mai? La tipica espressione di un mezzo anfibio, sia in campo militare che civile, è da sempre la stessa. Si prende un affidabile mezzo di terra, lo si impermeabilizza tramite l’aggiunta di un vero e proprio scafo, si aggiungono i propulsori da usare nel momento in cui le ruote diventano inefficienti. Nei casi più tecnologicamente avanzati, ci si premura che gli implementi veicolari di terra siano montati su cardini retraibili, per venire ritratti al fine di massimizzare le qualità idrodinamiche del mezzo. Ma alla fine della fiera, la questione è sempre la stessa: si tratta di un’automobile che va nell’acqua. Giammai, il contrario. Il che risulta certamente ideale per uno scenario d’impiego in cui il proprietario intende recarsi al mare (o al lago) già guidando il suo natante su strada, operazione che richiede l’aderenza a determinati standard di sicurezza e funzionamento. Ma che dire, invece, di chi cerca soltanto una maniera semplice per lanciarsi nel mare o fare ritorno alla terra ferma, in assenza di un molo? Bypassando quel tipico, gravoso problema del dover tirare manualmente a riva il gommone etc. etc, facendo bagnare se stessi e gli altri, inclusi gli eventuali bambini ed anziani a bordo.
Una possibile risposta è questa. Nata dalla mente dell’imprenditore, ingegnere ed inventore neozelandese Maurice Bryham, fondatore negli ultimi 20 anni di un ampio ventaglio di aziende del settore tecnologico, tra cui quella di maggior successo, l’internazionale Sealegs. “Gambe di mare” Un nome, un programma; che sembra volersi riferire all’espressione proverbiale per identificare l’esperienza dei marinai veterani. Pur essendo, nel contempo, una descrizione diretta del loro prodotto eponimo, nonché linea di maggior successo commerciale. Lo stesso sistema che abbiamo immaginato a bordo della nostra virtuale Thunderbee ES-1.

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Atari e la leggenda della spada d’oro perduta

Nello storico e memorabile episodio di South Park “Make Love, Not Warcraft” i giovani personaggi a cartoni animati creati da Trey Parker e Matt Stone si ritrovano ad affrontare una crisi senza precedenti per quello che a quell’epoca era ancora l’indiscusso più popolare videogioco online della storia. In una delle scene culmine della vicenda, il padre di Stan, Randy Marsh, riceve dagli sviluppatori del gioco una normale chiavetta USB da 1 Gb, all’interno della quale era contenuta la Spada delle Mille Verità, un oggetto di gioco talmente potente da essere stato precedentemente rimosso e custodito segretamente per anni all’interno di un oscuro cassetto aziendale. L’avvincente parallelismo tra la battaglia finale digitale dei bambini, e la corsa in macchina dell’eroe adulto, in una versione umoristica di uno dei capisaldi della letteratura fantasy fin dall’opera tolkeniana, offre uno spunto d’analisi interessante sulle interazioni tra mondo reale e virtuale, nonché il valore arbitrario che può essere attribuito ad oggetti privi di effettiva sostanza. Qualcosa che forse, soltanto oggi, sta iniziando a prendere effettivamente piede all’interno di determinati generi e contesti commerciali, come il mercato di Steam. E se vi dicessi che già nel 1984, una spada leggendaria dei videogiochi fu fatta oggetto di una cerca negli interi Stati Uniti? Al punto che un impiegato di Atari, la principale compagnia del settore, arrivò a credere di vederla sopra il caminetto nella magione del suo capufficio Jack Tramiel scatenando i media del settore, soltanto per far scoprire in seguito che si trattava di un vecchio cimelio di famiglia. Per la cronaca, non stiamo parlando stavolta di un qualcosa che possa essere contenuta all’interno di bits & bits, “fantasma nel guscio” di uno scrigno di plastica senza un peso. Bensì di una vera lama di almeno 70 cm, completamente ricoperta d’oro e gemme preziose, dal costo stimato di 50.000 dollari. Ovviamente, era questa la differenza.
Nel qui presente lungo e articolato video di AVGN (non dimenticate di attivare i sottotitoli in italiano) l’eponimo “Nerd Arrabbiato dei Videogiochi”, celebrità di vecchia data nel suo settore, racconta per filo e per segno una delle più strane e popolari vicende legate alla compagnia americana che per prima, nella storia del media digitale interattivo, riuscì a manifestare un considerevole profitto positivo, fino all’improvviso e repentino collasso nel 1983. Per una questione di eccessive produzioni scadenti, l’insufficiente controllo da parte dei produttori dell’hardware e il generale, quanto improvviso, disinteresse del pubblico per qualcosa che precedentemente aveva profondamente amato. Questa è una storia, dunque, legata al più grande crash commerciale che un intero media in crescita abbia mai subito, ma anche del suo breve e selvaggio trionfo, quando poteva bastare una singola pubblicità sulle riviste, per guadagnarsi un ritorno d’immagine tale da scaraventare i fan in una sorta di furia emotivo, in cui l’acquisto del prodotto è soltanto l’inizio di una vera e propria ossessione, che trasportasse gli acquirenti in un mondo in cui nulla potesse esistere, tranne l’aspettativa per il prossimo capitolo del racconto.
Swordquest del resto, su specifica concezione del designer di larga fama Tod Frye, era molto più di un semplice videogioco, ed il concorso ad esso associato, molto più di una semplice pubblicità. Le due cose assieme, in modo particolare, potrebbero essere definite come una sorta di esperimento sociale, ovvero la trasposizione effettiva del mito di Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, o volendo effettuare un paragone più moderno ed anacronistico, le scapestrate avventure del protagonista sovrappeso del romanzo Ready Player One. Tutto nacque da una fortuita, tripla sinergia: proprietaria dell’Atari a quell’epoca, infatti, era la compagnia Warner Communications, futura Warner Bros, che vantava nel suo eclettico parco di subordinate anche la DC Comics di Superman e una zecca privata specializzata nella creazione di gioielli a tema, la Franklin Mint di New York. Per il primo episodio della nuova serie dello stesso autore che aveva portato Pac-Man sull’Atari 2600 soltanto due anni prima, fu dunque deciso che la scatola includesse un albo a fumetti di Gerry Conway e Roy Thomas, con le illustrazioni di George Perez, all’interno del quale sarebbero state nascoste delle parole. Completare il gioco interattivo quindi, e mettere in relazione gli indizi presenti alla fine di ciascun livello con la carta stampata, avrebbe permesso di indovinare una frase e partecipare a un torneo finale, il cui vincitore avrebbe vinto una serie di premi. La natura di questi premi, almeno su carta, era a dir poco…Priva di precedenti.

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L’utilità di una stampante a forma di pistola

“Dannazione, lo sapevo…” Era la quindicesima E-mail di reclamo nel giro di un paio di mesi, giunta come una palla di fuoco nell’ufficio annesso alla fabbrica metallurgica della G-Corp. “Hans! È successo di nuovo.” L’ultimo prodotto uscito dal reparto di quei cervelloni dell’ufficio brevetti: un nuovo tipo di impalcatura modulare, che riduceva del 25% la necessità di bulloni e rivettature da integrare sul campo. Meno lavoro, meno perdite di tempo, più profitti per le compagnie di costruzione. Eppure, un potenziale problema: “Chi è stato, stavolta? Non dirmi che si tratta di un altro cliente del mio giro in Baviera…” Un prolungato silenzio di solidarietà, dall’altra parte dell’ufficio agenti della compagnia. Ancora una volta, sarebbe toccato a lui. L’ente di certificazione era stato estremamente chiaro: i componenti del sistema d’impalcatura dovevano essere etichettati uno per uno. Altrimenti era considerato “un margine d’errore probabile” che il punto di raccordo E-7 venisse scambiato con il G-5, portando ad un’instabilità strutturale, crolli e potenziali infortuni sul posto di lavoro. Ma non potevano esserci sanzioni, proprio perché il prodotto era stato, precedentemente, certificato. Del resto chi avrebbe mai pensato che operai specializzati potessero scambiare una giunzione a gomito 15×30 con un’altra che misurava 20×25? Era persino di un altro colore! La stanchezza, si sa, può fare scherzi tutt’altro che appropriati… “No, non preoccuparti. Nessuno si è fatto male, stavolta. Hai visto… L’etichettatrice?” Se questo fosse stato un film thriller, in quel momento sarebbe partita la musica di tensione. Si era infatti creato, negli ultimi tempi, un preciso processo aziendale, per cui il contatto di ciascuna vendita sarebbe dovuto andare volta per volta presso la sede del compratore che aveva commesso il “ragionevole” sbaglio, ed identificare uno per uno i componenti. Nel pacchetto standard del nuovo sistema della G-Corp, pensato per l’uso urbano pesante, c’erano in media 6.450 pezzi di varie dimensioni. E non finiva lì: il sistema delle etichette, l’unico utilizzabile sul campo, non veniva considerato resistente alle intemperie. Era dunque necessario, per ciascuna singola applicazione, l’aggiunta di un foglio trasparente adesivo, al fine di rendere impermeabile il metodo d’identificazione. In altri termini… Ore ed ore di lavoro fuori sede, su e giù per impalcature già messe in opera, intralciando gli operai comprensibilmente scocciati dall’insorgere di questa imprevista necessità. Con un improbabile mezzo sorriso, Hartman indicò ad Hans l’armadio a muro in plastica in fondo alla sala, recente aggiunta della dotazione dell’ufficio: “Vai un po’ a vedere lì. C’è un a sorpresa del nostro reparto acquisti. Credo che ti piacerà…” Alzandosi dalla sedia e aggrottando le sopracciglia, l’agente di vendita prese a camminare con passo spedito verso la direzione indicata. Pensierosamente, aprì lo sportello di destra, trovandosi di fronte a una valigetta nera con un logo mai visto prima: EBS…Ink-Jet? “Aprila, amico mio!” Con un brivido appena percettibile, sollevò il coperchio. Poi elaborò la domanda: “Hartman, was ist das? Non starai suggerendo che vada lì ARMATO?”
Armato e pericoloso, proprio così. Tenendo in pugno, tra le forti dita della tua stessa mano destra, il singolo strumento più potente a disposizione dell’uomo moderno:  il sogno di Gutenberg, l’invenzione di Magonza, il grande dono del popolo tedesco all’intero Mondo Occidentale, ovvero un sistema di stampa (a getto d’inchiostro, perché siamo pur sempre nel terzo millennio) Diversa, ad ogni modo, da tutte quelle viste fin’ora. Perché priva di carrello, interfaccia, cavo d’alimentazione, sistema per caricare i fogli… Strano come le cose in apparenza più semplici, da un punto di vista tecnologico, richiedano spesso un grado di sofisticazione maggiore. Questa è la storia dell’EBS 260, un prodotto talmente innovativo ed intrigante, da essere diventato “accidentalmente” virale al di fuori dell’ambito specialistico per cui era stato originariamente progettato. E in merito al quale, la scorsa domenica, un rivenditore statunitense di nome Jason si è ritrovato a fare una puntuale descrizione sul portale Reddit, a vantaggio di un’utenza che a dire il vero, era venuta soltanto per godersi la gif. Ma chi può dire quali futuri professionisti potrebbero trovarsi a passare di lì, grazie alle alterne ed interconnesse strade di Google? O quante persone, restando colpite da un simile meccanismo, potrebbero parlarne ad amici, parenti… Ai Lettori di un blog… Il dispositivo in effetti, definito nei video a corredo come “Il primo della sua categoria” è l’espressione perfezionata di un concetto dall’estrema praticità: trasferire nel mondo fisico lo strumento più amato di Photoshop. O Illustrator, etc; quella piccola icona che, una volta cliccata, permette di disporre un testo al di sopra di una linea più o meno curva, all’interno di un cerchio e così via. Particolarmente amato dai product manager, perché permette di prendere un oggetto apparentemente anonimo, e caratterizzarlo con il brand della compagnia. Ma neppure loro avrebbero pensato che un giorno, la stessa cosa sarebbe diventato possibile farla in post-produzione, sulla base delle alterne necessità del momento.

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