Ultima speranza per la lumaca pelosa del Tamigi, che anticipa direttamente i tempi grigi

I cappelli con visiera per proteggersi dal sole, le calosce per mettere i piedi l’uno innanzi all’altro, nel fangoso spazio ripariale di uno dei più celebri, sporchi e navigati fiumi cittadini dell’emisfero Occidentale. In questo scenario di Isleworth Ait, stretta terra emersa tra le anse del fiume londinese, si aggirano i concologi dotati di strumenti videografici, sacche di raccolta e blocchi per gli appunti dalla copertina cerata. Il loro obiettivo: contare per quanto possibile, in mezzo a una città di 9 milioni di persone, gli esemplari che persistono di una specie considerata ormai in via d’estinzione nazionale. Il cui nome comune tradisce una morfologia non priva di corazza e un vello irsuto di estrusioni pilifere perimetrali. Trattasi nello specifico di German Hairy Snail, ovvero la Lumaca Tedesca Pelosa. Così chiamata perché risalente, dal punto di vista evolutivo, all’epoca remota in cui le isole inglesi facevano ancor parte della principale massa continentale europea. Ed i due corsi del Tamigi e del Reno erano consequenziali, senza l’odierna intromissione salmastra del Mare del Nord. In un singolo fiume ininterrotto la cui rotta costituiva un habitat esteso in senso longitudinale, ricco di nicchie ecologiche tra cui quella in mezzo al fango, tra foglie e radici disparate, dove piccole creature avevano prerogativa di nutrirsi e moltiplicarsi indisturbate per quanto possibile dai predatori. A patto di rispettare delle linee guida, traendo beneficio dalle proprie caratteristiche speciali, che nel caso della Pseudotrichia rubiginosa non più larga di 7 mm trovano conferma in quel particolare aspetto tangibile, coadiuvato dal possesso di quella peluria dalle plurime finalità protettive. In primo luogo nei confronti della secchezza, ancestrale nemico dei molluschi di terra, combattuta tramite le gocce catturate e mantenute in trappola come un mantello dalla fibbia a spirale. Agendo nel contempo a guisa dei denti di un pettine, così da garantire l’aderenza della piccola creatura sulle sabbie, impedendogli di venire trasportata via dalla corrente. E infine trattenendo il fango ed i detriti per mimetizzarsi, durante le opportune fuoriuscite dalle tane occulte, alla ricerca di quel cibo quotidiano dello strato di microrganismi, batteri, microfunghi ed altro, da raschiare con la propria radula dai chitinosi dentelli. Solida e morbida al tempo stesso, la lumaca di questi recessi ha continuato dunque a prosperare per millenni, del tutto indifferente ai profondi mutamenti geologici del mondo. Finché l’uomo non ha cominciato a costruire il necessario tipo di opere, posizionate sulle rive degli antichi affluenti, finalizzate a render netto quel confine, così da scongiurare il rischio di eventuali esondazioni ed allagamenti. Un gesto che potremmo definire imprescindibile ed irrimediabile anatema, nei confronti di quegli esseri che avevano l’umile prerogativa di chiamarla “casa maggiore” in aggiunta a quella “minore” trasportata, eternamente, dentro il guscio dell’unica e umida pertinenza situazionale…

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La seducente danza gravitazionale dell’uccello africano fluttuante

Quando il pregio coreografico di una sequenza del movimento dei corpi alberga nella staticità, piuttosto che il dinamismo? La risposta, in questo caso, è rintracciabile direttamente nell’approccio umano a una determinata attività del mondo: il volo, e tutto ciò che lo circonda. Pensate a un elicottero, immobile nel cielo mentre l’equipaggio si avvicenda nel portare soccorso. O la formazione di aeroplani di una pattuglia acrobatica, ciascuno dei quali reciprocamente equidistante dall’ombra inamovibile dei propri compagni. Poiché le macchine create con un approccio tecnologico potranno anche operare in modo prevedibile, ma ciò non resta valido per quanto riguarda il vento, la pressione atmosferica, la resistenza dell’attrito latente. Il fatto, poi, che una simile classe d’imprese rientri nel quotidiano per imenotteri, libellule, farfalle e persino colibrì, permette di comprendere istintivamente la notevole portata dell’evoluzione e quanto sia efficace nel raggiungere quel tipo di perizia, quanto meno per creature dalle dimensioni relativamente contenute. Esiste d’altro canto almeno un caso, originario del più antico continente al di sotto del deserto del Sahara, di un volatile della grandezza pari a quella di un passero dei nostri lidi europei. La cui dote comportamentale maggiormente caratterizzante può indentificarsi, al sopraggiungere della stagione degli accoppiamenti, in un particolare approccio alla seduzione della partner. Consistente nel posizionarsi con agili battiti all’altezza del suo sguardo, equilibrista consumato tra la terra ed il cielo. Con battiti precisi delle ali bianche e nere, un ritmo esatto ed ampiamente collaudato; mentre la sua coda lunga cinque volte l’estensione del corpo, composta da cupe piume appuntite, si aggroviglia volteggiando su se stessa in una reiterata progressione dei diversi momenti. Da cui il nome in lingua inglese di Pin-tailed Whydah o “Vedova dalla coda a spillo”, che diventa in italiano “domenicana” in riferimento alla tenuta contrastante di quel particolare ordine religioso. Il che può giungere a costituire, in effetti, un fraintendimento di massima, poiché l’iconica livrea di quel passeriforme completa di becco arancione fiammante, così efficacemente rappresentata in innumerevoli testi di approfondimento, è in realtà un prodotto specifico raggiunto dai soli maschi in “quel” particolare periodo dell’anno. Laddove il marcato dimorfismo che rende la femmina di un colore fulvo tendente al marrone scuro, in effetti si rispecchia a pieno titolo anche nei loro potenziali consorti per il resto dell’anno. Una soluzione molto pratica, al problema sempre attuale del mimetismo…

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Il grillo che perpetua la sua specie nei deserti lavici creati dalla Dea del monte Kilahuea

Essere o non essere, stati contrapposti nella percezione noetica dell’Universo, come punti estremi dello scorrimento lungo l’asse temporale degli eventi. Un punto di partenza estremamente funzionale, e a dire il vero ineluttabile, da cui venne anticamente elaborata la teoria fondamentale della generazione spontanea. Dove cadono le briciole, nascono formiche. Se l’umidità raggiunge il punto di stoccaggio, la dispensa si popola di curculionidi del grano. Se un essere vivente muore senza essere tolto di mezzo, la sua carne si trasforma in larve di mosca che nei giorni o settimane successive, spiccheranno il volo. “Quello che non vedo con i miei occhi, non è reale.” Affermavano comunemente i primi cercatori della verità in merito alle circostanze ed il comportamento delle creature. “Per questo l’unica spiegazione possibile, è che avvenga senza soluzione di continuità apparente.” Un simile ragionamento strumentale, nella maggior parte delle circostanze, non offre spunti di chiarezza superiori a qualsivoglia tipo di credenza religiosa. Per questo le due linee hanno continuato a combattersi per lunghi e dolorosi secoli, da quando gli umani svilupparono la curiosità necessaria a scrutare con occhi indagatori la biosfera eternamente persistente. Non ebbero particolari dubbi, d’altra parte, gli abitanti dell’Isola Grande di Hawaii, giunti dai loro remoti lidi polinesiani d’origine, nel caratterizzare un particolare insetto dell’arcipelago come figlio fenomenico della divina Pele, Colei che Regola e Determina la Fuoriuscita di Lapilli e Pietra Fusa dalle Cavità del Mondo. Come spiegare altrimenti l’esclusiva presenza di questo particolare ortottero all’interno degli scarni territori ricoperti dalla lava solidificata da non più di qualche mese o anno a questa parte, proprio là, dove nessun’altra creatura sembrava capace di sopravvivere in alcun modo? E dove andavano i piccoli brulicanti, ogni qual volta erba e vegetazione, inevitabilmente, riuscivano di nuovo ad attecchire in quegli torturati frangenti? Normalizzando gradualmente questi luoghi, mentre il quasi leggendario ‘ūhini nēnē pele (“piccolo saltatore ronzante della lava”) ritornava, misteriosamente, nell’apparente dimensione parallela della sua quotidiana esistenza!
Non prima del 1978 dunque, ad opera dei ricercatori del Bishop Museum di Honolulu, Gurney e Rentz, il Caconemobius fori sarebbe stato finalmente fotografato e classificato, assegnandogli una qualifica tassonomica nel gruppo di un recente genere, ospitante primariamente grilli degli ambienti sotterranei sulle coste del Pacifico dall’Asia alle Hawaii. Coi quali condivide il metabolismo poco esigente in termine di nutrimento ed alcune caratteristiche riproduttive, nonché l’assenza quasi totale di ali e di un canto udibile dall’orecchio umano. Ma per il resto, potrebbe costituire uno degli insetti maggiormente caratterizzati dalla propria endemismo estremofilo, raggiungendo quasi le vette di un batterio o microrganismo…

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Filosofia dell’uovo alchemico ricreato dalle sacre pergamene dei Ming

Sull’elegante tavolo di rovere, il cameriere depone il recipiente dal flessuoso gambo, simile al collo di un cigno. Oltre il bordo dell’oggetto emergono, in posizione vicendevolmente equilibrata, tre gibbose forme organizzate sulla base di un gradiente cromatico dotato di un possibile significato nascosto. Una bianca come il latte, una di un leggiadro rosa antico ed infine la terza, di un sorprendente verde oliva che ricorda l’antica giada di un tempio dedicato alla ricerca della Via. Si tratta, ad uno sguardo maggiormente approfondito, di semplici uova. Ma ciascuna caratterizzata da una storia totalmente diversa. Giacché la prima fu deposta, in origine, da un’anatra e successivamente messa in salamoia, onde preservarne per quanto possibile la commestibilità inerente. La seconda viene in modo molto semplice da un pollo, che l’ha posta in terra sul finire di questa mattina. E la terza, la terza è frutto di un preciso a antico rituale che prosegue l’opera di quella stessa anatra, frutto dello studio molto umano di ciò che assolve alla mansione frutto di una rilevante necessità. Senza particolari concessioni all’apparenza, più o meno gradevole, del risultato finale. Benché innanzi alla realtà dell’esperienza ereditariamente acquisita, l’eterno pídàn (皮蛋) o “uovo di cuoio” venga considerato una vera delicatezza per il palato ed ANCHE gli occhi di chi sa riconoscere la suprema qualità degli ingredienti tradizionali. Con un’espressione indecifrabile, il commensale in visita solleva a questo punto le bacchette. Ed impugnandole come una spada leggendaria, le imprime in modo energico sul “guscio” esterno dell’iconico progetto culinario. Un globo che si piega su stesso e si comprime finché si apre nel cratere, rivelando il denso contenuto verde-rame agli altri silenziosi avventori. Un odore acre e pungente, simile a una fonte solforosa, avvolge l’intero vasto ambiente del ristorante…
Considerata la natura straordinariamente eterogenea della cucina cinese, le cui sfaccettature plurime si riflettono tra le umide valli del Sichuan, gli alti picchi dello Shandong, le spaziose pianure del Jiangsu, è senz’altro significativo che persistano ingredienti, dalla storia lunga ed altrettanto stratificata, la cui esistenza è collegata alla stessa identità linguistica e culturale di un’intera nazione. Un pregiato novero all’interno del quale rientra senza dubbio quello che gli occidentali chiamano il century egg o “uovo del secolo”, mentre in Thailandia prende il nome molto più prosaico di khai yiao ma, ovvero “uovo dell’urina di cavallo”. Poiché si è soliti scherzare che per garantirgli il gusto e consistenza straordinariamente particolari, i segreti saggi siano soliti deporlo per cento anni dentro un contenitore pieno del suddetto fluido maleodorante. Ipotesi semi-seria che, per quanto improbabile persino nella vasta e misteriosa terra d’Asia, appare almeno in parte giustificata dal modo in cui tende ad essere istintivamente interpretato questo globo sorprendente, per lo meno dai non iniziati alle sublimi zone periferiche del gusto e del palato…

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