Con l’orchestra punk-informatica nella valigia

Arganalth

Certe percezioni sensoriali vengono reinterpretate sulla base del bisogno e desiderio. Quando Kathleen Hanna, amica di Kurt Kobain, scrisse sulla parete di casa sua l’ormai celebre frase “K. Smells like Teen Spirit” si dice che l’indimenticato musicista, sempre il solito visionario, fosse stato fin troppo pronto a interpretarla come una metafora del nascente spirito anarchico dei primi anni ’90, connotato dall’importanza del punk rock come suo nume tutelare, l’unica espressione artistica capace di portare quella passione sotto gli occhi del rigido conformismo. Ma l’aneddoto ufficiale, ormai largamente noto, racconta tutta un’altra storia: che lo “spirito di gioventù” verso cui faceva riferimento la ragazza, altro non fosse che il nome di un comune deodorante, quello usato dall’allora fidanzata del cantante dei Nirvana. Eppure, non è forse vero che un odore ha la capacità di essere associato al suo contesto, facendo da punto di partenza per un’inscindibile catena di ricordi? La voglia di eccedere, lasciare un segno. Le manifestazioni, le proteste, i raduni dei conto-corrente fuori squola: tutto questo, e molto altro, può effetti rinascere dall’industriale commistione di un’aroma o due, semplice sostanza del supermercato, eppure indissolubilmente legata al ritmo di un’intera exgeneration. Siamo tutti l’amalgama della serie di esperienze vissute. Ma quelle che lasciano maggiormente il segno, talvolta, appartengono alla sfera del subliminale…
È un suono che tormenta cigolando, che distrae con scatti, blocchi e bozzi l’audio di colui che “ascolta” oppure “guarda” lo strumento sensoriale del sistema: il monitor sfolgorante, con il suo seguito di altoparlanti. Mentre la vicenda videoludica, o in alternativa, il gesto del grafico/musicista sulla sua Amiga (primo vero computer multimediale) raggiungeva l’ora culmine della sua progressione, c’era sempre questo ritmo simile a un ronzio, ma più profondo. Come il verso di un’ape di metallo, il grido di duecento pesci ringhianti intrappolati in un barile di silicio; il ronfante espletamento del cinghiale tecnico al risveglio dall’inverno. Quel frastuono che teoricamente doveva essere ignorato, ma come si potrebbe mai soprassedere alla cagnara, il bailamme, la gazzarra di una piccola testina, magnetica o così si spera, che agitata da un minuscolo motore, correva avanti e indietro, avanti e indietro, come l’ultimo dei Pac Man sregolati! Ben conosce un simile problema, anche l’utilizzatore di un qualunque dispositivo informatico raffreddato ad aria, la cui voce si scatena, progressivamente, all’aumentare dell’impegno di giornata. Che poi sarebbe questa, la sublime problematica di base: se una stufa consuma 500 watt, ed un computer/Playstation consuma 500 watt, non è che l’una li usa per fare calore e l’altro invece muove le sinapsi dei suoi calcoli virtuali, solamente; l’energia elettrica, iniettata nei nanometrici circuiti di un moderno processore, non può fare a meno d’incontrare la comune resistenza dell’attrito e sfrigolando, corre avanti. Lasciando scie di fiamme in mezzo ai cieli del colore di un televisore non sintonizzato sul canale (cit.) O per lo meno, così sarebbe, se non fosse per l’utile apporto delle masse d’aria di passaggio, controllate grazie alla potenza di un due-tre ventole rotanti. Una corsa contro il tempo. Questa è soprattutto la voce dei computer, oltre alla musica dei samples digitalizzati. Non l’ottima fedeltà di un disco ottico letto da un laser e a meno che non s’intenda, con quest’ultimo, il fluttuante sobbalzare del braccetto ben oliato. Ma qual’è il sassofono di quella razza plasticosa, quale il pianoforte, il flauto fischiettante? La risposta giace tra la plastica di un recipiente utile ai viaggiatori.

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Il canto armonico dei mongoli dei nostri tempi

Khusugtun Batzorig

Avete mai sentito di un uomo che riuscisse a tenere due note contemporaneamente? Conoscete quel tipo di musica in cui le vocali vengono così potenziate, fino a dimensioni abnormi, da arrivare a pronunciare una media di 0,3 parole al minuto? In certi casi estremi, vedi il pezzo tradizionale Uvgin shuvuu khoyor (Il vecchio e l’uccellino) nel corso di 3 ore vengono pronunciate esattamente 32 brevi strofe, senza neanche l’ombra di un tranquillo ritornello. Non sono queste che due meraviglie fra le innumerevoli, dell’antica tecnica del canto armonico che comunemente definiamo con il termine Khoomei. In realtà null’altro che il nome in lingua di uno degli innumerevoli stili praticati nella regione siberiana di Tuva, nei secoli associato per antonomasia alla versione trasportata insieme ai venti dalle orde dei loro vicini maggiormente bellicosi. E chissà se il grande Chinggis che si è soliti traslitterare con la G e la E, l’uomo più prolifico e spietato della storia, immaginava ciò che avrebbero ascoltato i suoi lontani discendenti, quando momentaneamente stanco di tante conquiste e peregrinazioni, seguito dalla sua ancestrale carovana, decretò che il popolo sostasse per un tempo medio a Ulan Bator, nella valle del fiume Tuul, dove le yurte gradualmente vennero sostituite da alti templi dedicati a Tengri, il dio del cielo e della terra. Perché se pure lui non perse tempo a ripartire, verso i giorni successivi della sua leggenda e fino all’ultimo passato in sella, molti lì rimasero, a fondar le basi di uno stato successivo al nomadismo. Che costituisce, ai giorni nostri, l’eredita dei mongoli, degli archi a cavallo e delle loro narrazioni musicali.
Una scena rock ed heavy metal molto attiva, diverse boy band, come i Camerton, i Motive e i Nomin Talst, gruppi femminili quali le Kiwi, le Emotion, le 3 ohin e le Lipstick (tutto questo cita Wikipedia) e cantanti solisti di fama anche internazionale, vedi Amarkhuu Borkhuu, giovane star del pop mongolo e russo. È presente inoltre ogni possibile variante dell’hip hop. Generi globalizzati, che anche qui trovano una pletora d’esecutori meritevoli, largamente sconosciuti oltre gli erbosi tratti della steppa senza fine; ma l’opera che può colpirci maggiormente, da occidentali quali siamo, resta senz’altro un certo tipo di trasformazione delle tradizioni, quel tipo di pezzo musicato secondo metodi ancestrali ma con canoni e tempistiche decisamente più moderne. Nel Khoomei dei nostri giorni, in effetti, il ritmo aumenta in modo esponenziale. Nulla resta di quei manierismi tribali delle origini, tramite cui il cantante o menestrello di turno, nell’elogio agli antenati o nella lode a un qualche splendido cavallo, trasportava i suoi spettatori in un mondo senza limiti e confini, ove lo sguardo e poi l’orecchio si perdevano a vagare trasognati. Chi ha tempo, non aspetti. Siamo nell’epoca del digitale! Dei panini col salame! Delle informazioni nette e chiare, dei tremendi cellulari! Molto più adatto, al nostro gusto, potrebbe risultare un artista come questo Khusugtun Batzorig, che qui vediamo in bilico sopra l’affascinante formazione rocciosa tra due fiumi e il deserto del Gobi, mentre suona con trasporto un morin khuur, o violino con la testa di cavallo. Impossibile notare come lo strumento, per una qualche strana causa, sia del tutto privo di detta presenza equina intagliata sulla cima dell’impugnatura, elemento che derivava dall’antica verga sciamanica ed aveva sempre costituito il simbolo di questo genere musicale. Forse c’è un qualche tipo di remoto simbolismo… Ma poco importa: perché costui, anche complice il paesaggio, con la sua veste keel di un verde acceso e i capelli raccolti in un lungo codino, ci appare indubbiamente come: l’uomo più mongolico di tutti i tempi. Mentre nel crescendo della sua canzone, che stando al titolo sarebbe guarda caso dedicata al celeberrimo Genghis/Chinggis, si palesa lo stiléma di un tempo remoto, eppur gradevolmente velocizzato per il gusto di chi visita YouTube.

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La musica in bilico sul dorso dell’alligatore

Crocodile Zither

Quel giorno, il vento risuonava delle note di un profondo stato di meditazione. Persino le anatre passavano da un’altra parte. Wei Kao, governatore per mandato imperiale della regione dello Szechuan, sedeva concentrato sulle mura della penultima stazione di scambio, fortezza commerciale sulla lunga Via. Sotto di lui cammelli e splendidi cavalli, carichi di sete variopinte provenienti dalle terre semi-mitiche di Tianzhu “il-centro-del-Sacro” luogo talvolta definito il Bharata o l’Hindustan. Patria di Siddharta, come innumerevoli altri tesori… Dopo oltre 20 anni di missioni diplomatiche per conto della corte Tang, il vecchio politico aveva ormai raggiunto la saggezza: nulla poteva più sorpassare il senso guadagnato in tante spedizioni coraggiose. Aveva portato i suoi forti vessilli in ogni paese di quel vasto mondo, dalle isole del mare orientale fino ai monti sul confine di un diverso continente, oltre il quale, si diceva, sopravvivevano vestigia di legioni vermiglie e bianchi templi millenari, antichi almeno quanto gli ossi di tartaruga usati dagli indovini più stimati di Chang’an, sia reso onore al suo abitante. Ma quest’oggi, il suo sguardo era rivolto verso il nèi lì, lo spirito interiore, la forza necessaria per trovare un senso alle difficoltà del mondo. Profondamente concentrato sulle mura merlate della cittadella, suonava un’ardua melodia del tempo. Il suo unico compagno, il guqin, ovvero “l’antico attrezzo per la musica”, che già Confucio definiva il padre della saggezza cinese, come Egli lo era stato di un intero sistema di valori, bussola dei grandi saggi e letterati. Piatto e lungo, senza traversine, sette corde come le armonie degli archi che nascono nel cielo. Unico, nell’intera sua categoria, per complessità armoniche a disposizione di chi avesse voglia studiarlo. Così lui lo suonava, con gli occhi volti verso Oriente e quella grande Capitale.
Huo Xianming, eunuco dell’enclave fortificato, viaggiava sempre con un certo stile. Il suo carro dalle grande ruote, con fregi a forma di fenici e draghi spiraleggianti, godeva del traino equestre di uno splendido destriero, adatto ad essere cavalcato nelle leggende del periodo delle Sei Dinastie. Alla destra e la sinistra del suo incedere, sedici guardie di palazzo, l’armatura a piastre lamellari con ornamenti in giada, sulle spalle forti spade, balestre meccaniche o i lunghi fusti di alabarde podao, con lame simili a quelle di una spada cerimoniale. Così chiunque avesse sfidato il suo seguito, avrebbe scoperto che persino in quell’epoca di sommosse e continui combattimenti, la forza della corte non incominciava a vacillare.
E sarebbe stato meglio, per quell’ennesimo aspirante signore della guerra, l’ormai riverito e temuto Wei Kao, i cui soldati studiavano le tattiche e i sistemi della grande Asia Centrale per “l’aumento della saldezza spirituale” avesse almeno la decenza di rispondere al richiamo del suo Imperatore.

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Come cantavano i sinceri marinai

Old Chariot

“E spingiamo, spingiamo innanzi il vecchio carro, spingiamo!” Coro: una goccia di rum non ci farebbe affatto male, oh, una goccia del sangue di Nelson*; “Ma spingiamo, gente, ancora e ancora, quel dannato vecchio carro […]” E poi di nuovo, in un crescendo di entusiasmo ed enfasi selvaggia. Del resto amici miei! Una volta passato il Corno, ci potremo infine riposare. Quindi, forza e coraggio: tirate fuori il vostro perno dal cabestano, il grande argano di babordo, e poi piantatelo di nuovo dentro al foro successivo, tutti assieme, al risuonare del tonante richiamo. Finché il ferro là gettato nel profondo della baia non risorga umido, ruvido e lucente. Allora via, verso l’orizzonte. Vele nel vento, oltre gli scogli tempestosi… Non è mai davvero chiaro, quanti dei traguardi storici di una nazione siano il frutto di un’attenta pianificazione e quanti invece, faticosamente attraversati, siano il frutto di una sequenza più prosaica degli eventi. Lo statista che dirige le mansioni di un’intera macchina governativa, il generale di stato maggiore, il presidente del convegno che traduce le giornate in decisioni. E così tutti coloro, trascinati dal bisogno, che in qualche maniera rendono palesi le delibere del giorno. Da cui deriva tutto il resto: l’opificio come l’operosa fattoria, il muoversi delle brigate. E infine poi, la nave dei commerci d’oltreoceaeno, quel micro nel macro, eppure cosmo innegabilmente ripiegato su se stesso quanto l’infinito, soprattutto perché autosufficiente, oggi estremamente, e ancor di più una volta. Estremamente britannico, nella celebrata tradizione. Anglosassone in senso più vasto. Senza radio, cellulare, senza procedure o rigidi regolamenti: quando l’unico modo per mettere il modo il meccanismo era davvero crederci e far parte. Di un qualcosa di volubile, eppure niente affatto raro. Perché funzionale, quindi replicato. E conseguentemente, bello: il canto degli stevedores (gli stivatori). Che fu brevemente citato in ambito letterario per la prima nel 1549, all’interno del componimento propagandistico del The Complaynt of Scotland (Il lamento della Scozia) scritto contro Enrico VIII, che all’epoca si era prefissato di agevolare il matrimonio politico tra Mary Stuart la cattolica e il proprio figlio Edoardo, durante la guerra fallimentare che passò alla storia come il rough wooing (brutale corteggiamento). E  già a quei tempi alcune delle fregate e le altre navi cariche di spade e cavalieri, a quanto ci è dato di comprendere dal testo, disponevano di un certo tipo di canora predisposizione, utile a cadenzare l’intenzione ed il funzionamento dello sforzo collettivo. Ma il vero fiorire di questa pratica, di accompagnar l’impegno di marina con le note musicali, si ebbe a partire solo successivamente, dal tardo diciottesimo secolo, in corrispondenza con il fiorire dei commerci (anche, ahimé, di esseri pensanti) e del colonialismo di stampo ed intento imperialista.
Risalgono a quest’epoca, in effetti, i molti curiosi resoconti degli esperti viaggiatori venuti a contatto con la cultura esportata, assieme alle braccia ed al sudore, dai vasti paesi e popoli del continente antico. Si trattava di una strana abitudine dei popoli africani; tutti quegli schiavi, dalle piantagioni nei neonati Stati Uniti ai rematori delle ultime galee, a coloro che immettevano il carbone in orride fornaci e così via, che non lavoravano in silenzio. Niente affatto. Bensì accompagnavano, ciascun singolo e sudato gesto, con le note di uno spiritual, ovvero un canto a cappella fatto per trarre un sincero beneficio psichico dal battere delle stoviglie, dal colpo ripetuto della zappa e/o del martello, perché nonostante l’avversità crudele del destino qualcuno, lassù, li amava. A margine di tale procedura, viene spesso citata l’opinione al tempo diffusa e convenzionalmente associata ad un resoconto anonimo dell’isola di Martinica (nelle Antille francesi) secondo cui: “I neri non riescono a svolgere un compito senza accompagnarsi con il canto. [E infatti] dispongono di una sterminata serie di componimenti, ciascuno designato per una specifica mansione.” Per la mentalità dei naviganti di allora, naturalmente, era assai difficile mettersi sullo stesso piano dei loro malcapitati servitori. Eppure, ciò che sapeva dimostrarsi utile, tanto spesso ritrovava significative applicazioni.

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