Quanto può essere importante, davvero, una singola mattonella? Quali misteri possono nascondersi sotto un elemento geometrico misurante appena 30 centimetri di lato? La risposta è come sempre che dipende da quello che c’è sotto. E quanto sia profonda, in senso pratico, la contorta tana del metaforico bianconiglio. Che sapeva anche notare, per sua fortuna: poiché non è raro sotto il suolo, in una miriade di possibili località alternative, che sussista uno strato latente d’acqua pre-esistente. La cosiddetta falda acquifera, che può essere un pericolo o una risorsa. Soprattutto il primo caso, per coloro che pretendono di costruirvi sopra una qualche cosa che sia destinato ad attraversare intonso le generazioni a venire. Soprattutto quando la struttura in questione pesa, approssimativamente, attorno alle 73.000 tonnellate di legno e pietra. Abbastanza, nella maggior parte delle circostanze possibili, da essere propensa a sprofondare. Miracolo divino, dunque, o prodezza dell’ingegneria medievale? La cattedrale della “nuova” Salisbury, così chiamata per distinguerla dal sito del vecchio insediamento romano, in seguito abitato dai normanni dopo la venuta di Guglielmo il Conquistatore nell’XI secolo, il cui figlio e successore diede infine l’ordine, nel 1092, che venisse costruita un’imponente chiesa ove condurre riti in base a linee guida non del tutto riconducibili a quelle della distante Roma. Edificio destinato a restare un unicum per appena due secoli, finche il vescovo Herbert Poore, possibilmente a causa delle sue difficoltose relazioni con i militari della vicina fortezza, non chiese il permesso di spostare il principale edificio di culto cittadino. Ipotesi dapprima accettata dal sovrano, quindi rimandata fino al subentro del nuovo ecclesiastico e fratello Richard Poore, di cui si narra che lanciando una freccia in modo casuale verso i pascoli antistanti il centro cittadino, colpì esattamente un cervo di passaggio. E proprio in quel punto, come si trattasse di un prodigio, venne deciso di posizionare la prima pietra. Era il 28 aprile del 1220 e non ci sarebbe voluto molto per rendersi conto di aver commesso un fondamentale errore. Poiché la brava gente di Sarum, nei primi anni dell’insediamento, aveva scelto per ragioni agricole di procedere al drenaggio di un’intera palude. Le cui acque ormai sepolte in invisibili profondità, avevano al momento cominciato a riemergere come diretta conseguenza dello scavo per le fondamenta necessarie. L’imponente nuova cattedrale di Sarum dunque, come la gente aveva cominciato a chiamarla, rischiava d’inabissarsi ancor prima che le sue mura cominciassero ad alzarsi in modo significativo verso il cielo. Se non che gli sconosciuti progettisti, lungi dal perdersi d’animo, deciso piuttosto d’impiegare una soluzione alquanto avveniristica, persino col senno di poi: la deposizione d’ingenti quantità di ghiaia, prima di procedere nell’espletamento delle proprie ambizioni architettoniche. Così che l’intero edificio, mano a mano che il progetto procedeva innanzi, si trovasse da ogni punto di vista pratico a “galleggiare” sopra tale zattera frammentata ed incomprimibile, resa stabile dal proprio peso inusitato. Giacché questo fu probabilmente il primo caso pratico in cui venne scoperto in che misura, realmente, l’acqua stessa potesse contribuire alla stabilità strutturale di un agglomerato di materiali edilizi. A patto, s’intende, che le quantità in gioco fossero costanti nel tempo, ovvero che in funzione dell’aumento o diminuzione dell’umidità rilevante, qualcuno potesse intervenire al fine di mantenere dei valori costanti. Un proposito di per se impraticabile, prima di aver preso le opportune precauzioni procedurali…
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Pallide dimore, ruvide scogliere: così vive l’affiatata isola di Åstol
Con parte del mondo soggetto al rischio costante di sollevamento delle acque, causa l’impellente scioglimento della calotta artica, può sembrare strano che possano esistere luoghi ove in tempi relativamente recenti si è verificato l’esatto contrario. Eppure basta un rapido sguardo alla mappa geografica della costa meridionale svedese, con particolare attenzione alla provincia sull’Atlantico di Bohuslän, per scorgere cosa possa causare localmente la liquefazione e conseguente ridistribuzione delle acque: 200.000 isole, centinaio più, centinaio meno, che sorgono tra le onde, alcune grandi, altre enormi, certe piccolissime o frequentemente disabitate. Tanto che un tour esplorativo, con base operativa dalla città non lontanissima di Goteborg, è considerato una tappa irrinunciabile di ogni moderno esploratore o aspirante marinaio dei nostri giorni, che voglia individuare nel sangue vichingo almeno una piccola parte dei propri antenati pregressi. Ed una delle destinazioni maggiormente memorabili, nel dipanarsi di un simile scenario, è senz’altro l’ex-isola di pescatori ed oggi quasi-resort turistico di Åstol, un affollatissimo zoccolo solido di pietra metamorfica d’anfibolite, ricoperta in parte di sparuta vegetazione erbosa. E per la rimanente percentuale, le mura erette e legnose di un villaggio che parrebbe riconoscere soltanto un tipo di confine, il mare stesso. Così sottilmente bucolica nel proprio scenario d’appartenenza, eppur soggetta ad evidente sovrappopolazione, la terra emersa non più vasta di 13 ettari (130.000 mq) appare come un solido punto d’approdo, con la propria insenatura nella parte di nord-est a forma di V, dove ogni forma di nave o peschereccio poteva essere efficientemente riparato dagli elementi. Probabilmente un fattore di primaria importanza nell’affermarsi, con un culmine situato a circa mezzo secolo dai giorni nostri, dell’industria delle aringhe locali, in questi luoghi catturate, processate e successivamente messe in vendita presso il circuito dei mercati nazionali situati sulla vicina terra ferma. Non che tale prerogativa prettamente utilitaristica traspaia in modo preponderante nell’aspetto attuale del villaggio, oggi abitato da “sole” 200 persone contro le 600 di quegli anni d’oro, in buona parte interessate ad acquistare le distintive dimore come perfette case per le proprie vacanze, benché confinanti l’una all’altra alla maniera tipicamente associata ai tipici sobborghi della periferia statunitense. Quale miglior luogo è possibile immaginare, d’altronde per fuggire dalle proprie preoccupazioni e il ritmo frenetico della vita moderna, che frapporre un invalicabile braccio di mare, anche soltanto temporaneamente, tra se stessi e gli agguerriti nemici della propria stabilità mentale. Magari dotandosi di un piccolo battello personale, simile a un motoscafo o piccola barca da pesca, sempre capace di tornare alla civiltà sulla terraferma nel giro di appena una ventina di minuti qualora se ne presentasse la necessità. Ma chi, davvero, può desiderare di porre fine anticipatamente ad una simile esperienza rasserenante…
L’ascensore genovese che oltrepassa il muro della traslazione binaria
La particolare conformazione fisica di Genova, costruita su una serie di colline che s’intersecano andando a scomparire verso il Mediterraneo, comporta nella maggior parte dei casi soluzioni per la viabilità dall’alto grado di adattamento specifico e perizia logistica ingegnerizzata. Anche nel significativo catalogo di strade inclinate, ponti, filobus, viadotti, tram, funicolari e altri approcci alla mobilità civile, d’altronde, vi è un caso che fuoriesce ad un tal punto dalla norma del senso comune, non soltanto italiano ma persino d’impronta globalizzata universale, da essere paradossalmente diventato più famoso (almeno su Internet) dello svettante complesso a cui dovrebbe agevolare l’ingresso. Un aspetto senza dubbio singolare, quando si considera come il sito in questione sia niente meno che il castello neogotico d’Albertis, fatto costruire nel XIX secolo dal facoltoso esploratore e capitano di marina omonimo, oggi ospitante il più notevole museo ligure dedicato alle culture di tutto il mondo. Così chiamato benché dedicato in modo specifico alle popolazioni indigene di America, Africa e Oceani. I cui appartenenti all’epoca mai, e poi mai, avrebbero potuto immaginare di salire a bordo di una tanto eclettica cabina semovente, capace di spostarsi come quella del finale cinematografico de La fabbrica di cioccolato con Gene Wilder “Sopra, sotto, avanti, dietro e di lato.”
Con finalità molto più attentamente calibrata ed offrendo soluzioni ad un problema di natura estremamente pratica, relativo a semplificare l’accesso dalla Stazione Centrale di Piazza Principe al viale 72 metri più in alto di Via Balbi, che collega piazza della Nunziata alla Basilica del Vastato. Nello stesso modo in cui avveniva già dal remoto 1929, con quello che aveva costituito all’epoca uno dei maggiori impianti costruiti dalle linee del trasporto urbano AMT: la cabina con capienza significativa in grado di elevare fino a una ventina di persone alla volta, a patto che fossero disposte a camminare per circa 300 metri all’interno di un tunnel fino al punto d’ingresso nel cuore della collina, in modo analogo a quanto avveniva per determinate stazioni della metropolitana cittadina. Ma con un significativo punto di forza: un prezzo del biglietto notevolmente minore. Tanto da rendere la tratta un caposaldo beneamato fino alla prima modernizzazione delle cabine nel 1965 e per ulteriori trent’anni destinati a concludersi nel 1995, per una temporanea chiusura ed ulteriori lavori di significativo ammodernamento. Fu a partire da quel momento dunque che, coinvolto l’ingegnere Michele Montanari e l’impresa Maspero Elevatori di Como, si elaborò il progetto di un sistema fondamentalmente migliore, pur non avendo mai trovato applicazione pratica prima di quel momento. Fu l’inizio, in un certo senso, di una leggenda…
L’obliqua scalinata che conduce alla fortezza più elevata dell’intera Corsica meridionale
187 scalini e non sentirli. 187 scalini nella notte non potevano fermarli. Neppure con armatura a piastre, spada, mazza ed alabarda in quel fatidico giorno dell’estate del 1420. Nella versione folkloristica della vicenda, i soldati al servizio del Re Alfonso V d’Aragona detto il Magnanimo sbarcarono con il favore delle tenebre al di sotto dell’alta scogliera di Bonifacio. Armati di vanghe, picconi e scalpelli, questi uomini instancabili iniziarono quindi ad aggredire lo sperone carsico al di sotto della città-fortezza, mentre frammenti di pietra grandinavano, letteralmente, verso le acque silenziose del Mediterraneo. E non è del tutto chiaro a dire il vero, in quale maniera un compito di tale entità potesse raggiungere il completamento, con la tecnologia del XV secolo, nel corso di un singolo interludio tra il tramonto e l’alba. Né perché o come i 250 uomini della milizia locale, incaricati di difendere l’alto strapiombo, potessero aver dormito per l’intero estendersi di quel turno. D’altra parte erano ormai cinque mesi che il suo assedio procedeva e come si dice, a mali estremi, estremi rimedi. Questo dovettero pensare, la mattina successiva, gli assaltatori incaricati di salire per quel tunnel e iniziare la conquista, lungamente sofferta, dell’insediamento appartenente alla Repubblica di Genova fin dai tempi dei remoti conflitti tra gli stati medievali italiani. Ma i risvolti della storia, ancora una volta, presero una piega inaspettata e nonostante l’elaborato stratagemma, all’infuriar della battaglia il fato favorì gli italiani. E il re spagnolo non avrebbe mai potuto prendere possesso di quel feudo che, almeno in linea di principio, il papa stesso aveva ascritto a suo nome. Una leggenda con significativi risvolti storici, giacché il conflitto fu reale così come le circostanze, le difficoltà incontrate dal corpo di spedizione del sovrano e l’esito inconcludente della battaglia. Eppure basta usare la deduzione logica, per comprendere come la celebre Escalier du roi d’Aragon non possa semplicemente essere stata edificata in poche ore, impresa che sarebbe risultata particolarmente difficile persino con mezzi e metodologie dell’epoca contemporanea. Il che ribalta in modo letterale, letteralmente all’opposto, la funzione e natura dell’opera ingegneristica in questione. In una maniera che la mera osservazione, ancora una volta, ci permette di ricostruire viste le particolari caratteristiche della cittadella di Bonifacio, con il proprio angusto spazio portuale in un’insenatura, più simile alla foce di un fiume. Tanto che più volte sia Genovesi che i Pisani, e possibilmente gli Spagnoli in epoca successiva, avevano operato per bloccarla con un gruppo di navi o stratagemmi quali semplici catene, barricate e terrapieni di simile concezione. Allorché sarebbe stato niente meno che scontato, andare in cerca di un sentiero d’accesso alternativo per riuscire a rifornire i difensori dello svettante gruppo di abitazioni…