L’incertezza è uno strumento dall’enorme potenziale per riuscire a stimolare l’immaginazione, evocando immagini o concetti in grado di creare affascinanti scenari. Ed è forse proprio in tale ambito che va cercata la ragione per cui l’età di sei millenni di un particolare macigno in pietra di gneiss e i suoi dintorni nello stato di Paraiba in Brasile tende ad affascinare e coinvolgere la mente di un tale numero di persone. Aspiranti archeologi più o meno sanzionati dall’accademia, tutti giustamente animati dal tentativo di giustificare la presenza, sul suddetto materiale, della più fantastica collezione d’iscrizioni create dall’uomo, raffiguranti una notevole varietà di concetti, immagini e possibili messaggi logografici d’inimmaginabile natura. Come se l’assenza di una specifica epoca di riferimento disponibile per l’imponente assieme di manufatti litici, misurante nel complesso un totale di 250 metri quadri, fosse la giustificazione per situarlo all’apice di una linea temporale con inizio prossimo al suo affioramento geologico, nonostante l’assenza di effettivi ausili utili ad avvalorare una simile tesi. Pensateci, d’altronde: come attribuire una specifica data per quanto concerne un sito dalla natura tutt’altro che organica? E per questo avverso alla collocazione temporale con il carbonio, privo di significativi reperti o rimasugli di vicini villaggi coévi e soprattutto appartenente a un’area geografica in cui testimonianze scritte non sarebbero comparse fino all’arrivo dei coloni europei, soltanto una manciata di secoli innanzi al momento presente. Fatta eccezione, guarda caso, per l’effettiva pietra del fiume Ingá, chiamata nella lingua tradizionale dei Tupi “Itacoatiara” o pietra dipinta, un termine che ritorna anche nel nome di città e villaggi in varie zone dell’intero Brasile. Quasi certa resta d’altra parte l’attribuzione del sito archeologico agli antenati prestorici di questa gente, con possibile collocazione in un contesto affine a quello dei Potiguara (o Pitiguara) un popolo famoso per essere stato tra i primi ad allearsi con i portoghesi durante il periodo coloniale, dando inizio alla tradizione del cunhadismo. Secondo cui ciascun europeo sposato con una donna indigena avesse il diritto al servizio clientelare dei propri “cognati” ed altri parenti acquisiti, spesso destinati a diventare parte della forza lavoro di ciascun insediamento, accrescendo e velocizzando la crescita esponenziale di tali comunità miste. L’esatto contesto, a quanto ci è dato comprendere, in cui venne messa per la prima volta per iscritto l’esistenza dell’antico sito dal possibile significato religioso ormai scomparso nella nebbia dei tempi…
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L’ascesa e inesorabile declino dell’albergo costruito sulla cima dell’Amazzonia
Come le rovine di un’antica civilizzazione, lo scheletro di torri un tempo fiere sorge sulla riva del grande fiume. Persone sulle imbarcazioni che vi passano dinnanzi scrutano curiosi all’indirizzo di quei misteriosi edifici: “Sembra un gazometro” esclama sottovoce qualcuno. Ma non c’è tempo di fermarsi a meditare. Già dozzine di caimani, recentemente ritornati nella regione dopo l’eminente riconquista da parte della natura, si affollano presso la scia dei borbottanti motori. E l’acqua increspata lascia intravedere le ombre dei piranhas, pericolosamente interessati alla presenza umana e il “cibo” che talvolta sembra accompagnarla, nel caso tutt’altro che inaudito di eventuali incidenti di navigazione. Una scimmia sulla cima del suo albero, con un’arancione bacca di Acai tra le mani, sembra stare per lanciare un grido. Poi ci ripensa, e voltando le spalle al gruppo, sparisce tra camminamenti lignei e fronde elevate.
L’hotel Ariau, all’apice costituito da sette edifici popolati di oltre 300 ospiti e quasi altrettanti membri del personale reclutati localmente, ha per oltre un ventennio costituito il fiore all’occhiello del nascente ecoturismo brasiliano, inteso come moda sul finire del millennio di avventurarsi presso luoghi remoti o un tempo irraggiungibili, senza per questo rinunciare alle comodità di un mondo interconnesso nell’era contemporanea. Situato a poco meno di 60 Km dalla città di Manau, lungo il corso vorticoso del Rio Negro, il suo aspetto ponderoso nascondeva tuttavia una fragilità inerente, quella di una struttura dai costi operativi, di manutenzione e contributi nei confronti dello stato assolutamente al di sopra di ogni altra istituzione d’accoglienza turistica convenzionale. Tanto che un’eventuale estemporanea fluttuazione o cambiamento del paradigma internazionale avrebbe potuto, nel giro di pochi mesi o anni, portare al collasso economico dell’azienda che ne garantiva l’esistenza continuativa nel tempo. Ariau non sarebbe probabilmente sopravvissuto, ad esempio, agli anni del Covid. Ed Ariau non sopravvisse, già oltre due decadi prima di tale data, all’inimmaginabile crollo delle Torri Gemelle. Così che entro il 2016, con il grosso dei pagamenti effettuato ormai non più in dollari ma nella più debole valuta locale dei reais, l’imprenditore brasiliano Francisco Ritta Bernardino, figura chiave dietro l’invenzione ed apertura di un simile punto di riferimento utile all’economia dell’intera regione, non poté far altro che chiudere i battenti. Non senza un profondo senso di rammarico, i motori delle imbarcazioni, delle moto d’acqua e degli elicotteri, fatti atterrare sull’apposita piattaforma integrata nel complesso, tacquero. Dando inizio, in un certo senso, al più interessante degli esperimenti: quanto ci avrebbe messo la giungla Amazzonica, polmone verde della Terra, a riprendere il controllo di quanto per secoli e millenni gli era appartenuto senza che a nessuno potesse venire in mente di sfidarla?
La mangiabile sorpresa tra le spine del “cappello” che accomuna la Turchia e il Brasile
Il fatto che le ogni rosa sia dotata di una significativa quantità di spine non altro che la prova di come tali aculei siano quasi sempre posti attorno a un qualche cosa di desiderabile, o attraente. Dopo tutto la difesa principale delle piante, utilizzata da una varietà notevole di erbe, cespugli o arbusti di molteplici recessi e territori è necessariamente la risposta alla pressione evolutiva imposta da fameliche creature che tendevano a mangiarne la fibrosa e pura essenza, suggerne la linfa più segreta e consumarne le opportunità di vivere e riuscire a riprodursi su questa Terra. una finalità naturalmente perseguita dall’eterno ciclo che produce in un preciso ordine il miracolo floreale, subito seguito dal suo frutto e infine, il seme. Tre sfaccettature di un solo processo, tra cui la seconda è di gran lunga quella più desiderabile per colui che giunge a constatarne la presenza dal gremito regno animale, sia questi erbivoro, onnivoro o semplicemente incline al vandalismo. Non è infatti sempre desiderabile, per tutta una serie di ragioni, che la pianta offra il proprio dono commestibile su di un proverbiale piatto d’argento, soprattutto quando lo strato carnoso esterno che ricopre il suo gambo (ah, cactus!) tende a danneggiarsi con la rimozione troppo anticipata di quel pomo, generando possibili fori d’ingresso per infezioni parassitari del contesto ambientale circostante. Problema, originariamente notato dallo stesso Carlo Linneo autore della prima classificazione, e che doveva nei fatti risultare assai gravoso negli ambienti sudamericani e caraibici, da cui egli iniziò a classificare l’intero genere da circa 40 specie dei Melocactus o cactus “melone”, o testa del Papa, o cappello del Turco. L’ultimo notevole appellativo creato per costituire una diretta risultanza di quella metafora, istintivamente facile da contestualizzare, derivante dall’aspetto della sommità di queste piante: un letterale groviglio di lanugine puntuta, di colore rosso, arancione, giallastro, che ricorda per aspetto e proporzioni il caratteristico copricapo a fez del tardo Impero Ottomano. Pur avendo una funzione che potremmo definire diametralmente all’opposto…
Cinghiali non eguaglierebbero l’impatto paesaggistico dei pècari sui golf club dell’Arizona
Come l’astronomico frangente di un eclissi planetaria, in cui un corpo celeste attraversa la traiettoria del Sole portando a variazioni inaspettate del tranquillizzante ciclo diurno-notturno, l’invasione di campo da parte di qualcuno può essere sostanzialmente una questione di punti di vista. Chi ha mai detto, in tale ambito, che la coltivazione di significative quantità d’erba all’interno di un clima arido, con conseguente dispendio di quantità d’acqua sproporzionate all’opportunità di far rotolare meglio un certo tipo di palline, dovesse essere un sacrosanto diritto dei cittadini di un particolare stato americano? Ogni cosa, o umano intento di plasmare il mondo a propria immagine, è la derivazione inevitabile del suo contesto. E non è inaudito che fattori trasversali possano riuscire a rovinare la giornata di coloro che si trovano a gestirne l’amministrazione nel quotidiano. Risveglio del presidente del country club Seven Canyons, non lontano da Flagstaff, a nord di Phoenix: una tranquillissima giornata di bel tempo ed ottime speranze per il futuro. Finché non giunge voce, dai primi addetti alla manutenzione, che l’impensabile è riuscito a verificarsi. Dozzine d’entità luciferine, riconoscibili dall’impronta dello zoccolo fesso degli inferi sepolti, hanno oltrepassato le staccionate. E grufolando come belve dell’Apocalisse, hanno rimestato, sollevato, ribaltato le preziose zolle che costituiscono il sangue pulsante dei links. Mentre il timido suggerimento, praticamente automatico da queste parti, di puntare le armi dei fucili all’indirizzo degli intrusi, già si scontra con la problematica realtà dei fatti normativi e vigenti. Poiché i presunti cinghiali o razorbacks (maiali ferali) erano, in realtà, qualcosa di ben diverso. Ovvero gli appartenenti a quella serie di specie a rischio protette da estensive norme contro chiunque abbia l’intento di restringerne il passaggio oppure, Dio non voglia, farne fuori gli esemplari problematici dal proprio soggettivo punto di vista. Non si spara contro il pécari altrimenti detto skunk-pig. Una creatura proveniente dal meridione oltre il muro che sa bene come mettersi a marcare il territorio, conoscendo in modo approfondito l’intero codice delle leggi della foresta. Tranne quella, molto più recente, della proprietà privata ed il rispetto per le attività di giardinaggio e pratica sportiva di eleganti passatempi all’aria aperta. Una mancanza senz’altro comune ad altri tipi di creature dalle dimensioni medio-grandi, che grugniscono alla luna la canzone inconfondibile del proprio popolo necessariamente invadente. Per tutti coloro che credevano, proprio malgrado, di aver posseduto il sacrosanto mandato dell’irrigazione divina. Per poi affrettarsi a rivendicare, come spesso capita, l’accesso e proprietà esclusiva di quanto avevano ri-tinteggiato di verde, dietro il pagamento di tasse opportunamente commisurate al Guadagno…