Il lago che ogni anno viene risucchiato dal buco

Oregon, lo stato nord-occidentale che confina con quello di Washington, quadrilatero quasi perfetto in bilico sul ciglio dell’Oceano Pacifico. Mentre la California, poco più sotto, segna l’inizio della siccità e dei deserti. L’Oregon: un luogo selvaggio ed incontaminato, dove gli orsi e i cervi s’incontrano presso i sentieri della foresta, mentre il serpente a sonagli, nella sua tana in mezzo alle radici degli alberi, produce il suono minaccioso che tutti conoscono fin troppo bene. Ma al di là di queste poche certezze, l’Oregon è anche un territorio di misteri irrisolti: c’è un luogo, presso Gold Hill, un tempo proibito nelle tradizioni dei nativi, presso cui gli oggetti di legno assumono una carica magnetica, le palle rotolano in salita e il rapporto d’altezza delle persone sembra improvvisamente e temporaneamente mutare. Le apparecchiature elettroniche, qui, cessano di funzionare, e gli eventuali cavalli fuggono via nitrendo il loro comprensibile terrore. Ci sono gli UFO, in Oregon (maggior numero di avvistamenti in tutti e 50 gli stati) e c’è il sasquatch o Piedone che dir si voglia, l’uomo-scimmia noto per l’abitudine di lanciare pesanti pigne contro gli sfortunati escursionisti di passaggio. Ma persino tutto questo impallidisce, allo stato dei fatti, rispetto alla regione oregoniana del Cascade Range. Dove un tempo i possenti vulcani eruttarono tutta la loro furia, scaraventando roccia fusa e cenere per molte centinaia di chilometri, creando la forma diseguale di un paesaggio ricco di massicci montuosi ed ampie superfici collinari. Secondo le leggende della tribù indigena dei Klamath, fu proprio in questo luogo che il malvagio re del sottosuolo Llao, emergendo da un cratere, avrebbe sfidato a duello lo spirito dei cieli Skell, letterale personificazione della benevolenza del mondo naturale. Per giorni, mesi ed anni, un denso fumo nero oscuro i cieli, mentre lapilli fiammeggianti ricadevano sopra le case degli inermi umani. Al termine del confronto, il protettore di tutti noi aveva vinto, ma ad un prezzo significativo: l’intero monte Mazama che costituiva la sua dimora era stato fatto crollare, diventando una prigione in grado d’intrappolare il suo nemico per l’eternità. E in questo sacro luogo, ormai, non rimaneva altro che un cratere, destinato ad essere presto riempito dall’acqua piovana, per poi assumere il nome moderno di Crater Lake. Al centro dello specchio d’acqua c’è un rilievo che affiora, chiamato l’isola dello Stregone. Questo luogo, secondo la leggenda, sarebbe la testa di Llao nonché il limbo terreno in cui vengono esiliate le anime dei dannati, trasformate per punizione in salamandre alate. Proprio per questa ragione, il nome alternativo della polla d’acqua è Lost Lake: il Lago Perduto.
Ma ora ecco a voi l’aspetto maggiormente interessante: questo non è l’unico lago “perduto” dell’Oregon, dove anzi ce ne sono almeno 19. Dev’essere esistito un periodo, durante l’iniziale esplorazione dello stato, in cui i coraggiosi pionieri venivano continuamente a contatto con questi luoghi remoti, ed ogni volta gli sembrava di aver raggiunto il limite del mondo. Il nome da loro selezionato, poi, restava. Almeno in un caso, tuttavia, un simile appellativo carico di sottintesi merita di essere accettato in senso totalmente letterale: perché QUESTO Lost Lake, sito in prossimità della città di Sisters a ridosso dello Ski Resort di Hoodoo nella parte centrale dello stato, in effetti scompare letteralmente ogni estate all’interno di un buco, per poi tornare a palesarsi verso l’inizio della primavera. Per molti anni prima delle recenti perizie dei geologi, la ragione di un tale fenomeno è rimasta un mistero. Finché a qualcuno, applicando le leggi della logica e dell’approfondimento paesaggistico, non pensò di mettere il tutto in relazione con la situazione che vigeva un po’ più a valle…

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La spaccatura che completerà il Mar Rosso

Siamo abituati ad accettare i danni alle strutture artificiali come una conseguenza inevitabile dei terremoti, che ci ricordano la nostra posizione insignificante nell’ordine geologico delle cose. Cos’è in fondo l’uomo, dinnanzi alla preponderante essenza della natura? Nient’altro che un buco nel muro del mondo, una crepa nel soffitto del tempo, una spaccatura nel marciapiede delle circostanze. Nel contempo, tuttavia, sarebbe difficile mettere allo stesso piano questo pianeta, la cosa inanimata più grande ed importante delle nostre intere intere vite di esseri dotati di una briciola di raziocinio. “Non si spostano nemmeno le montagne” Si usa dire, oppure: “Loda il mare e tieniti alla terra” quasi a voler confermare che non c’è nulla di più certo, immutabile e solido delle linee che percorrono le nostre mappe, valide oggi come al tempo di Gerardo Mercatore, se soltanto quest’ultimo avesse avuto lo strumento della localizzazione GPS… Eppure, basta guardarle queste raffigurazioni geografiche, per iniziare a sospettare che non sia per niente così così. Le Americhe sono due ammassi frastagliati, collegati da un’istmo colossale stretto e contorto; il Giappone è un pezzo d’Asia messo da parte, separato con il colpo di una spada colossale; l’India, una pinna di squalo all’incontrario, sospesa in un oceano costellato di vulcani. In ciascuna di queste terre, e molte altre assieme ad esse, è possibile notare l’influsso dei processi geologici stessi, la deriva dei continenti che ebbe origine con la creazione del nostro sferoide rotante, che non ebbe mai lo stesso aspetto al termine di un secolo o un eone.
Ebbene continuando a muoverci verso occidente, in questo viaggio con lo sguardo sopra un grosso mappamondo, incontriamo necessariamente questo luogo. Non c’è n’è alcun altro simile, per quanto ne sappiamo, così profondo rispetto al livello del mare (-155 metri) e delimitato da ripide pareti che corrispondono nei fatti allo spessore della crosta terrestre africana. Al confine tra l’Eritrea e lo stato del Gibuti, dove il Corno d’Africa si estende per formare il golfo di Aden, c’è un territorio inospitale in cui s’incontrano tre placche: la Somala, l’Indiana e l’Araba. Così nel cuore di un territorio arido, il deserto di Danakil, si verifica la condizione atipica di una giunzione continentale sulla terra ferma, analoga a quella delle dorsali che corrispondono all’Islanda o alle Hawaii, ma ancor più eccezionale se vogliamo, in quanto tripartita. Ed è proprio qui, tra le sabbie quasi eterne, che sorge la catena di monti e fiamme occupante un’area di 2350 Km quadrati di nome Erta Ale, a cui appartiene il vulcano attivo di Dabbahu. Che il 26 settembre del 2005 eruttò sonoramente in concomitanza con un grave terremoto. Al termine del quale, nel suolo dell’avvallamento antistante comparve istantaneamente una nuova crepa estesa per 60 Km e larga 8 metri. Profonda, a seconda del punto preso in esame, fino all’equivalente di un palazzo di 25 piani. Un suono sepolcrale riecheggiò per la radura. Quindi, migliaia di tonnellate di suolo magmatico furono scaraventate verso il cielo, per poi ricadere seppellendo pecore e cammelli, gli armenti delle coraggiose popolazioni che abitano in questi luoghi… Non molto accoglienti. Dove prima c’era un tutt’uno, adesso sussistevano due lembi, con al centro un ripido fossato. L’Africa aveva iniziato a spaccarsi in due.
La fessura di Dabbhau, come è stata denominata dagli studiosi, non è in realtà che l’ultima dimostrazione superficiale di un processo molto più antico, che vede una tendenza delle tre placche succitate a separarsi progressivamente, di uno spazio approssimativo di un centimetro l’anno. Verrà un giorno, quindi, stimato sui 10 milioni d’anni a partire da oggi, in cui le terre attraverso le quali fuggì Mosè con il suo popolo saranno ricoperte dalle stesse acque che Egli scatenò contro l’esercito degli Egizi, e i due mondi dell’Africa e l’Arabia torneranno nuovamente ben distinti e separati, come vascelli in viaggio verso una remota isola del dopodomani. Niente di troppo imminente, dunque. Questo è scritto nelle Tavole e nel Libro. Ma del resto questo non significa che, osservando un simile fenomeno in corso di realizzazione, non si possa assistere ad eventi totalmente eccezionali…

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Il pianeta che morì per formare la Terra

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Mentre la tiepida temperatura autunnale abbandona l’anima delle nostre case, spinta via dal freddo candido che è sempre stato prossimo al Natale, sarebbe anche lecito porsi un interrogativo fondamentale di base: perché mai succede questo? O meglio, qual’è la sua genesi remota? Noi ben conosciamo l’alternanza di estate/inverno, con i due stati intermedi (benché le mezze stagioni, si sa…) così come il fatto che l’asse terrestre, prima ancora che esistessero gli oceani, è inclinato di 23 gradi, ponendo alternativamente l’uno oppure l’altro emisfero in posizione di vicinanza al Sole, nel corso della grande corsa sul circuito ellittico che dura pressoché un anno. Eppure, se è vero che questo pianeta si è formato per concrezione delle polveri di un’ancestrale nebulosa, saldamente unitesi in funzione delle forze gravitazionali, ciò dev’essere per forza avvenuto sul piano di un disco roteante, com’è provato dalle attuali orbite di questo e gli altri corpi planetari. La palla gira, dunque, e nel contempo rotola in maniera regolare. Questo era primario, del resto, per la formazione della vita. Ma tutto punterebbe a un movimento di rotazione coplanare con la rivoluzione attorno al nostra stella… Resta il mistero, a questo punto, dell’origine di questa dissonanza. Perché mai la Terra è sbilenca? Esistono diverse teorie. Ma c’è n’è una particolarmente affascinante, perché funzionale anche a chiarire l’origine di un altro mistero, l’esistenza del nostro satellite comparabilmente sovradimensionato, la Luna. Si riassume così: circa 4,5 miliardi di anni fa, poco prima dell’inizio dell’intenso bombardamento tardivo durante il quale il nostro pianeta sarebbe stato colpito da una quantità spropositata di asteroidi, esso fu raggiunto dal più grande bolide della sua storia: Theia, un corpo della dimensione approssimativa di Marte. In un vortice di fiamme e magma, l’intera superficie della proto-Terra venne sconquassata nella sua stessa essenza. Tutta l’acqua, accumulata attraverso gli eoni grazie all’impatto di remote comete, si prosciugò istantaneamente. Il nucleo di ferro pesante nascosto nell’invasore spaziale penetrò come un proiettile all’interno di crosta e mantello, sprofondando fino al centro del pianeta dove si fuse con il suo gemello pre-esistente. I frammenti di roccia e altri materiali più leggeri, invece, si suddivisero equamente tra il suolo, dove andarono a formare il tessuto stesso dei futuri continenti, e di rimbalzo l’oscurità cosmica, dove sarebbero di nuovo stati catturati dalla nostra gravità. Su stima che la massa complessiva della Terra, quel giorno, aumentò in percentuale considerevole. Lo sciame esterno quindi, nuovamente congregato per la forza d’attrazione naturale in un anello, in un tempo medio avrebbe assunto quell’aspetto familiare dell’astro di Selene, la dea che illumina le nostre notti fin dall’alba dei tempi. Lasciando sotto il suo distaccato sguardo, la più assoluta rovina risultante da una catastrofe del tutto senza precedenti.
Stella, pianeta ed asteroide: vediamo per quanto possibile cos’era Theia, da dove veniva e soprattutto perché, nonostante l’ingloriosa fine, la scienza sia disposta a considerarla dal punto di vista della nomenclatura alla pari della nostra culla verde-azzurra. Il punto principale da considerare a tal proposito è una distinzione in tre parti: ciò che insiste, ciò che esiste e ciò che sussiste. Il primo insieme, associabile al gruppo delle nostre cosiddette stelle fisse (che poi fisse, in effetti, non sono) è occupato da corpi celesti talmente massivi che il peso specifico dei loro elementi genera una costante reazione atomica dall’energia spropositata. Essi bruciano, fino al momento in cui molti miliardi d’anno dopo, esaurito il carburante, iniziano a  sfogare l’energia residua aumentando le proprie dimensioni, per poi esplodere come delle mostruose bombe. Supernova, si chiama questo effetto, e sprigiona nel cosmo dei fasci di raggi gamma colossali, il cui passaggio può essere del tutto sufficiente a eliminare, in un istante, l’intera vita di un sistema stellare. Il pianeta, dal canto suo, è quel corpo sufficientemente piccolo da non dover subire un simile destino, ma anche abbastanza grande da acquisire una sua orbita stabile e sopratutto mantenerla, potenzialmente nella “zona di Riccioli d’Oro” (non troppo calda, non troppo fredda…) all’interno della quale può anche nascere, se il caso vuole, una pluri-millenaria civiltà. Ancora diverso, invece, è il destino dell’asteroide. Che si forma nello stesso modo, ma si trova in una posizione in cui la sua massa generalmente inferiore risulta influenzata dalle più grandi forze in gioco. Dando l’origine ad eventi come quello descritto nella cosiddetta teoria del Grande Impatto…

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Il terremoto che ha ingrandito la Nuova Zelanda

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Basta osservare un atlante storico per rendersi conto di come i paesi, spesso, cambino i reciproci confini. Per un vasto ventaglio di ragioni: politiche, diplomatiche, per uno scambio di favori o addirittura in funzione di operazioni militari, le loro forme sugli atlanti sono fluide e mutevoli come quella dell’acqua spostata tra diversi recipienti. Ma c’è un tipo di nazione che, per quanto possono decidere gli umani, resta immutabile attraverso le generazioni. Stiamo parlando delle isole, circondate dalla barriera di tipo paesaggistico più invalicabile per eccellenza, ovvero il mare. Eppure nonostante le premesse, tutto ciò che può succedere in teoria, nel corso della storia si è verificato. Antica oppure, come in questo caso, assolutamente contemporanea ed attuale: difficilmente, ne avrete sentito parlare molto a lungo in Tv. I recenti eventi politici ed economici, per non parlare delle catastrofi del tipo geologico che hanno colpito i nostri stessi connazionali italiani, hanno sottratto notevole spazio nei telegiornali al drammatico terremoto di magnitudine 7,8 che ha colpito lo scorso 14 novembre l’Isola del Sud della Nuova Zelanda, causando danni per miliardi di dollari e, nonostante le terribili potenzialità distruttive, soltanto due malcapitate vittime, di cui una per attacco di cuore. Un evento distruttivo, del tipo che siamo costretti a tollerare come clausola dell’imperfetta condizione umana, ma proprio per questo, latore della stessa energia geologica della creazione. Sarebbe difficile crederlo, se non ci fossero le testimonianze: due minuti dopo la mezzanotte, gli abitanti dei territori costieri presso la cittadina di Kaikoura e da lì verso nord, fino all’estremità settentrionale di Capo Campbell, hanno iniziato a sperimentare molto da vicino gli effetti del’evento tellurico, con epicentro 15 Km sotto Culverden, nell’entroterra poco più a sud. Ma in aggiunta a questo universale terrore, ne hanno dovuto affrontare un altro, specifico delle caratteristiche del loro territorio: un boato impressionante, proveniente dalla direzione dell’oceano, che sembrava riecheggiare della furia dei Titani risvegliati. Perché in un certo senso, era proprio questo ciò che stava succedendo: nel giro di esattamente tre minuti, alla velocità di 3 Km al secondo, una spaccatura nella stessa crosta del pianeta Terra si è ampliata, lungo circa 85 Km di costa. Un lato della stessa, quindi, ha cominciato a salire.
È uno scenario assolutamente surreale, quello che ci viene presentato nel presente video del GNS Science, l’istituto geologico nazionale, in cui l’addetto visita la scena del dopo-terremoto, mostrandosi dinnanzi ad parete rocciosa che supera in diversi punti l’altezza della sua testa. Non prima di averci fatto capire, esattamente, dove si trova: ovvero in riva al mare, e rivolto verso di esso. In un luogo dove, fino a pochi giorni fa, si divertivano i bagnanti e lanciavano i surfisti. Soltanto che le onde, a partire dal giorno fatidico, erano state ricacciate indietro dalla natura stessa, di 15-20 metri. Per tutto l’intero angolo nord-occidentale dell’Isola del Sud. Chiaramente, non si tratta di un fenomeno frequente. Anche noi italiani, che ben conosciamo la furia di questo tipo di tremori, siamo maggiormente propensi a considerare le spaccature che essi possono arrecare agli edifici artificiali costruiti dall’uomo, piuttosto che al paesaggio stesso che generalmente, a meno di sconvolgimenti ancor più significativi di quello di Kaikoura, resta pressoché invariato. Tutto il contrario di quello che è capitato nel caso in oggetto, e questo per le particolari condizioni geologiche della regione. Pensate che gli scienziati della Geonet, l’ente internazionale che si occupa di studiare i terremoti, hanno definito questo evento come uno dei più complessi mai registrati sulla terra ferma. In primo luogo, perché presentava in realtà di due epicentri assolutamente distinti, incluso quello originariamente tralasciato a Waipapa Bay. Ma soprattutto per il posizionamento dell’intera Nuova Zelanda, che si trova all’estremità meridionale del temuto Anello di Fuoco del Pacifico, la concatenazione di vulcani che racchiude l’intero oceano più vasto della Terra. Ragione per cui, come avviene per le pecore, c’è un’altra cosa che qui non è mai mancata: le faglie.

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