Le storie dei saggi parlano del distruttore senza nome, il cui arrivo simboleggia l’ora della fine tristemente reiterata nel procedere delle Ere. Quando un intero ciclo di rivoluzione del pianeta è prossimo al compimento, e la tenebra fa scomparire l’ombra del monumentale grattacielo, i suoi abitanti si rannicchiano all’interno degli spazi cavi, fermando le sottili zampe e antenne, quasi fossero in attesa di… Qualcosa. Decine di migliaia, centinaia, milioni d’individui spaventati, sono stati già strappati dall’interno delle loro case, distrutte con le unghie e con i denti dal gigante con il muso a punta, i cui denti non smettono mai di chiudersi, ancora e ancora, stritolando i loro corpi condannati, ricoperti di un’inutile corazza di chitina. Osservati, fratelli artropodi, la gran divoratrice. Volgete le vostre mandibole al cielo, prima del sopraggiungere dell’ora della fine, sua sorella, suo fratello e suo cugino. Concentrandovi sull’unica possibile maniera per salvarvi, ovvero il voto, mantenuto ad ogni costo, del silenzio.
Per la selezione antologica di esempi usati a modello nella maggior parte dei proverbi, da sempre significativo riesce ad essere il ruolo degli appartenenti alla categoria dei cani: fedeli al padrone se domestici, altrimenti a loro stessi e all’istituzione sociale del branco, attenti ad ogni minimo dettaglio perché preoccupati, in ogni attimo, di garantirsi la sopravvivenza. E fra tutti certamente, non sembra far eccezione la volpe, sinonimo in tanti contesti nazionali di “furbizia” applicata ai bisogni del vivere quotidiano, intesi come ricerca del cibo e un metodo efficace al fine di sfuggire ai cacciatori. Che siano questi ultimi di tipo umano, oppur degli animali, l’approccio risulta essere del resto sempre quello. Fare affidamento, per quanto possibile, sulla furtività e l’individuazione di efficaci nascondigli, qualche volta già presenti, in altri casi scavati dall’animale stesso, nel terreno friabile della radura. Immaginate, dunque, l’alternativa collocata in Africa centro-meridionali di una creatura che in aggiunta a questo, possiede un senso che è a tal punto sviluppato da modificare il suo integrale aspetto, assolvendo alla funzione addizionale del regolamento del calore, come avviene per la piccola cugina dei deserti del nord, la scattante e rumorosa Fennec. Sto parlando, in questo caso, della cosiddetta volpe dalle orecchie di pipistrello, anche chiamata nella lingua dei latini Otocyon megalotis, col significato letterale di “cane-orecchie dalle grandi orecchie” (sic.). Il che determina e rafforza, in un sol colpo, l’effettivo tratto distintivo di questa creatura, per il resto ragionevolmente conforme all’aspetto di una Vulpes europea, con colorazione criptica focata tendente al grigio-marrone, zampe nere ed un’accenno di maschera sul muso, affine a quella del suo altro distante parente nordamericano, il procione. Con cui condivide l’appartenenza a un genere ragionevolmente esclusivo, in questo caso addirittura contenente l’unica specie sopra nominata, i cui ritrovamenti fossili hanno lasciato intendere l’esistenza fin dall’epoca del Pleistocene, risalente a circa 800.000 anni fa. Chi volesse trarre da questo la conclusione che siamo di fronte a un essere in qualche maniera primitivo & vulnerabile, tuttavia, sarebbe certo incline a ritrovarsi in fallo, data l’eccezionale raggiungimento della nicchia ecologica cui questo carnivoro occasionale appartiene, il cui cibo principale resta sempre & soltanto quello: l’isoptero terrestre, insetto affine alle formiche per struttura sociale, ma inserito nella categoria biologica dei blattoidei. Termiti pronte per il pasto facilmente guadagnato, da mattina a sera…
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Spara-Sangue la lucertola, sovrana con le spine del deserto di Sonora
A mali estremi, estremi rimedi e come potrebbe dire la nostra amica Phrynosoma solare, val più la vita che una goccia di sangue, abilmente lanciata contro il muso del proprio assassino. Muscolosa e corazzata, vero e proprio carro armato delle sabbie, tuttavia abbastanza piccola (10 cm ca.) da essere potenzialmente il pasto della volpe, del coyote, del road runner o del topo-canguro. Un problema esacerbato, nel suo caso, dalla flemma con cui è solita fuggire dal pericolo, decisamente poco comparabile con quella del tipico rettile quadrupede dotato di una coda, inclusi quelli della sua stessa famiglia diffusa nei deserti nordamericani, Phrynosomatidae. Poiché soltanto lei, tra tutte, risulta essere di sangue reale, come reso chiaro dalle spine sulla testa nella configurazione di un diadema e nulla può bastare per far perdere la calma, a chi comanda sulle circostanze imprevedibili del quotidiano con profonda nobiltà dei gesti e sicurezza nelle sue capacità inerenti o evolutive. Non a caso, tra tutte le sue specie consorelle, proprio questa è quella più strettamente associata a una specifica reazione contro il pericolo, consistente nell’usare il fluido della proprie stesse vene come arma, in una maniera letteralmente priva di paragoni nell’intero regno della natura.
Reazione auto-emorragica preventiva, prende il nome in gergo questo speciale approccio difensivo, che consiste nella rottura in condizioni di stress di alcuni capillari posizionati nelle speciali cavità note come seni oculari, operazione costosa in termini di risorse ma che non sembra arrecare alcun tipo di danno permanente all’organismo della piccola creatura. Costituendo, piuttosto, il sentiero della sua salvezza, dato il sapore a quanto pare orribile di quello spruzzo, così come dev’esserlo quello di lei stessa, almeno per quanto diventa possibile capire dal predatore soggetto a una simile imprevista contingenza. Non che la lucertola regale cornuta, come la chiamano da queste parti, abbia per il resto un aspetto altamente appetibile, data la quantità impressionate di spine e la capacità di gonfiarsi letteralmente, come un rospo, nel momento in cui qualcuno avesse l’ambizione di serrare le proprie fauci sul suo corpo. Entrambi approcci operativi, ad ogni modo, subordinati al semplice intento ben riuscito di mimetizzarsi, grazie alla livrea iperrealistica e l’istinto a sotterrar se stessa nei lunghi periodi di riposo. La P. solare, tuttavia, resta pur sempre una predatrice diurna e come tale, vulnerabile all’assalto di molti nemici, contro le cui aggressioni appare, quanto mai, ben preparata. Al punto che il suo stesso approccio alla nutrizione passa per il tramite, quotidiano, della battaglia: basti osservarla nel momento in cui, senza nessun tipo di timore, si avvicina al foro d’uscita della tana delle formiche nere raccoglitrici (gen. Pogonomyrmex) chiudendo le sue palpebre come l’auto di Batman nel film del 1989, diventando in questo modo impervia a qualsivoglia tipo di attacco, mentre l’opera precisa della sua lingua sceglie, e fagocita l’una dopo l’altra, le imperturbabili schiere dei suoi aggressori. Fino al numero assolutamente impressionante di 2.500 in un solo giorno!
Le profonde radici di Macquarie, isola che perfora la crosta terrestre
Esattamente in corrispondenza dei Cinquanta Ruggenti, latitudine superiore persino a quella di Capo Horn per forza, imprevedibilità e pericolosità dei venti, c’è un punto in cui le correnti deviano ed il flusso d’aria subisce un’improvvisa suddivisione. Tutto questo in forza di una terra emersa lunga 35 Km, la cui collocazione corrisponde grossomodo al punto intermedio tra i due continenti d’Australia e dell’Antartide, ove le foche prendono il sole, i pinguini si moltiplicano e gli uccelli migratori si fermano per riposare. Il suo nome: Macquarie, da quello del governatore del Nuovo Galles del Sud al momento della sua scoperta, nel 1810. Eppure, per una volta, non è la popolazione di questi ultimi a ricevere le principali attenzioni del mondo scientifico, benché in questi luoghi sia presente la minaccia di popolazioni di ratti e conigli portati qui due secoli fa dai cacciatori di balene. Bensì la natura geologicamente unica di questo luogo, la cui stessa formazione, per un tempo quasi equivalente, ha saputo sfidare le principali ipotesi dagli scienziati del settore. Collocata in corrispondenza della dorsale oceanica all’incontro tra le placche Indo-australiana e quella del Pacifico, l’isola sembrava totalmente priva di attività vulcanica o tellurica tale da lasciar emergere il suo suolo, di composizione lavica, oltre i 2 Km di oceano che si estende verticalmente tra il fondale e la superficie. Almeno finché non si ebbe l’occasione di scoprire, sotto lo strato di sedimenti risalenti al Miocene (23-5 milioni d’anni a questa parte) formazioni rocciose perfettamente in linea con l’aspetto dei cosiddetti basalti a cuscino, spesso associati alla formazione di un’ofiolite. Dicesi affioramento roccioso spinto dalle inusitate pressioni sotterranee, attraverso letterali migliaia di secoli, fino a materializzarsi la ove potesse, in qualche modo, raccogliere la luce dei cieli. Il che significa, in altri termini, che questo luogo è il probabile prodotto dello stesso mantello terrestre, ovvero uno dei pochi luoghi in cui è possibile osservare con i propri occhi le viscere stesse, crudelmente esposte agli elementi, della nostra Terra generatrice.
Le implicazioni di tutto questo, in prima analisi, potrebbero non risultare evidenti. Simile per composizione paesaggistica ed elevazione alla vicina Tasmania, benché totalmente priva di vegetazione ad alto fusto a causa del suo clima rigido e il continuo battere dei venti, l’isola presenta per le menti interessate l’occasione di studiare da vicino l’effettiva composizione degli strati sottostanti all’involucro geologico sopra il quale, normalmente, siamo soliti poggiare i nostri piedi. Con una varietà di tipo geologico capace di mostrare, a profondità zero, rocce normalmente rare come particolari formazioni di doleriti, troctoliti, harzburgiti, duniti e peridotiti, normalmente parte di un colonna sotterranea irraggiungibile senza l’impiego di trivelle. Il che ha giustificato, a partire dal 1997, all’iscrizione di un simile luogo all’elenco dei patrimoni naturali dell’UNESCO, anche grazie ad una rara conservazione pressoché perfetta dello spazio geologico, soprattutto causa la collocazione remota e irraggiungibile di questo luogo. Attenzione certamente non intenzionale, e d’altra parte, incapace d’estendersi all’effettiva sopravvivenza dei suoi più antichi, pennuti abitanti…
Gaviale, un lungo coccodrillo con la brocca sulla punta del naso
Che magnifico gioco di equilibrismo! Mentre procedo sopra l’acqua del fiume sacro a bordo della barca usata per traghettare i turisti, simile a una canoa sovradimensionata, scorgo l’ombra scura che procede serpeggiando in mezzo ai flutti. Sopra i quali, in modo sostanziale, sporgono soltanto tre elementi: la coppia d’occhi attenti spalancati verso l’artificiale intruso delle circostanze e un po’ più avanti quella che potrebbe essere soltanto un chiaro esempio di ghara, la tradizionale brocca per il trasporto e l’immagazzinamento dell’acqua, molto usata nell’intero subcontinente indiano. Mentre tento di capire esattamente cosa sto vedendo, d’improvviso, quella cosa sembrerebbe emettere un potente suono, come un sibilo acuto, paragonabile a quello di un piccolo treno. La creatura, molto lentamente, appoggia le sue zampe sulla riva e si solleva, rivelandosi dotata di una doppia fila di appuntite scaglie sulla schiena. Come un drago, oppure un dinosauro? Ma la cosa che colpisce maggiormente, è il muso lungo simile a quello di un pesce, caratterizzato da una doppia fila di denti aguzzi ed affilati, fino a 110 da un lato all’altro. Sopra i quali, soavemente, grava quell’oggetto fuori dal contesto che a un secondo sguardo si rivela essere, nei fatti, fatto di cartilagine e parte inscindibile del corpo dell’animale.
Se lo sapete, pronunciatelo. Altrimenti sarò io a occuparmene: Gavialis gangeticus, nome latino nato da un fraintendimento o trascrizione problematica, laddove l’originale in Hindi Ghaṛiyāla (घड़ियाल) aveva piuttosto la funzione di fare riferimento al sopracitato vaso di terracotta. Concettualmente collegato fin da tempo immemore, per pura associazione visuale, a questo imponente essere tradizionalmente visto come la cavalcatura della Dea Gaṅgā, personificazione del corso d’acqua entro cui i praticanti di religione induista sono soliti praticare le proprie abluzioni, riti sacri e in tali casi, sepolture. Ciò detto chi dovesse, comprensibilmente, considerare un potenziale pericolo per le persone questo membro sud-asiatico dell’ordine dei Loricati lungo fino a 6 metri (il che basta a farne, caso vuole, uno dei coccodrilli più imponenti della Terra) dovrebbe risultare tuttavia tranquillizzato dalla specifica forma del suo cranio, appuntita almeno quanto un becco di cicogna, tipico accessorio per il mantenimento in ordine di una folta chioma. Il gaviale del resto, o come viene più correttamente chiamato in lingua inglese, gharial, risulta essere una delle più tranquille e timide tra le creature appartenenti alla sua specifica genìa, avendo spesso la peggio nei conflitti per il controllo del territorio con il principale coabitante dell’intero sistema fluviale dell’Hindu, il Gange, il Brahmaputra e l’Irrawaddy: il Crocodylus palustris o Mugger crocodile. Costruito dall’evoluzione per eccellere in un compito e soltanto quello, il coccodrillo dal muso a punta trascorre dunque un tempo comparabilmente molto elevato in acqua, fuoriuscendone soltanto al fine di riscaldarsi periodicamente sotto i raggi energizzanti dell’astro solare. Oppure per emettere il sopra accennato verso fischiante, fondamentale per i maschi in età d’accoppiamento, prodotto all’insolita struttura bulbosa che arrivando ad un certo punto a possedere, in realtà usata come cassa di risonanza per tentare di trovare una degna compagna. La quale giungerà quindi a deporre sulle rive del suo fiume, dopo aver scavato una buca profonda fino a 50 cm, una quantità di uova tra le 28 e le 60, ma in grado di raggiungere in casi eccezionali fino a 100. Sebbene molti di quei piccoli, purtroppo, siano destinati a perire prima del raggiungimento dell’età adulta…