L’atmosfera di una festa che si fa nostalgica, quasi meditabonda. Mentre sparuti capannelli d’ospiti, ai quattro angoli del salone, iniziano a parlare sottovoce, nella speranza collettiva di riuscire a udire prima di ogni altro il suono strascicato, di quei passi nella notte che preannunciano l’arrivo del bianco Messaggero. E guai, sarebbero, se qui nessuno fosse sufficientemente attento, permettendo il profilarsi alla finestra di quel volto lungo e disumano, la creatura che si aggira nella notte: Mari Lwyd. Un mostro, una speranza, una condanna e una rivoluzione. Che ogni anno prova a farsi aprire l’uscio delle case, specialmente in mezzo ai territori, splendidi e rurali, delle due contee che formano il Galles meridionale. Perciò non importa, che tu sia del Glamorgan o del Gwent, di un piccolo villaggio o la città di Chepstow, capitale di confine con il Regno Unito ed il Gloucestershire, famosa per i suoi castelli ed i maiali: non potrai trovare proprio nulla di spiacevole, nella creatura che deambula gobbuta nella notte, il non-morto tuttavia benefico, offerta del potente Arawn (dio dell’Oltretomba) nei confronti di chi ha scelto di percorrere la strada della nuova religione.
“Chi sei, chi sei?” Si ode a un tratto pronunciare presso l’uscio, ad opera di Nansi, la figlia adolescente del gaffiere, mentre fisarmoniche celate all’improvviso messe in moto, risuonano da un lato all’altro del giardino. E senza un attimo di esitazione, la risposta: “Wel dyma ni’n dwad (eccoci, siamo arrivati) Gyfeillion diniwad (cari amici) I ofyn am gennod i ganu (per chiedere il permesso di cantare)” A pronunciarle in assonanza un misterioso ed irriconoscibile individuo, perché a buon intenditor poche parole, dal volto dipinto di nero e l’alta tuba, il cui ruolo prototipico e quello del maggiordomo, ovvero l’accompagnatore, di colui che giunge veramente da lontano. Assieme a Punch & Judy, figuranti incaricati d’interpretare due figure tipiche del teatro dei burattini, facilmente identificabili da un italiano come Pulcinella e la consorte col manganello in mano. Ma quando le note si arrestano, e i cantanti tacciono, è colui/colei che inizia a praticare la sua mistica magia. Composta da nient’altro che una semplice presenza ed il bisogno, più che mai evidente, di guadagnar l’ingresso per la rituale offerta del wassail.
“Wassail, wassail! (Alla salute!)” Rispondono dall’interno, come sempre è stato fatto, ovvero “Offrite un sorso dalla grande coppa del sidro comunitario, all’unica giumenta grigia della compagnia.” Che non è per niente, come si potrebbe forse tendere a pensare, un vero e vivo essere equino di quel colore capace di dargli un accesso ai diversi “regni” dell’esistenza, semplicemente prelevato dalla stalla più vicina. Bensì un cranio dissepolto tra il tramonto e l’alba, montato sopra un palo e manovrato dal giullare di turno sotto ad un lenzuolo riccamente decorato, con cardini usati per fargli aprire e chiudere la mandibola a comando. Il termine antropologico sarebbe non a caso quello di hobby horse, un concetto geograficamente più ampio e legato al paganesimo dell’Era pre-cristiana, ma non solo, in cui un membro della comunità lascia indietro temporaneamente la sua identità, allo scopo d’incarnare l’anima di una creatura misteriosa quanto leggendaria, che alcuni dicono essere reincarnazione dell’asino che ebbe l’onore di trasportare, e quindi riscaldare il piccolo Gesù. Mentre per altri, nient’altro che una versione tangibile dei Cŵn Annwn, gli orribili “cani dei cieli” inviati dal sottosuolo per scacciare dalla Terra ogni spirito malvagio dell’anno trascorso.
Ciò che tutti concordano, tuttavia, nel riconoscere, è che la specifica tradizione gallese della Mari Lwyd (letteralmente: giumenta grigia, ma è riconoscibile nella radice il nome di Maria) rappresenta uno dei più antichi e gelosamente custoditi rituali custoditi dai popoli fin dai tempi precedenti all’integrazione ecclesiastica delle Isole Inglesi. Capace di mostrare un lato trasversale, e assai importante, dell’universale festa per l’arrivo del solstizio d’inverno…
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La straordinaria organizzazione della cucina più grande al mondo
Nel primo giorno di Vaisakh, antica celebrazione antecedente alla fondazione del Sikhismo corrispondente all’inizio dell’anno solare, risultava semplicemente impossibile contare le centinaia di migliaia di persone che si trovava tra le auguste mura di Sri Harmandir Sahib, il tempio noto corte sacra del Dio Creatore, secondo quanto scritto nell’Adi Granth, il corpus di testimonianze ereditato dai 10 guru fondatori della quinta religione organizzata più grande al mondo. Nonché una delle più giovani, tra tutte quante. Persone di tutte le estrazioni sociali, nazionalità, etnie e provenienze religiose avevano indossato il turbante in segno di rispetto, se uomini, mentre le donne usavano quasi tutte il sari per coprire la testa, secondo l’usanza diffusa nello stato indiano del Punjab, sebbene non si trattasse di un obbligo imposto da uno specifico comandamento di questa religione. E compiuto le abluzioni rituali, poco prima di entrare e sedersi sul pavimento del vasto circumambulatorio (struttura coperta di forma rettangolare) spesso utilizzato dai pellegrini per fare il giro completo dell’Amritsar, la vasta piscina artificiale al centro della città omonima, considerata recipiente del sacro nettare dell’Immortalità. Trascorso qualche minuto, quindi, una voce squillante annunciò con tono quasi militare che l’occasione di rito stava per avere inizio: un letterale esercito di volontari scaturì a quel punto dall’edificio contenente le colossali cucine (langar) del luogo di culto, iniziando a distribuire i caratteristici vassoi di metallo ai presenti, con tre spazi contenenti, normalmente, zuppa di lenticchie, pudding di riso e una generosa porzione di chapati, il classico pane indiano cotto sulla padella piatta (tava). Ma in questo giorno davvero speciale, il pranzo avrebbe seguito un menu davvero fuori dal comune: a tutti i presenti sarebbe stata servita la carne (mahaprasad) un tipo di pietanza che ben poche persone, da queste parti, avevano modo di sperimentare frequentemente. Per questo c’era un’atmosfera elettrica nell’aria, quando la seconda ondata di addetti alla preparazione e distribuzione del cibo fecero il loro ingresso, trasportando le grandi pentole ricolme di spezzatino di montone (kadai gosht) accompagnato da spezie tandoori e un generoso apporto di pepe nero. Un vero e proprio miracolo, considerando che al di là di offerte volontarie di minuta entità, non una delle persone presenti aveva materialmente pagato allo scopo di partecipare ad un così luculliano banchetto.
L’usanza tipica di tutti i templi Sikh, che raggiunge le sue massime proporzioni proprio qui, nel tempio (gurdwara) d’oro che costituisce il sancta sanctorum di questa intera religione, non è esattamente riconducibile al concetto cristiano di carità. Poiché secondo uno dei precetti basilari di tale culto, il dovere di ogni fedele risulta essere, ancor prima di aiutare i bisognosi, semplicemente condividere i propri guadagni, in una proporzione tale da soddisfare i precisi precetti scritti nei testi dell’Adi Granth, custodito come una reliquia ed esposto in specifici orari all’interno dell’edificio noto come Akal Takht, il “Trono di Colui che non avrà fine” da cui si estende il ponte che conduce al centro della piscina, dove si trova lo scintillante Sri Harimandir Sahib, edificio di cinque piani tra cui quattro letteralmente ricoperti di preziose lamine d’oro. E poiché tutto deve essere in proporzione, ne deriva che le risorse impiegate per dare da mangiare a chiunque si presenti alle porte del tempio debbano essere virtualmente spropositate, ovvero bastanti per preparare il cibo in quantità paragonabile a quella di 100, oppure 1.000 mense dell’esercito. Un qualcosa di letteralmente inimmaginabile, per chi non l’ha mai sperimentato in prima persona.
L’inverno previsto dal bruco peloso della Carolina del Nord
Il paragone con il ben più celebre Giorno della Marmotta celebrato negli Stati Uniti e il Canada è inevitabile, benché ci troviamo innanzi ad un metodo di previsione maggiormente sofisticato e per certi versi, molto più “preciso”. Come ogni anno, ma dopo un’edizione della festa particolarmente travagliata per le temperature già bassissime di questo inizio ottobre, il consorzio di circa 15.000-20.000 persone accorse in un luogo circondato da montagne e foreste ha potuto assistere alla fondamentale “lettura” giungendo alla conclusione che sebbene abbia avuto un inizio gelido, questo inverno subirà una rapida ripresa, con poche nevicate nella parte mediana e un finire in cui sarà nuovamente opportuno indossare i propri abiti più pesanti.
Determinare la vera essenza di una creatura naturale non è sempre semplice, come viene da pensare osservando la larva nera e marrone della Pyrrharctia isabella, comunemente detta falena tigre gialla o direttamente orsetto peloso, per la fitta coltre di peli che la ricopre sia prima che dopo la metamorfosi compiuta all’interno del fatidico bozzolo che corona la sua esistenza. Poiché da un punto di vista europeo, piuttosto che di un abitante degli Stati Uniti, appare immediatamente probabile che debba trattarsi di una qualche versione locale di quelle che in Italia siamo soliti chiamare processionaria, il bruco le cui setole risultano ricoperte di un potente veleno urticante, capace di causare un dolore persino superiore a quello di una puntura di vespa. Difficilmente, dunque, potrebbe venirci in mente di prenderne in mano uno, per porlo dinnanzi all’obiettivo di una telecamera, accarezzarlo e sopratutto renderlo protagonista di una vera e propria festa con tanto di difficili gare, al termine delle quali riceverà il compito di enunciare un’importantissima profezia. Importantissima, sopratutto, per la cittadina americana di Banner Elk, NC, circondata da resort sciistici destinati ad accogliere un vasto pubblico proveniente dall’intero territorio della Costa Est. A patto, s’intende, che cada una quantità sufficiente di neve. Fortuna che un tale essere, almeno secondo il folklore popolare, risulta in grado di fornire agli abitanti il valido accenno di un’idea.
Per l’origine di una tradizione che si perde nella nebbia dei tempi, risultando probabilmente associata alla curiosa variabilità di questi bruchi, la cui presenza o estensione della caratteristica banda marrone può a seconda dei casi estendersi per una variabile quantità dei 13 segmenti che compongono l’animale, tanto che a qualcuno dev’essere apparso chiaro, durante un subitaneo momento d’illuminazione, che questi dovessero costituire un messaggio elaborato dalla Natura stessa, appositamente per chi fosse riuscito a farne tesoro. Ecco dunque svelato il metodo: ad ogni segmento corrispondono due settimane, per un totale di 26. Maggiormente ciascuno di essi risulterà distante dal nero assoluto, tanto più nel periodo corrispondente la luce del sole tornerà a splendere, sciogliendo i ghiaccioli e prevenendo il principio d’assideramento per chiunque dovesse essere tanto coraggioso da uscire di casa. Ciò rende assolutamente necessaria la selezione dell’esemplare “migliore” o “più giusto” data l’effettiva natura di tale livrea, che sembra estremamente variabile anche tra i singoli esemplari ritrovati sulla stessa pianta, per non parlare di uno specifico anno corrente. Ragione per cui le molte versioni di questa festa, di cui quella di Banner Elk è la più famosa ma certamente non l’unica, sono solite includere nel proprio programma un vero e proprio torneo ad eliminazione, basato sulla velocità con cui i diversi bruchi riescono a percorrere l’intera estensione di un filo perpendicolare al suolo. È inutile a questo punto affermare che, per scienziati e meteorologi, l’opinione possibile in merito all’attendibilità di tutto questo sia soltanto una…
Il catartico banchetto dei macachi thailandesi
Occorre prestare attenzione, mantenendo il giusto grado di rispetto, ogni qualvolta si pretende di avere a che fare con le scimmie. I primati più intelligenti del pianeta che a differenza di noi, si sono mantenuti vicini all’esistenza selvatica di una ferocia primordiale. Capaci di atti di grande altruismo. Ed assoluta, travolgente devastazione. Ebbe modo di scoprirlo il signore dei demoni Ravana, all’epoca degli antichi Dei, che per sua somma sfortuna aveva scelto di rapire la bella Sita, moglie del principe guerriero Rama. Il quale aveva un amico di nome Hanuman, che era due cose contemporaneamente: un imbattibile guerriero e un irsuto rappresentante della genìa degli alberi e delle banane. C’è una storia prima di tutto questo, che culmina con la liberazione da un maleficio, e la riscoperta da parte del signore di tutti i macachi dei poteri divini che gli spettavano per nascita dal giorno della creazione. Ma saltando questa parte, poiché non molto rilevante ai fini del nostro discorso, possiamo passare direttamente al giorno in cui Hanuman usò la stregoneria per diventare grande come una montagna, saltando il canale che divideva il subcontinente indiano dall’isola di Lanka, dove la consorte del suo principe era tenuta prigioniera. Per poi ridursi alle dimensioni di una formica eludendo i terribili Asura con le loro armi sovrumane, ed introdursi nel boschetto dove ella era tenuta prigioniera. Ovviamente, in attesa di essere costretta a sposare il suo crudele aguzzino. Quando Sita tuttavia, mostrando una notevole modestia alquanto fuori luogo dinnanzi all’amico, affermò che solo il suo amato marito avesse il diritto di salvarla, lo scimmiotto né fu comprensibilmente adirato e iniziò a distruggere il giardino con la sua incommensurabile possenza. Per poi gridare all’indirizzo di Ravana, nella sua alta torre: “Trema, malvagio, poiché Rama sta arrivando!” Soltanto per udire la sua risata cavernosa, poco prima di venire messo in catene dai potenti Asura, i quali avevano ricevuto l’ordine di legarlo e dare fuoco alla sua coda per punizione. Allora Hanuman, facendo ricorso ai poteri di cui era insignito, fece crescere l’appendice articolata in modo esponenziale, affinché i demoni che tentavano di avvolgerla in panni inumiditi d’olio non riuscissero a completare la loro mansione. A quel punto, una volta che gli era stato appiccato il fuoco, diventò di nuovo piccolo e sfuggì ai suoi legami, per balzare fuori da una finestra e fin sopra i tetti di Lanka. Segue scena semi-apocalittica in cui l’eroe animale, balzando in giro per la città-isola, dà fuoco alla maggior parte degli edifici con la sua coda infuocata, per poi assumere di nuovo le proporzioni di una montagna, e fare ritorno con un balzo in terra d’India. Il giorno e l’ora della grande battaglia finale per salvare Sita, da quel momento, sembravano sempre più drammaticamente vicini.
Questa è la storia alla base del culto più che millenario tangente alle discipline induiste, ma anche a quelle buddhiste, potendo essere considerato intrinseco di molte delle genti d’Asia, incluse quelle che abitano la parte Sud-Est di questo grande continente. Come possiamo facilmente desumere dai molti resti archeologici che hanno attraversato i secoli, ivi compresi i grandi templi fatti costruire nel XII secolo da Jayavarman VII, uno dei più grandi e venerati re della civiltà degli Khmer cambogiani. Il quale, durante le sue guerre contro il popolo dei Cham, aveva portato l’impero fino alla Thailandia, giungendo a costruire i templi della propria religione fino in prossimità dell’attuale capitale Bangkok. Luoghi come Phra Prang Sam Yot, il “Santuario delle tre cime” della città di Lopburi, che pur non avendo la maestosa immensità e precisione astronomica dei ben più celebri templi di Angkor, presentava anch’esso il suo corredo di notevoli statue, sculture e sale adibite alla venerazione degli antichi dei. Per un luogo che originariamente vedeva, si ritiene, la pratica del culto shivaita, per poi essere trasformato in un tempio dedicato a Buddha dalla maggioranza locale, senza tuttavia dimenticare il ruolo e l’importanza di una piccola figura scolpita in prossimità delle sue fondamenta: la raffigurazione, rozza ma accurata, di Hanuman la scimmia degli dei, intenta a sostenere la possente struttura edificata per oltrepassare le ere. Così i secoli passarono, ed altrettanto fecero le diverse organizzazioni del clero locale, lasciando una costante di questi luoghi solamente la devozione nei confronti di quell’antica genìa animale, a noi tanto simile eppure, così fondamentalmente interessata alle forme più basiche di guadagno personale. Così un poco alla volta, tra le scimmie della penisola iniziò a girare la voce che c’era solamente un luogo, in tutto il regno, in cui avrebbero ricevuto un trattamento degno del prestigio del loro antico eroe. E ben presto, accorsero in quantità letteralmente spropositata.
Fast-forward di quasi un migliaio d’anni, fino all’epoca relativamente recente 1989. Il proprietario di un hotel locale, popolare tra chi desiderava risiedere a distanza di pochi minuti da Bangkok pur rimanendo fuori dal suo cacofonico bailamme, desiderava incrementare la popolarità turistica del suo paese. Così decise, inizialmente soltanto a sue spese, che l’ultima domenica del mese di novembre sarebbe stata un giorno di festa, nel corso del quale le scimmie di Lopburi avrebbero ricevuto tutto quello che avevano sempre desiderato. In altri termini, montagne decorative di frutta, dolci, cibo spazzatura, bevande e altre delizie, del tipo che esse si erano abituate a rubare agli umani. Così ebbe origine l’usanza del buffet delle scimmie sacre, una delle ricorrenze più bizzarre, e stranamente affascinanti, di questa eclettica regione del mondo…


