Le strane pulci incorporate dentro l’albero di quercia

In natura esiste quasi sempre una terza via. In aggiunta a quelle, proverbiali, della laboriosa formica e l’apatica cicala, ciascuna delle quali associata a un diverso comparto del consorzio umano, più o meno in linea col concetto di un adulto senso della serietà. Col che mi riferisco non tanto ad una via di mezzo, né all’applicazione maggiormente estrema dell’una o l’altra scala di valori, quanto a chi senza realmente faticare, possiede un segreto per beneficiare del lavoro altrui. Acquisendone un tesoro che sotto qualsiasi punto di vista, non apparteneva certamente a lui. È il sentiero del ladro o se vogliamo usare un’ottica moderna, quello dell’hacker senza limiti di coscienza, capace di alterare il corso del denaro, titoli o altri beni privi di tangibile immanenza. Il cui gesto fondamentale, ovvero ciò che usiamo per trovargli un nome, consiste nel “modificare” il funzionamento dei computer, instradandoli secondo la sua personale volontà. E se vi dicessi che nel mondo degli insetti, e per essere più specifici all’interno dell’ordine degli imenotteri, esiste un’ampio ventaglio di specie in grado di fare esattamente la stessa cosa? Con la singolare differenza che poiché l’informatica esula dalle loro competenze, essi praticano l’hacking ai danni della cosa più vicina che appartiene al loro mondo: la presenza immobile e silenziosa delle piante. Dovreste visitare, qualche volta, la California al culmine dell’estate, quando gli alberi fioriscono e in particolare le Quercus alba, presenza vegetale tipica di queste terre, di ricoprono di nuovi germogli, spostandosi ancora una volta in maniera lieve, ma determinata, verso l’obiettivo della crescita ad oltranza. E udireste allora, un suono certamente inaspettato: il battito privo di ritmo della pioggia, nonostante il cielo totalmente limpido si rifletta nella rinomata aridità della stagione. Già perché, ad uno sguardo maggiormente attento, scorgerete sul terreno attorno al tronco un vero e proprio tappeto di minuscole palline color legno, non più grandi della capocchia di uno spillo. Ciascuna delle quali, misteriosamente, intenta a sobbalzare alla maniera di un fagiolo messicano. Nient’altro che uno, dei molti estremi che tendono a verificarsi quando un’intera famiglia di vespe impara un nuovo metodo per riprodursi…
Cynipidae è l’appellativo collettivo, benché non trovi spazio all’interno della definizione scientifica del singolo caso, appartenente alla creatura nota in latino come Neuroterus saltatorius, altrimenti detta localmente Jumping Gall Wasp. Il che è interessante, perché il termine inglese gall si riferisce normalmente alla sostanza nota come bile o fiele, prodotta dal fegato tra un pasto e l’altro al fine di essere immagazzinata nella cistifellea, famosa per il gusto orrido che tende a caratterizzarla, ogni qualvolta si verifica un riflusso gastrico di qualche tipo. Questo perché gli antichi, per ragioni che oggi troveremmo assai poco condivisibili, avevano scoperto che questi piccoli animali avevano un sapore disgustoso come misura difensiva, particolarmente nella fase della loro vita in cui risultavano più facili da catturare, corrispondente grossomodo al bozzolo della farfalla. Benché l’origine dello stesso, come dicevamo, sia assai più subdola e perversa; poiché i lepidotteri nella maggior parte dei casi, una volta consumata la materia vegetale, impiegano l’energia risultante per secernere l’involucro in cui potranno svilupparsi successivamente, fino al realizzarsi dell’imago, ovvero la forma adulta adatta alla riproduzione. Mentre ogni appartenente al genus Neuroterus, possiede una speciale secrezione salivare in grado di alterare la genetica stessa delle piante sopra cui depongono le uova, costringendole a produrre un’escrescenza che avvantaggi in modo particolare l’insetto. In altri termini, per l’appunto, quella che noi italiani definiamo una galla. Potreste averne viste, qualche volta, se amate fare scampagnate, particolarmente nei dintorni di un boschetto di castagni. Questo perché il loro parente più prossima che vive nella nostra penisola, il cinipide galligeno (Dryocosmus kuriphilus) ama particolarmente tali piante, inducendole mediante la chimica a produrre quella che potremmo descrivere dal punto di vista vegetale come una sorta d’escrescenza tumorale. Generalmente, una sfera (benché ne esistano di più forme) che avrà il compito di contenere e proteggere le sue uova, finché la larva risultante non fuoriesca praticando un foro, dopo essersi nutrita per un’intero inverno della stessa materia che costituisce la sua gabbia dorata.
Ovviamente, come sopra menzionato, la vespa delle galle californiana compie un passo ulteriore, probabilmente frutto di un proficuo e meccanico ragionamento: poiché nello stato della Costa Occidentale più famoso c’era un alto numero di predatori, primariamente uccelli, che avevano imparato a tollerare il gusto pessimo di queste galle. Costringendole, per così dire, a cercare rifugio altrove.

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Assassini preistorici sotto i ghiacci del Polo Sud

Una normale stella marina ha cinque braccia. Questa, molto spesso, può vantarne 50. Le altre appartenenti alla sua genìa, al massimo, strisciano sul fondale. Lei si arrampica nel punto più alto, per sporgersi e tentare di afferrare al volo chi fosse tanto folle da nuotare nei dintorni. Le sue cugine sono letteralmente ricoperte, nella parte inferiore, di peduncoli ambulacrali, usati per un lento ma inesorabile movimento. A chiara differenza di un simile mostro, che possiede migliaia di minuscoli artigli spinosi e trappole triangolari chiamate pedicellariae, capaci di serrarsi come altrettante devastanti tagliole per orsi. Ah, dimenticavo: misura “appena” un metro. Pensate alla vostra reazione, se doveste incontrarla in un vicolo buio…
Nel momento in cui qualcuno vi chiedesse “Qual’è la creatura che domina la Terra” non credo che esitereste troppo a lungo nell’indicare voi stessi, ultimi depositari della discendenza iniziata coi primi ominidi, che ci ha condotto in epoche geologicamente recenti ai più alti livelli tecnologici e sociali della specie Homo s. sapiens. Oppure potreste chiedervi, deviando almeno in parte dal pensiero comune, quale dovrebbe realmente essere la metrica utile a definire la buona riuscita di un percorso evolutivo. La posizione nella catena alimentare? La forza e il coraggio? Piuttosto che, in maniera molto più semplice e soggettiva, il peso complessivo degli esemplari viventi, intesa come biomassa totale di ciò che brulica, si nutre ed opera nel campo imprescindibile della riproduzione… Proviamo, per un attimo, a prendere in considerazione un simile approccio. Secondo il quale ogni dubbio sparisce: il vincitore è il krill dell’Antartico, Euphausia superba. Il cui numero magico si aggira sui 500 milioni di tonnellate, contro i nostri 100 appena. Questo ha una logica, se ci pensate: il predatore non è mai più prevalente della preda. Poiché una singola tigre, un leone, dovranno mangiare nel corso della loro vita un centinaio di gazzelle. Ma se ce ne fossero esattamente cento, dopo una o due generazioni, che fine avrebbe fatto la gazzella? Così sono gli umili, a moltiplicarsi in maniera estrema. E ancor più di loro, le piante, cibo di tutti ancor prima che il primo carnivoro facesse la sua comparsa su questa Terra. Ma un conto è prenderne atto, tutt’altro vederlo coi propri occhi…
Questa è la spedizione del naturalista Jon Copley, realizzata con l’aiuto di Ocean X per il documentario della BBC Our Blue Planet, nel quale una piccola parte ma importante parte della troupe, salendo a bordo del batiscafo facente parte della dotazione della loro nave oceanografica, supera agevolmente il record dell’immersione a profondità maggiore nell’area geografica comunemente definita come Antartide, dove notoriamente, soltanto gli esseri più resistenti riescono a sopravvivere e prosperare. Così nessuno resterà sorpreso quando, nei primi minuti del breve spezzone promozionale, le telecamere non riescono a riprendere null’altro che un’ambiente torbido e ombroso, nel quale gli unici movimenti sono quelli indotti dalle correnti oceaniche. Finché, continuando a scendere fino ai 1.000 metri, non raggiungono la superficie ondulata di un misterioso fondale. Dove la luce del riflettore integrato, rimbalzando sulla sabbia millenaria, rivela finalmente l’incredibile verità: il particolato in sospensione nel brodo, questa polvere che circonda il veicolo, non era altro che materiale biologico. Pezzi, scorie, rimanenze, di una pluralità d’esseri, che persino adesso, li circondano completamente. Minuscoli gamberi brulicanti… Gli occhi fissi, la coda segmentata. Nella quantità d’infiniti miliardi. Ecco, quindi, che cosa succede quando le condizioni climatiche estreme, o la semplice anomalia di un particolare habitat, non permettono lo sviluppo diffuso di specie voraci che possano sterminare i “piccoli”. Eppure, persino qui, anche adesso, lo scenario biologico non è del tutto pacifico. Ma vi sono, piuttosto alcune specie in grado d’imporsi almeno in parte sugli sciami di crostacei, attraverso metodi molto particolari. Prima fra tutte, quella che Copley non esita a definire, con chiara citazione cinematografica, la sua Stella Assassina (Death Star). Dando seguito, ancora una volta, alla netta corrispondenza ideale tra gli abissi e lo spazio siderale, già presente nella nomenclatura dei più diffusi echinodermi (sapete di chi sto parlando) che in ambito scientifico vengono definiti, facendo ricorso alla lingua latina, Asteroidea. Le stelle marine che sono ovunque eppure rispondono tutte, in linea di massima, alla stesso schema ecologico: raschiare il fondale, agendo come spazzini di quanto nessun altro si prefigge di consumare. Ovunque, tranne che nei fondali distanti, circostanti dai ghiacci eterni della penisola Antartica. Perché questa, signori, è la Labidiaster annulatus, una creatura dall’intento killer e lo scheletro calcareo flessibile, capace di muoversi molto agilmente…

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Allarme per un regicidio all’apice dell’alveare

Guarda, guarda bene questa scatoletta che assomiglia ad una confezione di cerini. Con un tappo di zucchero su un lato, e un piccolo reticolato per far fuoriuscire i feromoni. Al suo interno c’è un tesoro, il patrimonio inconsapevole della ronzante società. Che pare, nonostante tutto, pronta per gettarla nel figurativo vulcano prodotto da una “palla di fuoco” fatta del proprio stesso calore corporeo. Neanche fosse il sommo (sfortunato) Dio vivente della profezia dei Maya. Millenni di evoluzione, eoni sovrapposti, solamente per poter dire di essere arrivati a questo: la logica della sopravvivenza in gruppo, piuttosto che il deperimento dell’individuo. Poiché cos’è veramente un’ape, presa singolarmente? Nient’altro che una mosca a strisce gialle e nere. Ma prendine magari una dozzina, tra my Lady e il suo adorante seguito di fuchi, e avrai le basi per la nascita di una delle “creature” più versatili, longeve e potenzialmente persino immortali, dell’intero mondo artropode animale. Certo, a patto che tu sia disposto a definire tale un alveare. Del resto, di sicuro non è una “cosa”. Qualcuno potrebbe scegliere di definirlo, magari, un singolare tipo di aggregazione. Come un’allegoria del nostro vivere corrente, sospesi tra i diversi ordinamenti concepiti dai maggiori teorici del passato: democrazia, repubblica, federazione, comunismo… Monarchia non costituzionale (ovvero con lo scettro, la corona e tutto il resto). Quest’ultima, sempre più raramente. Poiché presenta alcuni lati estremamente positivi ma anche, indubbiamente, un difetto irrisolvibile di fondo. Pensateci: una singola persona che prende tutte le decisioni. Ciò significa uno stato privo di burocrazia, rapido, scattante. Se c’è il bisogno di effettuare una riforma, il giorno dopo sarà implementata. Se occorre dichiarare guerra, sarà meglio che inizi a correre, nemico. Colui che controlla il trono controlla l’impero e controllando l’impero, molto spesso, non c’è nulla che possa esimere dalle ambizioni di colui che può. Cosa succede, invece, se colui NON può? Del resto esistono diversi tipi d’individui. Alti, bassi, biondi, castani. Intelligenti, oppure dei completi idioti. E quel che è peggio è che il potere assoluto, tradizionalmente, veniva trasmesso per la via genetica. Il che vuol dire che ad un re incapace, molto spesso, ne seguiva uno ancora più incapace. Ed è così, alla fine, che si giunge alla rivoluzione dei francesi.
Ora, la questione delle api, se vogliamo, è ancor più problematica e complessa. Poiché loro è il singolare stile di vita per il quale ogni singolo membro della loro comunità, nessuno escluso, è una figlia o un figlio del sovrano. E per inteso non è questa certamente una metafora, visto che ciascuna singola larva nelle nursery esagonali, secondo il ben preciso ordinamento di cui sopra, è giunta in questo mondo tramite il-di-Lei ovopositore. E adesso immaginate di chi sarà la colpa, qualora tutto debba andare a scatafascio. Come càpita, talvolta. Vedi quando l’alveare non produce più abbastanza miele, oppure iniziano a mancare le nuove operaie, o non ancora non dimostra la capacità (o il coraggio) di sciamare verso una destinazione ancor più ricca di risorse alimentari. Oppure la regina muore di semplice vecchiaia. C’è un preciso protocollo, in tutto questo. Che prevede l’impiego di una sostanza molto importante nel ciclo vitale degli imenotteri volanti per eccellenza: la pappa reale. Generalmente data in pasto alle larve solamente per un paio di giorni, ma che a questo punto, viene letteralmente versata all’interno di alcune cellette più grandi, ricoprendo generalmente un’intera porzione dei futuri nascituri. Al che inizia la trasformazione: le giovani api si rafforzano e cambiano colore. E iniziano a sviluppare quel particolare tipo d’intelligenze che dovrà permettergli, un giorno non troppo lontano, di trasformarsi nel nucleo materno al centro del mondo. Benché sussista ancora un piccolo problema: soltanto una di loro potrà accedere allo stato di sovrano. Dopo che avrà ucciso, con le sue stesse mandibole di neonata, le proprie possibili concorrenti. Tale è l’inusitata crudeltà della natura. Qualcuno potrebbe definirlo un’approssimazione del concetto di Battle Royale.

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Perché ai ragni di mare non serve un cuore

Torreggiante sopra il suolo diseguale del fondale, l’essere largo 90 cm cammina con incedere delicato, tastando con la lunga proboscide la superficie sabbiosa. Il corpo minuscolo, le zampe in proporzione enormi, come i nodosi rami di un albero stregato. Oppure volendo, gli arti di un camminatore alieno, uno di quei mezzi artificiali descritti originariamente nel dramma radiofonico della guerra dei mondi, contro cui le armi degli umani non avrebbero sortito alcun tipo di effetto. D’altra parte, la creatura sembra anche una versione alternativa del face-hugger xenomorfo, il mostro che saltando come un pupazzo a molla fuori dall’uovo, si attacca al volto di un esploratore disattento per immettere dentro all’esofago l’embrione dei suoi discendenti. In realtà è innocuo. Anno dopo anno, schiere di autori letterari, registi e altri creativi si sono industriati nell’inventare degli ambiti extraplanetari, dotati di ecologia o tecnologie completamente disconnesse da quella terrestri. Una mansione tutt’altro che semplice, quando si considera l’estrema biodiversità già presente dinnanzi ai nostri stessi occhi, grazie alla varietà d’ambienti presenti su questo azzurro e multiforme questo pianeta. “Un ragno resta un ragno in mezzo a una foresta, come nelle regioni più remote di un arido deserto.” Disse una volta qualcuno. Il che è perfettamente vero. Ma un ragno del profondo dell’oceano, è tutt’altro, perché appartiene in effetti alla famiglia dei pycnogonidi.
Qualcosa di simile, eppure diverso. Questi artropodi misteriosi, dalla classificazione tutt’ora incerta, dovrebbero in teoria derivare da una costola del gruppo dei chelicerati, il che li avvicina da un punto di vista genetico ad un’altra creatura acquatica apparentemente frutto della fantascienza, il limulo o horseshoe crab (Limulus polyphemus, grosso pseudo-insetto corazzato delle rive sabbiose, con coda rigida e appuntita). Pur non avendo una quantità di fossili sufficienti ad affermarlo con certezza, gli scienziati ritengono che in entrambi i casi si tratti di animali che hanno iniziato il proprio separato cammino dell’evoluzione attorno all’era del Cambriano (541–485.4 milioni di anni fa) sviluppando una serie di adattamenti utili a tornare a vivere sotto la superficie del mare. Primo fra tutti, quello di sintetizzare l’ossigeno direttamente attraverso la pelle, senza l’impiego dell’organo dei polmoni a libro, strumento respiratorio fondamentale per gli aracnidi di terra. Il che significa in parole povere che nel funzionamento morfologico dei nostri amici, è prevista la capacità di assorbire l’acqua ed estrarre da essa il gas che fornisce la vita, che viene quindi fatta circolare attraverso il corpo attraverso due sistemi distinti e paralleli. Il primo è l’emolinfa, una sostanza comune ai colleghi di terra e grosso modo analoga al nostro sangue, in loro pompata attraverso il corpo da un cuore straordinariamente piccolo ed inefficiente. E non è tutto: pensate che in alcune delle specie più piccole (1-2 mm) tale organo non è neppure presente. Questo perché i pycnogonidi, unici nell’intero regno animale, sono in grado di far muovere l’ossigeno attraverso il loro apparato digerente. I primi a scriverne estensivamente sono stati H. Arthur Woods e colleghi, proprio nello studio dello scorso 10 luglio Respiratory gut peristalsis by sea spiders, dove viene osservato come i moti muscolari dei condotti impiegati dai ragni per smaltire le sostanza nutritive assunte durante la loro costante ricerca di cibo fossero troppo energici e regolari, per risultare utili solamente alla digestione. La verità apparve dunque, finalmente evidente: costoro respirano, esattamente come noi mandiamo giù il pranzo e la cena. Esattamente, si fa per dire: in quanto la fonte principale, nel loro caso, ovvero la parte del corpo più grande attraverso cui viene lasciato permeare l’ossigeno, altro non sono che le loro lunghissime zampe. Ed è per questo che il movimento avviene dall’esterno verso l’intero, ovvero il corpo centrale e segmentato, talmente piccolo da contenere, sostanzialmente, i soli organi sensoriali e l’organo necessario ad assumere il cibo. Che può implicare, a seconda della specie presa in considerazione, una doppia tipologia di apparati: cheliceri (denti chitinosi ed aguzzi) e pedipalpi (piccoli arti specializzati) con corta proboscide oppure soltanto quest’ultima, ma molto più lunga, flessibile e articolata. Tutto dipende, ovviamente, da cosa mangi effettivamente la specie presa in esame. Generalmente si tratta creature immobili come spugne, briozoi o policaeti, poiché i ragni di mare non sono effettivamente di un’agilità sufficiente ad andare a caccia con efficienza. Fatto che non gli ha impedito, del resto, di colonizzare pressoché tutti gli oceani della Terra…

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