L’adorabile leggenda del cinghiale triceratopo divoratore di bulldog

La sottile patina di civilizzazione, che separa l’odierna società dal mondo dei presagi e del terrore imprescindibile e incondizionato, è una barriera che può essere oltrepassata molto facilmente, nel momento in cui si prova l’esigenza di rapportarsi con l’imponderabile realtà. La sagoma vibrante e quelle forme, in grado di compenetrarsi, sorgere e cambiare, fino al raggiungimento di una nuova e totalmente differente definizione del termine “terrore”. Oh, essere di tutti gli esseri. Oh, creatura delle tenebre scostanti! Al volgere dei vespri diurni, il tuo incedere ha terrorizzato i boscaioli. Laddove il mare d’alberi di quel Wisconsin mai del tutto noto si apre nel formarsi di una placida radura. E lì nel mezzo, ringhiante, orripilante, obliquo e mai del tutto sazio nasce e vegeta l’Hodag. I suoi occhi rossi come bragi (poiché meri braci, nel contesto, non sarebbero abbastanza) e i denti lunghi quanto lame di pugnali Bowie giunti fino a questi lidi dall’Australia, punte sopra il dorso per trafiggere il ventre di preistorici ed enormi predatori. Grande… Quanto? La testimonianze dei vicini coabitanti del pacifico villaggio di Rhinelander possono variare, come in ogni onirica visione di creature che esulano dal metodo scientifico della comune biologia. Qualche metro, qualche decina, qualche montagna. Come quelle che percorse per discendere con zampe più lunghe da un lato, all’inizio di una soggettiva primavera, trovandosi di fronte alla figura del suo fortunatissimo (?) scopritore. Eugene Simeon Shepard, l’imprenditore ragionevolmente facoltose del legname americano che nel 1893, come narrano con piglio sensazionalista i giornali coévi, si trovò coraggiosamente a fronteggiare la creatura mentre vagheggiava solitario per le valle ombrose dove aveva fatto la sua fortuna, elaborando fin da subito la cognizione che tutto avrebbe avuto fine se non fosse stato evocato immediatamente lo spirito di Orione, il primo cacciatore della storia dell’umanità. Sotto la cui tutela, recita la la narrazione, radunato un gruppo di baldi giovani ed esperti survivalisti locali che trent’anni dopo il folklorista Luke Sylvester Kearney avrebbe ribattezzato con etimologia incerta la Reveeters Society, il rispettato membro della comunità seguì l’orribile creatura fino alla caverna che costituiva la sua tana. E con piglio e spietatezza, vi fece gettare all’interno una copiosa quantità di candelotti di dinamite. Il che avrebbe potuto anche essere, in modo imprescindibile, la fine della grave e cupa storia dello Hodag, fatta eccezione per una carcassa carbonizzata che venne portata innanzi all’obiettivo scrutatore dei fotografi ma a dire il vero, avrebbe potuto essere qualsiasi cosa. Se non che l’originale creatura da cui proveniva, come molti altri esseri biologici di questo mondo, possedeva in effetti una compagna della stessa schiatta e inusitata capacità di mettere alla prova l’immaginazione dei suoi conoscitori. Ed è qui che la storia, ca(s)o(s) vuole, inizia a farsi terribilmente interessante

L’iconografia interconnessa a una leggenda non sempre permette di acquisire l’effettiva dimensione o caratteristiche di un criptide. E osservando questa immagine non del tutto convincente dello Hodag, non è difficile capire il perché. Erano altri tempi…

Ora il grandissimo problema, per chiunque voglia prendere sul serio la leggenda di questo particolare criptide in mezzo al nutrito novero dei mostri statunitensi, è che il rispettato membro della comunità Eugene Shepard era anche un noto mattacchione, famoso per l’abitudine tra le altre cose di masticare il sapone ogni qual volta un creditore si avvicinava alla sua porta, per poi spalancarla gridando osceni versi e tentando di convincerlo di aver contratto in qualche modo il morbo dell’idrofobia. E furono dunque proprio i suoi compaesani e vicini di casa, nonostante l’entusiasmo dei giornalisti, a mettere in dubbio con la maggior enfasi possibile il racconto del suddetto e del suo fedele ma ben motivato gruppo di testimoni. Il che avrebbe portato il sedicente boscaiolo alla necessità, in qualsivoglia modo possibile, di rincarare opportunatamente la dose. Così proprio mentre la memoria della sua impresa sembrava stesse per scomparire nell’indifferenza generale, attorno al volgere dell’anno 1900, i giornali titolarono di nuovo: “Uomo del Wisconsin, contro ogni aspettativa ragionevole, è riuscito a catturare lo Hodag!” Come, è presto detto: NATURALMENTE l’ingegno tipico dell’abitante della frontiera l’aveva portato a dotarsi di un lungo bastone con un grosso tampone carico di cloroformio all’estremità. Rendendo estremamente facile, ancora una volta, introdurlo nella tana della bestia per riuscire ad addormentarla e prenderla all’interno della rete d’ordinanza tra la gioia e il giubilo dei suoi ribaldi quanto misteriosi aiutanti. Fece seguito la realizzazione di una foto, oggi custodita nel principale museo cittadino di Rhineland, in cui il bizzarro quadrupede, in questa accezione non più grande di un puma di montagna, sosta con fare rigido sopra un tronco caduto, circondato dal vittorioso cerchio dei cacciatori. Il che potrebbe anche sembrare a noi moderni una scena architettata grazie all’uso di un pupazzo, ma a quanto pare convinse ed entusiasmò la gente dell’epoca. Al punto che il buon Shepard cominciò a far circolare la storia di aver portato il mostro vivo all’interno del proprio granaio, dove lo nutriva solamente ogni domenica mentre il prete locale diceva messa. Gettando spietatamente nella gabbia l’unico cibo che sembrasse accettare, dei poveri bulldog, purché fossero rigorosamente di colore bianco. La voce si sparse a quel punto per l’intero stato e più di un visitatore cominciò a chiedere, scendendo dal treno in stazione, di poter vedere o in qualche modo avvicinarsi allo Hodag. Dal che l’idea, senz’altro prevedibile in quell’epoca e contesto, di trasformare l’opportunità in un business, facendo realizzare al collega taglialegna Luke Kearney un pupazzo animato con dei fili del sedicente mostro, che veniva mostrato all’interno di un tendone scuro mentre i figli dello scopritore producevano rumori e ringhi terrificanti. Mentre in altri casi, era lo stesso Shepard a uscire barcollante dal suddetto granaio coi vestiti a brandelli, apparentemente sconvolto e terrorizzato, annunciando con voce stentorea a vantaggio dei presenti: “Se volete vivere, oggi non è possibile vedere lo Hodag. È furibondo, famelico. Pericoloso.”

Una visione chiaramente prodotta in computer graphic che risulta, se non altro, conforme alle regole non scritte di questa tipologia di avvistamenti. In mezzo ai tronchi dove ogni creatura appare remota e irrimediabilmente incompleta, lasciando alla nostra immaginazione l’impresa non facile di colmare il vuoto.

Attrazioni simili, nel contesto rurale dell’America d’inizio secolo, tendevano ad avere un significativo successo e non sarebbe del tutto esagerato affermare come il pagamento di un singolo nichelino per l’occasione di conoscere il mostro di Rhineland avrebbe messo il piccolo centro sulla mappa, incrementando in modo significativo la sua fortuna. Il che avrebbe attirato, sfortunatamente, l’attenzione di un gruppo di studiosi provenienti dallo Smithsonian, che al volgere di tale decade ottennero d’intervistare direttamente Shepard e poter vedere coi propri occhi il mostro in questione. Un approfondito scrutinio dinnanzi al quale, egli non poté far altro che ammettere l’evidente realtà. Eppure… Nell’immaginario collettivo dell’intera regione dei Mille Laghi, nella mente degli abitanti di Rhineland, nell’intera cognizione collettiva dell’inconoscibile “mondo selvaggio” lo Hodag, in un certo senso, esiste ancora. Vedi l’opera degli scrittori di romanzi e saggistica contemporanei che, come nel caso delle mitiche avventure in realtà per lo più letterarie del gigantesco boscaiolo Paul Bunyan, fecero tutto il possibile per ricollegarlo al canone nebuloso e “pur sempre possibile” dei vecchi racconti popolari. In una versione della storia particolarmente celebre, scritta da Luke Kearney nel 1928, il mostro viene quindi descritto come la manifestazione fisica del rancore di un bue sottoposto a cremazione dopo la sua dipartita, desideroso di vendicarsi dei maltrattamenti subiti ad opera dei suoi padroni umani. Qualcuno affermò a tal proposito che che potesse trattarsi dello stesso Babe, l’amorevole e fedele bestia di Bunyan, nota per le sue dimensioni egualmente spropositate assieme al caratteristico colore blu. In Fearsome Creatures of the Lumberwoods di William Thomas Cox (1878–1961) si parla invece di una sorta di dinosauro redivivo e biologicamente credibile, capace di buttare giù dagli alberi i porcospini utilizzando il suo corno simile a una vanga. Per poi procedere, cautamente, nel fagocitarli.
Ciò detto, resta indubbio l’entusiasmo nelle decadi da parte degli abitanti di Rhinelander per la loro imprescindibile scintilla d’originalità. Con svariate statue del mostro, nelle sue molteplici interpretazioni artistiche, che oggi campeggiano in vari luoghi della cittadina incluso lo stadio e il piazzale dinnanzi alla camera di commercio. Un museo dedicato ai suoi avvistamenti, un negozio di souvenir itinerante e un festival musicale intitolato orgogliosamente allo Hodag. Per non parlare della mascotte della squadra di football del liceo locale, arrivata seconda nel 2023 all’annuale competizione della SBLive per determinare il miglior personaggio usato per rappresentare i contendenti nella lega giovanile statunitense. Dietro il “diavolo bambino” dei Cary Imps, ma probabilmente soltanto in forza della sua stereotipica graziosità o carineria infantile. Oppure, chi può dirlo, uno dei giudici era un cinofilo ed amante dei bulldog.

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