L’orbita mannara dei Pikachu ballerini

Pikachu Dancers

Nel suo sguardo c’è la furia elettrica degli elementi. Giallo, quanto una banana. Con due dischi rossi sotto gli occhi: guance imporporate, solisombra, emblemi suggestivi di battaglia; cosa resta, in lui, del topo? Non è chiaro. Ma del dolce personaggio dei cartoni ancora meno, perché è orribile a vedersi, se lo privi del contesto. Mentre dondola, suggestionato dal mistero. Giappone, terra di mascotte. Quasi ad immortalare la mistica credenza che ogni cosa abbia uno spirito invincibile, che rinasce dall’incontro col bisogno, più che mai contemporaneo, di donare un volto alle possenti multinazionali, alle iniziative commerciali, alle infrastrutture della società. Una famiglia che si accresce col passare dei minuti, questa dei pupazzi e pupazzette colorate d’Oltre-Asia. Giusto nella scorsa settimana, per dire, abbiamo assistito al varo mediatico di ben sei dierse moefications (loghi antropomorfizzati) con altrettante ragazzine disegnate: tre per l’Accademia Nazionale delle Forze Armate, grazie alla mitica matita di Fumikane Shimada, e tre spensierate girls per la metro di Kyoto, in collaborazione con l’antica rocca del castello Nijō – chissà che avrebbe detto il fiero Tokugawa. Si, perché succede soprattutto questo. Dall’antica tendenza nipponica ad identificar le cose utili, con creature misteriose, buffi mostri ed animali, si è passato a una diversa preferenza; la giovin-ragazza che va a scuola. Chiaro simbolo concettuale di spontanea grazia e dell’entusiasmo senza fine della gioventù.
Così nasce questo scisma. Che è anche una guerra, primordiale, tra visioni contrapposte ed altrettanto inconciliabili; se persino la placida Nintendo, sull’onda del successo della new-wave di anime (cartoni animati) e manga (fumetti) si rivolge al fascino di personaggi dalle proporzioni maggiormente conturbanti – Zelda immaginata come splendida guerriera e spadaccina, fra le vecchie glorie, e poi quella Samus, la cacciatrice cosmica, rivestita in avvolgente tuta-zero; per non parlare, giammai non azzardiamoci, della scostumata Bayonetta – Allora c’è un chiaro problema di sovrapposizione delle responsabilità. Se anche le grazie delle forme femminili, una volta sufficientemente esposte alla ragione degli sguardi, diventano magiche, che me ne faccio di tutti quei draghetti, degli uccelli fiammeggianti, delle tartarughe e di quegli altri matti cosi! A che serve Godzilla, se una sola semplice fanciulla del tempio, evocato il potere della spada nello zaino, può abbatterlo in un gran colpo dato al grido riecheggiante di HENGEN – Trasformazione… In eroina dei tempi moderni, un’altra ancora e meno male.
Non si tratta a mio parere, sia ben chiaro questo, di una crisi dei creativi. Anzi, tutt’altro, sono i segni di un passaggio generazionale. Laddove si sognava, fino a circa l’altro ieri, di evocar gli spiriti patròni dei nostri antenati, perché vigeva la visione dello Shinto, del Taoismo, dello Sciamanesimo, oggi siamo tesi, nel moderno leggendario, all’auto-miglioramento individuale, teorizzato dal Buddhismo tutto, e dallo Zen sopra ogni altra corrente del Giappone. Così che, tra le diverse esportazioni proto-letterarie, trionfa questa, così perfettamente allineata col bisogno universale di essere attraenti, furbi, adattabili e segretamente preparati. Ad affrontare, le difficoltà. Dall’interno verso l’esterno, come l’emanazione del supremo Ki spirituale. Invece che il contrario.

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