Le ornate vesti e la parrucca rockabilly dell’agguerrito passero himalayano

Quotato illustratore, naturalista e valido membro della Royal Society fin dall’epoca del suo ritorno dal Brasile nel 1820, William John Swainson osservò intento l’esemplare preservato giunto con il resto dei campioni dal suo fornitore con base nell’Estremo Oriente. Ah, l’Asia! Terra di misteri e meraviglie, sebbene i suoi numerosi viaggi non l’avessero ancora condotto verso quei particolari lidi. Ad incontrare in prima persona creature come questa: verde, giallo e nero con la lunga coda di colore blu cielo, l’uccello non più lungo di 20 cm sembrava concentrato nel guardare fisso verso un punto arbitrario dell’orizzonte. Ma così come il sole si apprestava a tramontare, proiettando ombre suggestive tra le strade e vicoli di Londra, il passero sembrava monopolizzare l’attenzione nell’attesa di essere il soggetto del suo lavoro. D’un tratto, egli si rese conto di aver trovato la soluzione a due problemi allo stesso tempo: punto primo, aveva trovato il soggetto per la copertina del suo prossimo volume stampato con tecnica xilografica, in base allo schema cromatico da lui distribuito alle principali tipografie londinesi. Ed inoltre si sarebbe infine meritato la benevolenza del suo vecchio amico George Ramsay, nono conte di Dalhousie, andando incontro alla richiesta, scherzosa eppure enfatica che più volte aveva posto sul suo cammino. “Ti presento, vecchio mio, lo Psarisomus dalhousiae, così denominato a titolo della tua stimata consorte, Christina Broun.” È semplicemente… Magnifico. Ma una singola domanda avrebbe condizionato la sua intera descrizione della nuova specie e tutto ciò che avrebbe scritto nelle estensive didascalie alle illustrazioni dell’ispirata creatura: “In quale modo il passero splendente può essere inserito in un sistema d’insiemi interconnessi, in base all’armonia quinaria che ricorre in ogni sorta di suddivisione tassonomica dell’Esistenza?”
Già, erano tempi più semplici e complicati al tempo stesso. Un trentennio prima della pubblicazione dell’origine delle specie di Charles Darwin, era convinzione stimata di molti scienziati che ogni forma di vita, ma in modo particolare le categorie degli uccelli, fossero definibili secondo una metodologia del tutto arbitraria, eppure matematicamente imprescindibile su base di cinque. Il che non gli impediva, d’altra parte, di apprezzare la straordinaria varietà di forme e colori presentate dalle mani spesso imprevedibili di Dio e la Natura.
Così che il beccolargo codalunga, come sarebbe stato chiamato con piglio estremamente descrittivo nelle successive disquisizioni divulgative a margine del mondo accademico, sarebbe presto diventato un favorito di coloro che volevano affrontare il tema della diversificazione naturale in luoghi e terre remote, pur mediante approcci funzionali che a loro sembravano ricorrenti. Un altro nome di questa sgargiante creatura, non a caso, è per l’appunto beccolargo “pappagallo”, per analogia con la tipica creatura variopinta delle canopie del Pacifico e l’America Meridionale, dove Swainson si era già estensivamente avventurato nel corso della sua articolata carriera, così come in seguito sarebbe emigrato in seguito in Nuova Zelanda, per sfuggire alle insistenti critiche dei detrattori del sistema quinario.
Con quel nome specifico, per tornare al vero protagonista della nostra trattazione, che allude dopo tutto non soltanto all’estetica della creatura, bensì anche alla sua natura largamente onnivora e l’uso versatile che fa delle sue appuntite e forti fauci, nella fagocitazione di frutta ma anche insetti, piccole rane e persino l’occasionale mammifero di passaggio nel suo territorio. Giacché nessuno, nell’osservare questa stravagante primadonna, potrebbe dubitare di una latente insicurezza nei confronti delle doti di cui la natura gli ha fatto dono…

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